CAROL RAMA 

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Questa artista ha scardinato per prima i livelli a cui la nostra mente è quotidianamente abituata, inventando una nuova narrazione. Carol Rama è “un angelo luciferino, affabile e selvatico; è una dilettante suprema: è una naufraga mai arresa al banale; è un fool manganelliano e un coboldo incendiario; è un artifizio, una messa in scena perfetta, è un mosaico di ruderi, di avanzi corrosi del passato; è una costruzione letteraria, è una poesia di Sanguineti e un pezzo di Baudelaire; è esotica, erotica, eroica… È Molly Bloom o Alice, la signora Ramsay o Pandora, Sisifo, Icaro, Gorgona o Cagliostro, Medusa o Euridice senza Orfeo? Nessuno, nessuno può saperlo. L’artista si dà e si nega, gravata da un mistero permanente”. Per me lei rappresenta un punto di vista differente, ovvero quello di una figura che ha voluto scombinare le carte in tavola, colei che ha usato oggetti misconosciuti per raccontarci ciò che leggeva sui giornali o guardava in televisione senza necessariamente cadere nell’autobiografico “anche se della sua vita, nessuno” – come racconta l’amico collezionista e gallerista di Carol Rama, Stefano Testa– “saprà mai come davvero siano andate le cose o meglio ciascuno di noi vive grazie alle opere di Carol Rama il proprio vissuto, dolce o amaro che sia”. Carol Rama vuole metterci davanti a quello che accade suggerendo il peso di ciò che sulla tela non c’è, il peso dei nostri pensieri, delle nostre gioie e dei nostri dolori senza nascondere nulla sotto al tappeto perché la vita è questo e le opere sono i “buchi di me”, come amava chiamarli. Unghie “per offesa o per difesa”, come le definisce Stefano Testa, o unghie-artigli, come le chiama Lea Vergine, che per Carol non sono altro che unghie che graffiano, messe lì con rabbia accompagnate da una macchia di colore rosso: “Il rosso!… e anche il nero… io sarò trent’anni che mi vesto di nero… il rosso perché è sempre stata una cosa che mi sarebbe piaciuta di essere… fare il torero… essere un maschio bello, fare incazzare tutti: uomini, donne, bambini, vecchi, vecchi che sparano per me… pazzesco!”. Gli oggetti che ha in casa sono gli elementi che compongono le opere, come L’isola degli occhi, una tela di grandi dimensioni che Carol trasforma in due enormi ovaie che fanno da contenitori di quella moltitudine di occhi di bambola che, immobili, guardano al mondo e chiedono di essere riconosciuti. Carol, che qui vuole renderci partecipi del piacere della maternità, non può trascurare di renderci partecipi anche del dolore della perdita di un figlio o di un aborto, ed è così che nasce Melodramma un grande ammasso di materia nera che pare colato dal cielo a forma di grembo materno, circondato non da occhi di bambola ma da nove teschi, come nove sono i mesi che devono passare perché il corpo metta al mondo un figlio — un figlio che con ogni probabilità non arriverà mai, magari perché frutto di uno stupro.

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