Giorni Felici

Alessandro Mendini, LA POLTRONA DI TESTORI

Stanza 17

Una grande villa borghese accanto a Milano. E in essa l’astratta presenza di Giovanni Testori, il grande artista che ho sempre amato. Che bello compiere un gesto nella sua casa, dentro a una sua stanza. Pensieri per me pieni di storia e di memoria, parole e disegni tanto assimilati nel passato. Di questi giochi di anime è di fatto il mio spazio in casa Testori, un omaggio compiendo un esercizio parallelo. I miei stilemi sulle sue pareti, uno scatto di intesa con i suoi muri parlanti, dove con il colore provo a ripercorrere lo spirito dei suoi gesti. E poi nel belvedere a semicerchio fuori dalle due finestre una fredda poltrona di bronzo. Dove spero per qualche giorno Testori vorrà stare a meditare, cioè sulla poltrona di Testori.
Alessandro Mendini

Alessandro Mendini col suo lavoro d’intreccio, tra pittura progettata e design pittorico, si pone correttamente nella posizione di chi non può che rappresentare la contraddizione come valore della creazione artistica con altri processi produttivi passibili d’istruzioni prima dell’uso. La complessità in questo caso consiste proprio nel progetto dolce di trasferire nel campo della pittura quel raffreddamento tipico del design e in questo il calore decorativo caratteristico di quella. Si arriva così alla scarnificazione di un linguaggio depurato dall’edonismo della materia e dall’enfasi ornamentale capace di nobilitare la mancata funzionalità dell’oggetto. L’operazione è valida proprio a partire dalla ricerca di un equilibrio creativo fra le due polarità attraverso la scelta di una volubilità capace di tenere in piedi due processi creativi differenti eppure convergenti tra loro. Evidentemente Mendini ha superato la superstiziosa superbia dell’artista come architetto del mondo, di colui che deve produrre risposte costruttive alla domanda sociale di un ordine possibile e trasferibile in scala dal perimetro dell’opera a quello più vasto dell’esterno. L’intreccio operativo di Mendini comporta l’assunzione di un sistema strabico di produzione linguistica supportato sempre da un desiderio di astrazione dei generi adoperati. L’astrazione è raggiunta proprio mediante l’applicazione del metodo di contraddizione. Contraddizione della specificità linguistica raggiunta mediante, appunto, una “pittura progettata” e un “design pittorico”. In tal modo assistiamo a una de-strutturazione della pittura e del design realizzata attraverso l’ampliamento delle loro possibilità. L’ampliamento determina una perdita di confine, l’astrazione di un perimetro dell’opera che trova la propria definizione attraverso la citazione di procedure assolutamente contaminanti. La trasversalità formulata dal nuovo metodo creativo di Mendini comporta l’assunzione anche dell’architettura come vasto campo della rappresentazione, dove il modulo architettonico non è struttura edilizia ma attrezzo scenico. In tal modo non ci troviamo di fronte alla speranza avanguardistica di una sintesi delle arti quale possibile antidoto totalizzante contro la parzialità dei linguaggi e del mondo.
Achille Bonito Oliva

Alessandro Mendini è nato a Milano nel 1931.

Davide Nido, CROMATOLOGIA CONCENTRICA

Stanza 22

Finalmente siamo a giugno. Con l’estate tutto appare splendente. I miei occhi sono lenti d’ingrandimento; luce, colori, fiori, profumi, cose, persone, amici, mi fanno stare bene. Questo progetto raccoglie tutte queste emozioni in una “semina e costellazione” di colore. Evviva!
Davide Nido

