Giovanni Testori

MACELLERIA

Stanza 8

«Come decidere a che punto cominciano e dove finiscono, in queste icone al tempo stesse domestiche e rituali – in queste istantanee scattate sullo sfondo d’una duplicità  memoriale nella quale sembrano confluire la solennità  enigmatica dei sacrifici biblici e il frettoloso, rabbioso pragmatismo di Françoise, la cuoca della Recerche, alle prese con una “bestiaccia” che non si decide a morire – il dominio del raccapriccio e quello della pietà , la provincia del desiderio e quella del rifiuto, il comprensorio della condanna e quello del perdono? Che sia impossibile rispondere non è, credo, che la conferma di una complessità che molto prima era stato impossibile non intuire e nella quale precipitano, integrandosi a morte, anche la maestria del segno e l’impronta dei maestri – così fraterni, così fatali, questi, da diventare, in un certo senso, addirittura anonimi, da non essere più identificabili, che ne so, come Courbet o come Bacon, ma soltanto e alla rinfusa, appunto, come “maestri”

In una continua sperimentazione tecnica, con queste opere Testori mette alla prova l’acquerello, qui usato secco fino allo spasimo, tanto da renderlo irriconoscibile. Il reperimento degli animali da ritrarre, ove non possibile in una macelleria, si lega a macabri aneddoti famigliari, fatti di gattacci neri uccisi per l’occorrenza con la carabina e recapitati in un sacco a domicilio, in tempo per far svenire ignare portiere, colpevoli di eccessiva curiosità.

I QUADRI DI IOLAS

Stanza 6

«Credo che pochi artisti italiani portino nella propria figura le stimmate dell’“artista moderno”, come Giovanni Testori. Il suo bisogno fatale di andare oltre, sempre più avanti e lontano, dove nessuno possa sostare con lui: il suo disperato desiderio di conoscere il peccato, la dannazione, il rimorso e il delirio; e la fredda volontà di costruirsi, giorno per giorno, ora per ora, libro per libro, un destino tragico, cosa più moderno di questo? Davanti a una volontà come la sua, ognuno di noi si domanda fino a quando potranno resistere, senza cedere o spezzarsi. Per conto mio, debbo confessare una ammirata avversione. Anche se è ingenuo scriverlo, vorrei che tante energie scatenate a infrangere ogni limite si raccogliessero dentro i limiti che ci sono concessi. Ma cosa cerca, Testori, dietro la forma? Sebbene mi sembri quasi empio parlarne, egli cerca Dio, il cui vero nome sfugge all’arte, come ad ogni filosofia; e il peccato assoluto, il male senza rimedio, che sono ugualmente irrappresentabili con le parole e i loro colori umani
Pietro Citati, 1974

Nel 1974 Testori espone alla Galleria Iolas di Milano, diretta da Alexander Iolas, il grande mercante internazionale di origine greca. Dall’olio passa all’acrilico: in una serie di dipinti quasi monocromi, la materia si fa meno frastagliata. Le grandi figure femminili, sul punto di lasciarsi inghiottire dal fondo bianco, sprigionano la loro forza nella vitalità del sangue.

I QUADRI DI TAZZOLI

Stanza 4

«I giovani atleti nudi dipinti da Testori […], attraverso una lunga storia di incroci, di mutazioni, di arricchimenti cromosomici, discendono dal Bacchino malato o dal Narciso del Caravaggio, mettendosi accanto ai giovani saltimbanchi di Picasso epoca rosa e blu e con affinità spirituali più fonde accanto ai clowns ed ai forains, alle cavallerizze ed alle prostitute di Rouault, alla loro quasi animalesca volontà di lotta e capacità di resistere, di incassare i colpi […]. La bellezza di questa pittura non può essere colta per interno se non si avverte ch’essa rappresenta un atto di salvazione e dà forma ad un atto di fede nella vita delle cose amate, cose appunto, ed ad un atto di partecipazione alla loro ineliminabile malinconia.
Questi giovani atleti nudi rappresentano lo stato d’innocenza dei ragazzi di vita del 
Dio di Roserio, del Fabbricone, delle storie del Ponte della Ghisolfa, cioè le figure in cui si chiudono, quasi in attesa di nascere, se un gesto di verità  e di amore li libera dal limo. Nella Grecia dei tempi d’oro gli artisti compivano lo stesso miracolo, ma senza lasciare un posto all’uomo. I giovani atleti nudi prendevano la forma degli eroi e degli dèi. Una forma che per Testori è soltanto speranza, anzi malinconia e fame. I suoi giovani restano sulla terra, questa terra, in mezzo a noi. Sono nervi e muscoli, carne che può gareggiare e può amare ed essere amata, e cedere alla fatica, e cadere smemorata nel sonno. Morire ogni giorno
Luigi Carluccio, 1971

Nel 1971 Testori espone a Torino, nella Galleria Galatea di Mario Tazzoli, il gallerista a cui
spetta la prima mostra di Francis Bacon in Italia e mercante di fiducia della famiglia Agnelli.

