Giorni Felici 2010

Gaia Carboni, INCIDENZE

Stanza 20
Invitata da Stefano Arienti

Il progetto pensato per questa stanza esprime una riflessione concernente due differenti elementi, riuniti, però, sotto lo stesso segno; uno è legato alla tecnica dell’incisione, nei suoi diversi aspetti processuali, l’altro si riferisce al ruolo della luce nell’incisione stessa e quindi alla sua percezione attraverso la ponderazione di diverse dimensioni spazio-temporali. La processualità propria dell’incisione viene apparentemente interrotta nell’opera Phos III. Essa, benché rimasta in forma di matrice, lascia spazio alla luce che insediandosi nei segni incisi, come se fosse inchiostro, fa emergere il paesaggio rappresentato, che a sua volta, tra le corrosioni e le inflorescenze che il tempo ha lasciato sull’alluminio, si sottopone. Tale discorso si ripresenta nell’opera site-specificAbete dove il segno inciso viene percepito sempre grazie a essa. Tale opera catapulta all’interno della stanza l’abete presente nel giardino di Casa Testori ed è il motivo principale per cui ho scelto questa stanza: l’albero in questione è esattamente centrato nella finestra che viene percepita, di conseguenza, come inquadratura perfetta di un elemento molto affine nella struttura architettonica alle forme che rappresento. La virtualità di questo soggetto che si astrae dal suo contesto introduce la dimensione metafisica dei tre disegni Dark I, II e III, in cui la luce non è più fisica ma interamente mentale ed è espressa attraverso l’uso della penna nera e quindi dell’inchiostro, che si staglia sulla superficie metallica dei cartoncini che imitano la lastra di incisione.

Gaia Carboni è nata a Torino 1980. Vive e lavora a Fidenza.

Arianna Scommegna, …ÀS

Stanza 16

Per una nata e cresciuta a Milano come me, Testori è quello che ho assaporato fin da bambina. Il suo è un meraviglioso dialetto, un brianzolo misto a latino, francesismi, onomatopee, una lingua che è corpo, terra, profumi. Tridimensionale, non piatta come l’italiano della dizione perfetta.
Arianna Scommegna

Sconvolgente dichiarazione d’amore, di morte e di vita “Cleopatras”, è uno dei “Tre Lai” i lamenti per l’amato ucciso, scritti da Giovanni Testori negli ultimi mesi di vita. È il pianto della regina d’Egitto, qui con la lombarda desinenza «as» segno dialettale di enormità, disprezzo ed equivalente al nome in dialetto di Asso in quella Brianza cara all’autore, per il suo «Gran Tugnàs», Antonio. Una donna che si esprime in quella lingua testoriana più che mai estrema, artificiale, nata da più lingue, vive e morte, da dialetti, da varianti fonetiche, impervia, oscura ma paradossalmente «naturale» e «chiara» nell’evocare la violenza delle passioni. Guidata dalla regia attenta di Gigi Dall’Aglio la bravissima Arianna Scommegna ben riesce a dare voce a questa lingua materica e alle emozioni che la pervadono, a renderla carne e sangue, e sul suo bianco costume con colori blu, verde, rosso disegnerà il luogo geografico in cui Testori la fa vivere.
Magda Poli

Arianna Scommegna è nata nel 1973 a Milano, dove vive e lavora. Si è diplomata alla Civica Scuola Arte Drammatica “Paolo Grassi” nel 1996 e nello stesso anno ha fondato, con un gruppo di compagni di accademia, l’Associazione teatrale indipendente A.T.I.R. con la quale realizza la sua attività teatrale organizzando spettacoli, laboratori, festival. Il nucleo stabile e continuativo dell’Associazione è composto da quattordici persone tra attori, regista, scenografa, costumista, organizzatrice e staff tecnico. La direzione artistica è di Serena Sinigaglia. L’associazione gestisce dal 2007 il teatro Ringhiera, uno spazio nella periferia Sud di Milano, al Gratosoglio. Tra le tante produzioni che l’hanno vista coinvolta, spiccano i tre monologhi interpretati nell’ultima stagione: Qui città di M di Piero Colaprico, La Molli (divertimento alle spalle di Joyce) e Cleopatràs di Giovanni Testori. Il 5 giugno 2010 l’Associazione Nazionale dei critici di teatro le ha assegnato il Premio Critica.