Nessun compiacimento, nessuna concessione all’abilità, nessuna rilassatezza. I nodi non sono quelli raffinatissimi e numerosi della seta, i toni non sono carezzevoli e selezionati, ma il risultato è efficace. E il lavoro di Nido è proprio all’insegna dell’efficacia. La questione da cui muove è semplice e definitiva: dato un numero esiguo di elementi, che consentono un calcolo combinatorio limitato, ottenere risultati che contrastino i successi dell’immagine digitale, tecnologica, pubblicitaria, splatter. Ancora: a partire dal minimo, in termini di materia prima, raggiungere il massimo, nel senso di impatto estetico ed emotivo. È una questione definitiva perché, dalla soluzione o meno, dipende il senso stesso dell’arte nell’epoca della riproducibilità e simulazione tecnica di ogni cosa, perfino della vita. L’opera di Nido è una speranza. Anche perché dipinge senza dipingere. Davide Nido spicca nel panorama contemporaneo per il suo isolamento, per l’unicità della ricerca. A voler catalogare il suo lavoro, si deve procedere necessariamente per esclusioni. Non è astrattismo classico […]perché l’interesse per il colore è secondario e conseguente rispetto a quello per la materia, perché il “corpo” dell’opera è troppo presente per lasciar spazio a un discorso sulla monocromia, sulla campitura, sulla sfumatura; non è informale […] perché non c’è mai il compiacimento della gestualità, e la costruzione è seriale e ordinata invece che libera e irruenta, anche quando sceglie di agire velocemente e sotto l’influsso della casualità; non è optical, dato che l’artista non vuole confondere le percezioni ma concentrarsi sulla texture dell’opera, e usa i fili intrecciati e le sbavature per inchiodare l’immagine al supporto, e non per creare un movimento perenne; non è nuova figurazione perché non prova la curiosità  per il corpo, e preferisce procedere nascondendo e cancellando la figura piuttosto che cercandola. L’artista usa sempre lo stesso elemento, la colla a caldo, sparata sulle tavole o sulle tele dalle apposite pistole termiche, per ripensare le conquiste formali della ricerca contemporanea, per sperimentare se siano compatibili o meno con l’utilizzo di una materia diversa, alternativa, industriale, futuribile. Non lo fa scientificamente, non si tratta di un’indagine propositiva e indirizzata. Agisce d’istinto, dove vede possibilità di movimento, spinto dal desiderio d’esplorazione, dalla voglia di sfidare un limite. Anzi, due: quello dello strumento, la colla, mai prima considerata medium espressivo, e quello della pittura. Perché Nido, paradossalmente, è un pittore, e di quelli più conservatori. Non usa l’olio, l’acrilico o la tempera, se non per i fondi, ma le sue ossessioni sono quelle di chi dipinge: conquistare spazio, simulare un volume, creare uno spessore, interpretare un colore, condensare un racconto in un’immagine, in un flash.
Maurizio Sciaccaluga

Davide Nido (Milano, 1966 – 2014). Nel 1993 ha tenuto la sua prima personale alla Galleria Eos di Milano. Nel 1994 ha esposto alla Mellauer Werkstatt Gallerie di Vienna, nel 1995 e nel 1998 a Genova: alla Galleria Leopardi V Idea e alla Galleria Andrea Ciani. Nel 2001 gli sono state dedicate tre mostre personali: Sognareallo Spazio Obraz di Milano, Folle in una notte di Primavera (con Federico Guida) alla Galleria Roberta Lietti di Como e Roarangiaroncelindavio alla galleria Paolo Majorana di Brescia. Nel 2003 ha esposto nel Palazzo del Broletto di Como, nel 2004 alla Galleria Bonelli Arte Contemporanea di Mantova e nel 2005 alla Galleria Carloni Spazioarte di Francoforte. Nel 2006 ha tenuto una personale alla Galleria Blu di Milano e alla Galleria Bonanno Arte Contemporanea di Trento. Nel 2007 la Galleria Gianna Sistu di Parigi ha ospitato la mostra Davide Nido e nel 2008 la Galleria Bonelli Arte Contemporanea di Los Angeles ha presentato Spider Man. Ha esposto al Palazzo Reale di Milano nel 2007, al Palazzo delle Esposizioni di Roma nel 2008. Nel 2009 ha partecipato alla 53a edizione della Biennale di Venezia esponendo tre opere nel Padiglione Italia. Nel 2009 si è tenuta Davide Nido – Onda Frattale alla Galleria Roberta Lietti di Como e A Campus Point al Politecnico di Lecco.