ERODIADE

Stanza 3

«Nel nostro caso la testa del Battista è diventato l’oggetto, il simbolo, il mondo dell’infinito dolore e della più disperata disperazione. Testori si è assunta la parte, accanto a quella dei carnefici, di strappare la testa del Battista con tutti i suoi fili, con la carne e soprattutto il sangue. In effetti, il disegnatore è riuscito così bene in quest’opera di dissezione e di immedesimazione da lasciare lo spettatore nelle mani dell’artista che diventa creatore, sia pure creatore nella morte. Ma l’album di questi disegni ha anche una forza divinatoria, nel senso che prelude a quella che sarà dopo il 1968 l’evoluzione di Testori, la sua straziante discesa agli Inferi. Lungo tutti questi anni Testori ha in qualche modo sfidato il suo e nostro Dio, nel tentativo di ripetere la storia stessa della Creazione: si è fatto attore e vittima, si è fatto padrone e servo. Ma procedendo sempre insieme, in fondo senza separazioni di parti e di ruoli: da quella testa sacrificata ha saputo estrarre il moto della vita, quel doppio registro dell’attesa e della sconfitta che il poeta Testori pratica con lucidità ma anche con molta oscurità
Carlo Bo, 1987

Nel 1968, durante la stesura del dramma teatrale Erodiade, Testori disegna con la stilografica un gran numero di Teste del Battista straziate da uncini e deformazioni: nove occupano alcune pagine del quaderno manoscritto, lasciandosi incorniciare dal testo, altre 72, realizzate su quaderni analoghi, vanno a costituire una serie numerata.
L’anno dopo, passando dalle teste umane a quelle animali, riprenderà a dipingere a olio. Il ciclo delle 72 teste venne presentato al Centre Georges Pompidou di Parigi nel 1987, in occasione della messa in scena dello spettacolo.

L’INCENDIO DI VIA SANTA MARTA

Stanza 1

Negli anni Quaranta Giovanni Testori (1923-1993), prima ancora che come scrittore, è noto ai più come un pittore e critico realista, solidale con l’esperienza della scuola milanese uscita da “Corrente”, compagno di strada di Morlotti, Cassinari e Guttuso. Anche i suoi interventi come critico militante sono dettati dalla necessità di trovare, innanzitutto per sé, una strada percorribile nel realismo italiano, capace di andare oltre la folgorazione picassiana, dopo averla attraversata.

Le quattro stagioni 
Dopo la partecipazione ad alcune mostre e premi, Testori realizza, nel 1947, un ciclo di quattro affreschi dedicati alle stagioni, per la sala da pranzo della casa del fratello Giuseppe a Novate, di cui si conservano anche i cartoni usati per lo spolvero, la tecnica di riporto del disegno sull’intonaco fresco.

Le Vele di San Carlo
Nel 1948, grazie all’amicizia con padre David Maria Turoldo, Testori ottiene il permesso di realizzare quattro affreschi, rappresentanti i simboli degli evangelisti, nelle vele della cupola presbiterale della chiesa di San Carlo al Corso. Ma il 10 settembre dello stesso anno, il Priore dei Padri Serviti responsabili della Chiesa invita una “Commissione mista, delle Belle Arti e dell’Arte Sacra” per un giudizio sugli affreschi, che personalmente non apprezza.
La Commissione dichiara che, nonostante gli affreschi avessero “dei pregi artistici” sono in contrasto con l’ambiente della Basilica. Testori fa subito le sue rimostranze sostenendo che difenderà la sua opera “a mezzo dei giornali cittadini”. Malgrado qualche voce si sia alzata in sua difesa, i più sono concordi sull’incongruenza dell’intervento e, il 23 giugno 1949, la cronaca del convento registra che gli affreschi sono stati coperti con vernice ad olio.

