Se con Iva l’immaginazione di ognuno gioca un ruolo importante, per Zehra Doğan nulla è lasciato alla fantasia e le sue opere in mostra narrano fatti reali vissuti sulla propria pelle durante i duri anni di carcere per il suo attivismo, nato per superare il sessismo tra i media e dare voce a tutte le donne, in particolare quelle ridotte in schiavitù dall’ISIS. “Mi domandano sempre perché le donne dei miei disegni sono tristi. Non lo faccio apposta. Le disegno e mi rendo conto dopo che sono tristi. Quale donna, che sia testimone di ciò che avviene in queste terre, potrebbe essere felice? Io, per esempio, non sono felice. E non lo sarò mai.”
Pensieri che gridano la verità dei fatti, come quella che ritroviamo nell’opera The red army in my pants – 2, che, impregnata di sangue mestruale, si riferisce alla politica e alla moralità che il patriarcato impone alle donne. Vagine che sputano sangue mestruale o peli di pube, strumentalizzati da chi vuole indurre una percezione di disgusto, diventano per Zehra un mezzo di protesta ai cliché secondo i quali gli uomini penetrano le donne e le donne vengono penetrate. Aprire il proprio corpo significa sputare sangue e soffrire, proprio come dipingere in carcere quando le era vietato. Per Zehra Doğan, come per Carol Rama, ciò che viene scartato, considerato inutilizzabile, è necessario e utile al lavoro, andando a cancellare ogni immediato piacere possibile.