Sergio Fermariello, GUARDIANI DEL SOGNO

Giardino

L’installazione è composta da una serie di strutture d’acciaio marino, ruote deformate a guisa di palette di fico d’India, che si contrappongono ad una struttura portante realizzata in acciaio corten, a rappresentare il tronco della pianta stessa del fico. Il tronco a sua volta è formato da una serie di maschere dai tratti deformati. L’impressione che si presenta alla vista dell’osservatore è molteplice: di volta in volta si osservano le ruote nel loro impossibile movimento, costrette nei loro telai irregolari, a guisa d’orecchie d’asino, oppure risaltano alla vista le maschere rugginose, ed infine nel complesso, si osserva l’intera struttura vegetale della pianta. Caratteristica della pianta del fico d’India è quella di potersi riprodurre non solo per via sessuale ma anche per gemmazione, ossia di potersi moltiplicare per semplice divisione spontanea, tramite le foglie, per clonazione delle sue stesse cellule. E così, come il mio lavoro è sempre stato una ricerca sulla moltiplicazione spasmodica ed ossessiva dell’identico, così ritrovo nel modo di riprodursi della pianta del fico d’India il simile meccanismo parossistico e persecutorio che contraddistingue i miei lavori. L’opera sembra ricordarci come, da una parte le ruote della storia si siano fermate, non girino più, essendo esaurito lo spazio che le possa contenere, e come ognuno di noi, come criceto nella ruota, s’inventi di volta in volta, nel destino della propria pratica di esistere, una traiettoria più o meno circolare che trattenga la propria inerzia e, d’altra parte constatiamo come la pianta continui nonostante tutto a crescere, a riprodursi moltiplicando le sue foglie, questa volta per scollamento, nell’orizzonte globalizzato di tutti i sistemi metastatici, dove tutto si riproduce senza ordine e freno. La radice brunita del tronco, coagulata nella smorfia di tanti ancestrali antenati, come tante maglie di una catena spezzata, resiste nello sforzo di reggere il peso del senso e si dispone a monito e a guardiano della nostra già avvenuta sparizione.
Sergio Fermariello

Nelle mani dell’artista simboli e ideogrammi s’infittiscono e moltiplicano fino a sembrare un brulicante formicaio di concetti e di rimandi, s’ingigantiscono fino a farsi memento mori per un intero popolo, s’incidono e stampano nel metallo più duro fino a diventare imponenti come vessilli, e sempre sottintendono la capacità di catturare, convincere, trasportare. Ma convincere di cosa? Trasportare verso dove? Non è chiaro, perché l’autore ha fatto dell’ambiguità – tra fondo e primo piano, tra tela e rilievo, tra ombreggiatura e ombra, tra senso storico dell’immagine e nuove possibili interpretazioni – un suo cavallo di battaglia, ma risulta comunque evidente che ciò che conta per lui, più del messaggio, più della comprensione, è il veicolo del senso. Quasi che la scrittura non fosse un mezzo ma un fine, quasi che icone e segni non dovessero essere interpretati ma potessero vivere di vita propria. Quasi che, sulle tele, nelle sculture e nelle installazioni, non si dovesse trovare un racconto riassunto e tramandato da una serie di simboli ma piuttosto grafie e disegni che, di volta in volta, inscenano una storia diversa, tutta ancora da vedere e raccontare.
Maurizio Sciaccaluga

Sergio Fermaniello è nato a Napoli nel 1961. Nel 1989 ha esposto per la prima volta alla Galleria Lucio Amelio di Napoli, con la quale ha intrapreso una lunga collaborazione. Nello stesso anno ha ottenuto il Premio Internazionale Saatchi & Saatchi per giovani artisti al Palazzo delle Stelline di Milano. Nel 1990 ha esposto alla Galleria Il Capricorno di Venezia e nel 1992 alla Galerie Yvon Lambert di Parigi. Ha partecipato ad alcuni appuntamenti internazionali quali la mostra Metropolis alla International Kunstausstellung di Berlino e la mostra Les pictographes al Musèe de l’Abbaye Sainte-Croix di Les Sables-d’Olonne nel 1991. Nel 1993 ha partecipato alla 45a edizione della Biennale di Venezia con una sala personale nel Padiglione Italia. Nel 1995 ha esposto Opus Alchemico alla Galleria In Arco di Torino, nel 1996 ContemporaneaComo 2 a Villa Olmo a Como e Homo necans alla Galleria Lucio Amelio di Napoli. Nel 1997 si è tenuta la mostra Sergio Fermariello. Lavori 1990-1997 presso l’Istituto Italiano di Cultura di Colonia e nel 1999 ha realizzato l’istallazione Avviso ai Naviganti a Castel dell’Ovo di Napoli. Nello stesso anno ha esposto alla Galleria Jan Wagner di Berlino, nel 2000 alla Galleria Ronchini di Terni e alla Galleria Scognamiglio & Teano di Napoli. Nel 2004 gli è stata dedicata una retrospettiva a Castel Sant’Elmo a Napoli e nel 2005 ha realizzato un’istallazione nella darsena “pier17” a New York. Nello stesso anno ha tenuto una personale alla Galleria Scognamiglio di Napoli e alla Galleria Ronchino Arte Contemporanea di Terni, nel 2006 alla Galleria Buonanno di Milano e alla Galleria Erica Fiorentini di Roma; nel 2007 alla Galleria Fioretto di Padova e nel 2008 alla Galleria Ronchino di Terni. Nel 2009 gli sono state dedicate due personali al MAC di Niteroi in Brasile e al PAN di Napoli.