L’epilogo
La delusione di Testori è forte tanto da alimentare un’insoddisfazione crescente per la propria ricerca pittorica. Per Testori, evidentemente, poco valgono la realizzazione della straordinaria e innovativa Crocifissione (1949), qui posta in cima allo scalone, e l’allestimento della sua prima personale alla Galleria San Fedele di Milano (1950).
Di lì a poco, si arriva al drammatico epilogo: un grande rogo nel cortile della casa di Via Santa Marta, dove Testori aveva il suo studio. Un incendio distruttore con il quale dar fuoco a tutti i dipinti realizzati fino a quel momento e ancora presso di lui.
Con questo gesto Testori abbandona la pittura, buttandosi a capofitto nella scrittura, come critico
d’arte nel segno di Roberto Longhi e come narratore de I segreti di Milano.

Ettore Frani, RESPIRI

Stanza 22

Porre il corpo dentro l’anima e non viceversa.
Non l’opera nella stanza ma la stanza dentro l’opera, intreccio tra profondità e superficie, scambio osmotico tra viscerale e atmosferico.
Liberare aperture, nella speranza che l’opera possa accogliere le vestigia di questa epifania.
Una lingua indecifrabile trapela dalle pareti mute, e l’opera si fa orecchio, conchiglia accarezzata dalla spuma sulla rena.
Il tempo è unzione che sgorga e secca.
Toccare con gli occhi il tempo, il silenzio appeso alle pareti.
Bisogna che l’immagine respiri con esse, che si faccia soglia misteriosa.
Nel respiro c’è qualcosa che ritorna e svanisce continuamente, movimento anadiomene che suggerisce e non mostra.
Ciò che resta celato è maggiore di ciò che si esibisce.
Il respiro non conosce distinzione tra esterno ed interno, tra mio e tuo, tra individuale e universale.
Nel respiro c’è contagio, attraversamento, trasudo, umore interstiziale tra la pelle dell’opera e le vesti della stanza.
Sei opere per custodire e rivelare ciò che non può essere mostrato.
Non ci sono che resti, piccole sopravvivenze che l’opera tenta di tracciare.
Un cuore vivo riscalda i bianchi, e la superficie si scopre ricettacolo d’attesa e desiderio.
Ettore Frani

La poetica di Frani si conferma innanzitutto come una poetica del velo e dell’attesa. Egli sa interrogare la superficie della tela e la superficie del mondo perché vi sa vedere la profondità che vi è implicata. È nella superficie che infatti si dà il quadro e si dà il mondo. Ma, come diceva Nietzsche, sarebbe del tutto ingenuo pensare che la superficie sia di per sé superficiale, cioè contrapposta al vero essere del mondo, come una parte caduca e secondaria rispetto alla centralità sostanziale dell’essenza. No, Frani lavora sulla superficie ponendo nella superficie il mistero del mondo, la sua contingenza illimitata.
I suoi bianchi sono il frutto di stratificazioni di colore multiple, meticolose, liriche e, insieme, insistenti e accanite. La pace che egli raggiunge al termine dell’opera è ottenuta attraverso un lavoro tenace. Il suo bianco non è affatto un dato di partenza. Egli non parte dalla superficie, ma la raggiunge. I suoi bianchi sono così sempre popolati da macchie, ombre, presenze, piccole incisioni, scavi impercettibili, densità discontinue su uno sfondo solo apparentemente omogeneo. Il suo sforzo monocromo ruota in modo privilegiato attorno all’oscillazione dell’assenza nella presenza e viceversa. Frani costruisce i suoi bianchi attraverso la pittura e in questa costruzione eleva la superficie alla dignità di un mistero.
Il velo non ricopre l’essenza, non occulta il mistero, non nasconde il mondo. Il velo è il mondo; non c’è mondo senza velo. Il mistero del mondo è tutt’uno col mistero del velo.
Massimo Recalcati

Ettore Frani è nato a Termoli (CB) nel 1978. Vive e lavora a Roma.

Michela Forte,1900 SPIFFERI

Stanza 15

Mia nonna paterna era una sarta, la sarta più famosa del quartiere, era lei che mi cuciva tutte quelle gonnelline da bambina vanitosa che sfoggiavo a scuola, le creava da rimasugli di tanti tipi di stoffe, e così i pois si mescolavano con i fiorellini, le righe con i quadrettini; se ci penso ero inconsapevolmente punk, alternativa, oggi sarebbero vintage e andrebbero a ruba, all’epoca erano soltanto allegri e colorati, tranne una volta che per Natale avanzandogli del velluto nero mi cucì un completino con tanto di gilet abbinato. Mi faceva impazzire quel rumore di grosse forbici Zac Zac Zac, sembrava un ciak di fine ripresa ed era il suo film quotidiano, un intreccio che riempivano spazi presenti e assenti. ZAC
Michela Forte

