Il giorno dell’inaugurazione Giorgia Ohanesian Nardin, artista di discendenza armena, ha realizzato una performance che ha spinto lo spettatore a considerare il proprio quotidiano e a fare i conti con i giorni nostri. La performance non si ripeterà, e parte della buona riuscita della stessa è dipesa dalla reazione del pubblico rispetto alle azioni e alle parole di Giorgia. Alternando danze, in cui il ventre vibra in modo quasi schizofrenico, alla lettura di alcuni testi suoi o scritti da figure che le sono state d’ispirazione – come Armen Ohanian, danzatrice, attrice e scrittrice armena morta nel 1976, la quale scrive: “Così grande è la nostra venerazione asiatica per la maternità, che ci sono paesi e tribù il cui giuramento più solenne avviene all’altezza del ventre, perché è da questa coppa sacra che ha avuto inizio l’umanità. Ma lo spirito dell’Occidente aveva toccato questa danza sacra, e divenne l’orribile danza del ventre”– Giorgia porta il pensiero dello spettatore a cercare sotto la superficie, alla ricerca di un segreto e del suo opposto.
Ci chiede: “Se questo momento avesse una dottrina, come si chiamerebbe? Quali sarebbero le parole?” O ancora: “Come si chiama il desiderio di essere presenti alle cose fuori da un avanzare? | Una fine è (già) un avanti.” Il poetico intreccio delle parole di Giorgia ai movimenti del suo corpo vivo, che disegna segni nello spazio come se fossero geografie di una migrazione, pare criticare i messaggi dei mezzi di comunicazione di massa. Il suo è un lavoro che va oltre la fluidità che le artiste femministe americane degli anni Novanta affermavano attraverso un linguaggio prepotente, caratterizzato dall’esibizione di una evidente mascolinità in cui la maternità era una trappola in contrapposizione alla sottomissione della donna. Giorgia ha il dono della dolcezza e non c’è furia o tragedia nel suo vivere quotidiano, ma solo la consapevolezza di voler affermare la metamorfosi della storia.
Della sua performance rimarranno, per tutta la durata della mostra, le opere fotografiche di Iman Salem che con il suo archivio visivo vuole raccontare le generazioni di origine migratoria e che, in occasione di questa performance, ha testimoniato con la sua macchina fotografica lo sforzo del vivere il lavoro dell’artista.