Turi Simeti, QUADRI BIANCHI

Stanza 1

Presentare un lavoro che si fonda sulla riduzione del segno, del gesto e della forma, in questi ultimi anni nei quali la proliferazione e la contaminazione dei linguaggi ha spesso sovraccaricato la percezione visiva del manufatto artistico, è un’impresa complessa per non dire ardua. L’estrema essenzialità del lessico di Simeti potrebbe apparire “petrosa”, ad un osservatore di questo primo decennio del XXI secolo. Diventa necessario allora recuperare le coordinate che definiscono il milieu strutturale dell’artista siciliano, i rapporti sottesi con la grande stagione programmata e cinetica dei primi anni Sessanta, fino alla lettura intima, direi, oltre che personale del minimalismo. Il superamento della superficie e del gesto si manifesta nell’adozione dell’elemento geometrico reiterato e ripetuto, a volte simile ad un emblema familiare, ad un antico blasone scolpito sul portale di un palazzo nobiliare siciliano. Oltrepassando i richiami alle valenze estetiche fantastiche, residui di ricordi infantili, la forma ovale adottata da Simeti sembra avere in fondo un’essenza biologica e organica. La cellula come elemento costruttivo primario germina sulla tela quasi a formare un organismo visivo autonomo e autoreferenziale. Un metodo che caratterizza il linguaggio dell’artista siciliano a partire dai primi anni Sessanta e, secondo la critica, connette la sua ricerca alle coeve esperienze di Castellani e Bonalumi. Diversamente da questi ultimi, però, la funzione spaziale nelle sue riflessioni risulta se non secondaria, almeno non portante, nell’impalcatura costruttiva della sua opera. L’esigenza di oltrepassare la bidimensionalità della superficie pittorica, non è sostanziale, ma è necessariamente visiva. In Simeti la metafisica dello spazio è subordinata alla ricerca dell’essenziale, infatti, nel corso degli anni Settanta, seppur non rinunciando alle forme elissoidali, ne teorizza il loro isolamento. Si scatena così un rapporto profondo e univoco fra la tela monocroma e il solitario ovale sagomato, che come una punzonatura dell’anima, lascia una traccia esistenziale sulla superficie.
Gianluca Brogna

Turi Simeti è nato ad Alcamo in provincia di Trapani nel 1929. Si è trasferito a Roma nei primi anni Sessanta e nel 1965 a Milano, dove vive e lavora. Nel capoluogo lombardo ha partecipato alla mostra Zero Avantgardienello studio di Lucio Fontana nel 1965 e ha realizzato le sue prime mostre personali. Tra il 1966 e il 1969, invitato come Artist in Residence dalla Fairleigh Dickinson University, si è trattenuto per lunghi periodi a New York. Nel 1971 ha esposto alla prestigiosa galleria M di Bochum e da Löehr a Francoforte. Nei primi anni Settanta ha realizzato personali e collettive a Bergamo, Verona, Rottweil, Düsseldorf, Oldenburg, Köln, München, Basilea e Coblenza. Nel 1980 la Pinacoteca Comunale di Macerata ha ospitato una sua mostra personale e nello stesso anno ha aperto uno studio a Rio de Janeiro. Le sue opere sono state esposte alla GaIerie Wack di Kaiserslautern nell’83, alla Galerie Maier di Kitzbüehl e alla Galerie Ahrens di Coblenza nel 1984, alla Galeria Paulo Figueiredo di San Paolo del Brasile e alla Galerie 44 di Düsseldorf nel 1985, alla Galerie Apicella di Bonn neI 1986 e alla Galerie Monochrome di Aachen nel 1987. Nel 1990 si è tenuta la mostra 58-80 Bonalumi Castellani Simeti/Tre Percorsi presso la Galleria Millenium di Milano. Nel corso degli anni Novanta ha esposto a Rio de Janeiro, Biberach, Kaiserslautern, Milano, Bolzano e Trapani, al Kunstverein di Ludwigsburg e a Erice. Nel 1998 ha tenuto una personale alla Galerie Kain di Basilea e nel 1999 ha esposto a Biberach, Ladenburg e Mannhein. Nel 2004 ha tenuto una personale alla Galleria Poleschi di Milano e nel 2005 a Lugano nello spazio ARTantide. Nel 2006 gli sono state dedicate due personali alla Galleria BIM – Banca Intermobiliare di Lugano e alla Galleria Excalibur di Solcio di Lesa. Ha realizzato una mostra alla GlobArt Gallery di Acqui Terme nel 2007 e nel 2009 alla Maretti Arte Monaco di Montecarlo. Nello stesso anno ha realizzato un’istallazione di grandi opere bianche nello Studio d’arte Contemporanea Pino Casagrande a Roma. Nel febbraio 2010 ha esposto presso la Galleria Salvatore + Caroline Ala di Milano.