Per entrare nel mondo di Michela Forte ci vuole la chiave… E bisogna entrare piano, in silenzio, chinando un po’ la testa.
Intimità e profondità di un mondo femminile e sacro, le opere scelte per questa mostra raccontano la sua fragilità e straordinaria forza. Difficile separare le immagini dall’artista in questo caso.
Intensi bianchi e neri che rimandano alla potenza sublime della vita, alle radici di un passato che aiuta a vivere il presente. Ho sempre amato la profonda drammaticità di queste immagini che hanno il senso della grazia. Verità e bellezza in uno scatto veloce, rapido e profondo. Fotogrammi in bianco e nero che raccontano la vita, le radici, le emozioni, i ricordi, la purezza, la bellezza, il dolore, la forza, la tragicità, l’intimità, la passione, la musica.
Le forbici che tagliano per cucire e le forbici che tagliano per salvare. La forza dolorosa, tragica e salvifica dell’amore. Il filo che in sala operatoria salva il cuore, diventa una corona della passione così viva e reale. Il melograno, frutto sacro e regale, accostato al suo corpo, unisce la santità e la bellezza, la fecondità e l’abbondanza della vita.
Oggetti quotidiani che vengono trasfigurati in un profondo significato, fino a rendere il quotidiano sacro, monumentale, senza tempo.
E sempre, anche solo un dettaglio, ci ricorda la sua presenza, perché lei si mette in gioco e ci ricorda che quelli sono i suoi occhi, che ritraggono, ricordano e amano.
Alessandra Klimciuk

Michela Forte è nata nel 1980 a Erice (TP). Vive e lavora a Milano.

Piero 1/2Botta, SCALE SENZA TITOLI

Stanza 12

La mia stanza è un luogo di passaggio e un punto di vista scomodo da cui osservarmi. Eppure sono pronto ad aspettarmi ogni volta che vi entro, temporaneamente e per non essere presente. Aspettando che nuove immagini prendano forma. Lo sforzo è estremo e raccolto in sé. Dimenticare di esistere nell’assenza. E poi esco, rimane il quadro, l’immagine figurata di ciò che sono quando ricordo tutto. La vita. La mia storia sincera e nuda allo stesso tempo appare.
Piero 1/2Botta

Più spontaneamente che citazionalmente, credo che le pitture di Piero 1/2Botta sembrino ritrovare, allusivamente, l’intimità carnale che Philip Guston prima maniera e Willem de Kooning nell’intero arco della sua opera ebbero a esprimere scomponendo e ricomponendo masse corporee e masse materiche. La gestualità e la sensualità dichiarate di Piero 1/2Botta hanno tuttavia referenze pre – o extra – pittoriche, e ovviamente altre di quanto i due maestri della Scuola di New York già mezzo secolo fa ebbero a perseguire. Sono cioè autobiografiche e bagnano nel clima nato, non solo in Italia, con la pittura della Transavanguardia. Ma come lo sarebbero quelle narrate da un insetto kafkiano: contigue, complici, contaminate, da interstizialità che appaiono quando la visione percorre a raggiera la densità e i meandri delle carni, siano esse attribuibili al corpo umano, di sé, di altri, che a presenze animali. Il percorso del giovane Piero 1/2Botta, nonostante una esplicita empatia con il colore e l’interessante modo di comporre le masse colorate zoo-antropomorfe ricorrendo ad una forma rappresa di dripping che condensa e scontorna al tempo stesso questa ritrattistica dell’anonimato, segue un percorso molto coerente nel senso che l’impronta personale è già in lui ricorrenza stilistica.
Remo Guidieri

Piero 1/2Botta è nato a Fermo nel 1977. Vive e Lavora a Milano.

Mario Francesconi, S.B.

