Arialda Repossi è una donna che ha passato gli “anta”: «un tesoro un po’ stagionato e duretto» si autodefinisce. Ha i capelli tinti, l’unica “civetteria” che le è rimasta. Di professione fa la camiciaia; ha un amore non consumato alle spalle: quello per Luigi, morto prima di essere finito nelle sue braccia. Il suo piano ora è quello di darsi un po’ di felicità con un uomo rimasto vedovo, Amilcare Candidezza. Arialda aveva curato con grande affetto la moglie di lui, Vittoria, e lei le aveva passato il testimone, candidandola a prendere il suo posto a fianco di Amilcare. Però la vicenda volge presto in tragedia, dalla quale escono tutti sconfitti: Sarah Mazzetti ha voluto riportarla alla sua natura di un “teatro della vita”, interpretato da ceramiche che sembrano gridare davanti a noi la loro disperazione. Una vicenda come quella di Arialda si consuma alla periferia di Milano, ma avrebbe potuto consumarsi ad Atene o Stratford-upon-Avon. Nel teatro di ceramica, di un nero fumo come la nebbia della città o come la tragedia che sta maturando, compaiono Arialda, a mani levate e il suo amore, Luigi, dalle mille mani che la importunano anche da morto con i sensi di colpa, strappato alla vita senza lasciar neanche il tempo di consumare un amplesso. C’è Amilcare, tanto corpo e poca testa. C’è Eros e con lui c’è, simboleggiato, il personaggio che la censura aveva cancellato, Lino, il giovane amato dal fratello di Arialda e morto in un incidente di moto. Muore anche Gaetana, la donna che si era intromessa tra Arialda e Amilcare: si toglie la vita dopo essere finita in una trappola ordita dalla protagonista. L’urlo finale, da eroina tragica, è di Arialda: «E adesso venite giù, o morti. Venite. Perché se i vivi son così, meglio voi. Meglio la vostra compagnia. Venite tutti».