LA NOTTE CADE SU DI NOIJ&PEG. Stanza 13. Giorni Felici 2010

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Una camera da letto, la stanza più segreta della casa, dove nemmeno l’ospite viene invitato ad entrare, diventa, nel percorso di questi quadri e di questa installazione, l’emblema di un mondo universale, nel quale si indaga sulla libertà e sul suo rapporto col potere. In questo ambiente l’uomo rimane solo con se stesso, finalmente libero da ogni imposizione esterna, abbandonato alla sua intimità, ma destinato comunque a soccombere davanti alle sue necessità fisiche e all’esigenza del riposo. L’essere umano, concepito con il limite del sonno, è qui già pronto ad evadere e a riscattarsi con l’immaginazione e la speranza del sogno. Una stanza, illuminata in modo da ricordare al visitatore le luci e le ombre della società contemporanea.

J&PEG

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INFO SULL’ARTISTA

Matteo Negri, LA STANZA DELLE ARMI

Stanza 5

«Sicuramente sono stati giorni felici quelli della mia scoperta della tecnica della ceramica, dei procedimenti di cottura, delle tecniche di pigmentazione a caldo e a freddo, delle dorature e delle cotture a terzo fuoco. Mine violente che mi ricordavano dei palloncini o delle sfere di cristallo, in cui poter inserire tutto quello che volevo. Sperimentazione di forme antiche che mi tornavano amiche come coetanee e presenti da sempre nella mia vita. Inizialmente le mie sculture apparivano come sfere chiuse colorate dalla superficie specchiante, interrotta qua e la da degli innesti meccanici, decorati come rosoni antichi; poi ho iniziato a rompere le sfere a far esplodere le bombe, e a costruire al loro interno delle architetture, degli altri mondi
Matteo Negri

«A un certo punto, in autunno, sono venute fuori – dal bagagliaio della sua macchina – delle sculture in ceramica bianca: un salto di qualità, improvviso ma coerente. C’è stata, immediata, la consapevolezza di avere trovato una strada giusta. E insieme la scoperta dei forni, dei passaggi delle cotture, del mondo di Curti. E la sfida dei colori, che, travolgendosi a temperature così alte, conducono a inattese inversioni sentimentali
Giovanni Agosti

L’ARTISTA

Matteo Negri è nato a San Donato Milanese nel 1982. Si è diplomato in Scultura presso l’Accademia di Belle Arti di Brera e ora vive e lavora a Milano. È autore di una ricerca plastica interessata alle potenzialità espressive dell’oggetto meccanico arrivando a coglierne l’essenza organica e architettonica, suggerendo una sorta di familiarità tra le forme contemporanee e quelle del passato. Ha lavorato per un lungo periodo al tema delle Bombe, sculture che ha esposto nel 2006 nella mostra Piccolo Paesaggio alla galleria Obraz di Milano, nel 2007 alla Galleria Annovi di Sassuolo e l’anno successivo a Bergamo, presso l’oratorio di San Lupo. Nel 2009 ha esposto alla Galleria Eos di Milano L’Ego.