Stanza 11

Ho eseguito ritratti di Beckett per oltre 10 anni. Beckett insieme a Cèline e a Giacometti è per me (e per molti) uno dei visi più interessanti del 900, ove arte, letteratura e poesia si incontrano in una sintesi imperscrutabile ed inafferrabile. L’immagine del drammaturgo irlandese diviene sempre più un archetipo, si allontana, si smaterializza, ed accentua la sua inafferrabilità. Per questo ho scelto un materiale rigido come il ferro, che per quanto condotto da un disegno sapiente e sintetico, cerca di catturare e fissare l’immagine, quasi di imprigionarla all’interno di un reticolo mentale, per poi tramandarcelo come icona esistenziale.
Mario Francesconi

Tu sei riuscito a sottrarti al giudizio superficiale della cronologia ed anche ed ancor più alle questioni dello stile.
Se ti va, ti dico anche il perché: perché tu sei un selvaggio, sei l’artista più selvaggio che io abbia mai incontrato.
E mi offendo quando vedo e sento parlare del tuo lavoro in senso iconografico, mi ribolle il sangue quando leggo inutili citazioni.
La tua arte è “gesto”.
È il tuo gesto che lascia senza fiato. È il rapporto fra il gesto e l’idea che con te e in te nascono insieme, ma che hanno fra loro una relazione incestuosa: sono padre e figlia e l’uno non sa dove va a parare l’altra. Si inseguono, si aspettano per frazioni minime di tempo, ma non si riesce mai a intuire chi delle due prevalga. Nel tuo gesto fino all’ultimo istante non si sa dove vuoi arrivare ed il risultato è tanto più imprevedibile quanto sorprendente.
Ecco perché le tue immagini sono pugni nello stomaco ovvero strette al cuore: sono annunci che non si vogliono sentire, sono “vanitas”, sono l’addio che non si vorrebbe mai sentire dalla persona amata.
Edoardo Testori

Mario Francesconi è nato nel 1934 a Viareggio (LU), dove vive e lavora.

Massimo Uberti, GIORNI FELICI

Stanza 10

Ho appena buttato nel cassonetto dell’immondizia decine di disegni, di appunti e qualche progetto che probabilmente, fossi stato prudente, avrei conservato e trasformato in lavori, ma ho bisogno di vedere nuovo spazio e me ne sono liberato.
Ora il mio studio è completamente vuoto e mi sento a casa.
Lo spazio della pittura è nuovamente sgombro e posso decidere di varcarne la soglia, ma non subito; per qualche istante assaporo ancora l’opportunità di avere dello spazio vuoto.
Nessun peso o incombenza si mostra al mio sguardo, mi sento bene. Vedo!
Adesso nuove immagini si affacceranno e questo mi provoca eccitazione.
Fatico non poco a trattenermi, ma devo resistere, devo stare calmo: gesti incauti in questo momento d’assenza di gravità possono compromettere tutto.
La magia privata di questo vuoto resiste alcuni istanti, attimi in cui nessun segnale è attivo, solo io e questo spazio luminoso attorno a me. Resto immobile per quanto possibile, ma stare fermo non è semplice e, poco dopo, inizio a muovermi e ci finisco dentro. Parto.
Al mio ritorno scopro con stupore che nello studio sono comparsi nuovi progetti e nuove immagini, cosa faccio? Attendo?
No. Me ne vado e provo a dormire ma mi sveglio presto, ritorno in studio e scopro che il cassonetto di fronte è di nuovo vuoto… Non resisto, sento la necessità impellente di buttare tutto. Lo faccio. Rivedo lo spazio amato.
Riparto.
Massimo Uberti

Massimo Uberti è un artista della luce, che interviene nello spazio trasformandolo in un magico gioco di costruzioni e allusioni, forme e idee. Da oltre un decennio utilizza tubi bianchi al neon per comporre immagini metafisiche e disegnare ambienti virtuali, sospesi nel tempo poetico e rivelatore dell’arte (di illuminare). Semplici profili di luce ci avvicinano alla pratica intellettiva del linguaggio (Scrittoio, 2000) o ci introducono all’immagine del luogo più familiare (Avvolgente casa, 2009). Installazioni luminose più articolate e complesse ci proiettano nell’illusione spaziale dell’illimitato (Senza fine, 2006) e nell’aspirazione temporale all’interminabile (Tendente infinito, 2008). Scritte al neon ci annunciano l’assunzione testuale (nell’arte) di una dimensione insieme fisica e mentale, concreta e ideale (Spazio amato, 2008; Altro spazio, 2010).
L’ultima creazione, concepita per Casa Testori, combina nel vuoto di una stanza elementi strutturali abitualmente usati come supporti, sovrapposti fra loro, a segmenti luminosi orizzontali di misura crescente, fissati a distanza regolare e intersecati ai primi: un’opera progressiva ed espansiva, che si eleva dal materiale all’etereo, dal reale all’apparente, dal corporeo all’affettivo (Giorni felici, 2011).
Stefano Pezzato

Massimo Uberti è nato nel 1966 a Brescia, dove vive e lavora.

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