Andrea Bianconi, THE BIRDS MUST STOP WHEN THE TRAFFIC LIGHT IS RED

Stanza 4

«La Stanza è un’esplorazione della mia personale geografia, è un cammino nella mia mente. È il semaforo che si trova nella mia mente, la legge a cui tutti dobbiamo sottostare, l’uccello che si trova sopra la mia testa. Utilizzo centinaia di uccelli freccia in volo, di tessuto, carta e rete metallica, tra libertà e vincolo, per portarmi e portarti da qualche parte sconosciuta. Continue sovrapposizioni, costruzioni e decostruzioni. Immagino il mio cervello, claustrofobico e complesso, come una grande voliera… Ballerei per ore in questa stanza.»
Andrea Bianconi

«Chi avesse occasione di conoscerlo, la prima cosa che noterà è che Andrea Bianconi è una persona allegra e piena di entusiasmo, che ride e sorride sempre sebbene i dittatori di questa terra finiscano sempre per venire rieletti e il nemico sembra conquistare il mondo. Da quando si parla di lui nelle maggiori testate italiane o sulle emittenti televisive è diventato una star dei mezzi di comunicazione di massa. La sua ossessione è lo spettatore e il suo sguardo. Il suo più grande timore è l’invasione della privacy e della sfera personale. Andrea Bianconi desidera esprimersi, esprimere se stesso, i suoi desideri, i suoi bisogni e le sue paure. In tal senso, ricopre le funzioni del giullare, usa l’arte come specchio della società (l’intrattenimento e la mania del controllo) e solleva, come fosse un filosofo, dilemmi esistenziali (da dove veniamo, cosa ci facciamo in questo mondo e dove siamo diretti). Ciò nonostante, non fornisce alcuna risposta, ma agisce come un creatore che usa delle lenti e, al tempo stesso, anche lo spettatore interattivo per infondere vita alle sue sculture
Oliver Tschirky

L’ARTISTA

Andrea Bianconi è nato ad Arzignano in provincia di Vicenza nel 1974. Vive e lavora a New York. Ha studiato giurisprudenza all’Università di Bologna, iniziando contemporaneamente a dipingere e a imparare varie tecniche artistiche presso laboratori specializzati. La sua personale cifra stilistica, caratterizzata da superfici iper-decorate con gusto ora naïf, ora kitsch, è ben rappresentata dalle sculture Spyetors, irriverenti contenitori di privacy, a cui sono state dedicate le mostre Italian Secret Service nel 2004 nello Spazio Obraz di Milano e Body Guard nel 2005 ad Arezzo presso la galleria Furini. Nel 2007 ha debuttato negli Stati Uniti alla Barbara Davis Gallery di Houston (Texas) con la mostra Pony Express a cura di Oliver Tschirky. L’anno successivo ha tenuto, nella stessa galleria, Mapping maps e, nello spazio Kiton a New York, la mostra Bond – There is a map in my mind and the way has no limits.

Giovanni Testori, TRAMONTI

Stanza 3

«Però, io ti assicuro che quello che mi ha sempre aiutato a vivere, e, di più, ad accettare la vita anche nella sua maledizione, è sempre stato il ritorno a casa. Si fanno queste puntate verso l’esterno – che possono anche essere violente, distruttive –, ma poi il ritorno a casa dà all’esperienza stessa di quell’uscita un calore indicibile. Perché ritornare non vuol dire affatto dimenticare, non vuol dire scrollarsi di dosso la violenza e la distruzione
Giovanni Testori

«Ho visto poche volte Giovanni Testori, e solo due volte nel suo studio. La prima impressione fu di trovarmi davanti a un frate. La seconda davanti ad un ergastolano. Infatti nei penitenziari si incontrano spesso dei detenuti che il tempo, lavorandoli, incurvandoli, asciugando loro le spalle, decongestionandoli e quasi scolorendoli, ha come consumato e rimpicciolito, senza distruggere del tutto la loro antica robustezza di complessione. Il loro volto è sereno, il sorriso dolcissimo, e nel chiaro celeste degli occhi si stempera fino a cancellarsi il ricordo di un lontano fatto di sangue. Una misteriosa venerabilità li circonda, e li fa in qualche modo privilegiati e inviolabili: esseri che il cielo ha destinato a esorcizzare con il crimine, con una nefandezza, i diavoli che ci possiedono quotidianamente. »
Cesare Garboli

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