Mario Dellavedova, QUASI PURO ESERCIZIO FORMALE

Stanza 19

Per Giorni Felici si è scelto di entrare subito nei dettagli: tele che si richiamano a motivi tradizionali del sud ovest messicano tinte naturalmente e tessute su telai a mano… Che fanno da sfondo a scritte al neon (luminosità glacialmente calda)… Del genere aporie… Testi di canzoni… Frasi fatte poliglotte. Come “refined roughness” (rugosità raffinata). Una congiunzione o coniugazione tra regionale, locale, ancestrale e modernità globalizzata… Come “quasi-puro esercizio formale”.
Mario Dellavedova

Lo stile dell’artista non è facilmente identificabile, dal momento che questo è intenzionalmente “decostruito” a favore di plurime e costruttive chiavi di lettura. Le sue opere, che spaziano in diversi campi, giungono alla pittura, alla scultura, alle installazioni, ma anche ad altri mezzi, rifacendosi ad oggetti, materiali e linguaggi provenienti dalle culture passate e contemporanee. Questi elementi vengono scomposti e ricomposti azzerati e rielaborati in modo che acquistino un senso logico o una semplice e palese giustificazione a prima vista non così evidente, soprattutto se accomunati tra loro e non accumulati. La parola scritta, spesso utilizzata dall’artista, è tolta dal suo ambito culturale per essere formalizzata attraverso oggetti improbabili ma che allo stesso tempo ne caratterizzano lo stato, proponendo allo spettatore una riflessione sul ruolo dell’artista e sul linguaggio dell’arte eludendone i privilegi. Il gioco di parole, la metafora, l’ironia sottile riportano ad un ambito concettuale che di proposito contrasta con l’aspetto a volte artigianale dei manufatti prodotti o utilizzati e con la semplicità del metterli assieme.
Carlotta Testori

Mario Dellavedova è nato a Legnano nel 1958. Si è laureato in architettura e ora vive tra Taxco in Messico e Villastanza, in provincia di Milano. Le sue opere sono state esposte in molti musei e gallerie in Italia e all’estero: in Giappone, Stati Uniti, Cina, Messico Germania, Austria e Spagna. Ha tenuto la sua prima mostra personale nel 1984 alla Rocca d’Angera. Nel 1987 ha esposto allo studio Corrado Levi di Milano e alla Guido Carbone Gallery di Torino, nel 1987 a Le Case d’Arte Gallery di Cologne e nel 1990 a Le Case d’Arte di Milano, nel 1991 alla Galleria in Arco di Torino, nel 1992 e nel 1995 alla Sperone Gallery di Roma e nel 1993 nella sede newyorkese della stessa galleria. Nel 1996 ha tenuto una mostra alla Stadtpark Gallery di Krems, nel 1997 alla Galleria 1000eventi di Milano e nel 2000 la Galleria Mazzoli di Modena ha ospitato due sue personali. Nello stesso anno ha tenuto una personale al Museo de las Artes di Guadalajara in Messico, nel 2003 si è svolta la mostra And all that remains is founded by poets alla Sperone – Westwater Gallery di New York e nel 2004 Domestic lights, domestic flights, domestic delights alla Galleria Sprovieri di Londra. Nel 2009 alcuni dei suoi ultimi lavori sono stati presentati alla Galleria Mazzoli di Modena in occasione della mostra ABCD…Benvenuto, Chucchi, Dellavedova.

Armin Linke, CHIESA DI VETRO

Stanza 10

Fotografate una cosa e poi fotografatela nuovamente facendo qualche passo indietro, così potrete scoprire se il suo contesto può farci capire qualcosa in più di quella cosa.
Armin Linke

Nelle sue perlustrazioni globali Armin Linke è stato calamitato dall’architettura di luce della Chiesa di vetro di Baranzate. La parrocchia di Nostra Signora della Misericordia venne progettata da Angelo Mangiarotti e da Bruno Morassutti nel 1957, ma grande importanza ebbero i calcoli strutturali di Bruno Favini che permisero di realizzare una struttura completamente libera nel suo perimetro. Un capannone industriale virato a edificio sacro. La chiesa fece allora l’effetto di un satellite uscito da un film di fantascienza ad anticipare i tempi. La chiesa faceva cadere le cesure rispetto al mondo. La fatica del tempo segna quelle strutture fatte solo di luce e bisognose di restauri. La vita concreta le ha ormai felicemente metabolizzate. Linke coglie questa transizione avvenuta. Un senso di attesa pacificata pervade le immagini, come se il tempo invece di consumarlo desse sempre più corpo a questo spazio.
Giuseppe Frangi

Armin Linke è nato nel 1966 a Milano, vive e lavora a Berlino.

Alessandro Verdi, CAREZZE

Stanza 11

Il rosa è un colore che mi appartiene da sempre. È il colore della tenerezza che si contrappone ai colori della brutalità. Il mio lavoro si muove sempre tra questi due poli: la delicatezza e la violenza. Ma mentre la violenza l’ho sentita subito come una mia cifra espressiva, la delicatezza è invece affiorata con la maturità. Anche da giovane avvertivo che il rosa era un colore che mi apparteneva profondamente, ma in quegli anni quando mi capitava di usarlo alla fine distruggevo sempre i lavori, perché sentivo di non essere ancora pronto. Non mi sembrava di avere la sufficiente lucidità per usarlo. Oggi invece lo sento come un modo compiuto di lavorare sul corpo.
Alessandro Verdi

I suoi lavori squarciano il velo sul palpito della vita e sugli abissi della disperazione, fanno affiorare le tracce di una memoria lontanissima, archetipica e trasversale alle generazioni, registrano i sussulti della carne il suo fiorire, il suo degenerare, ascoltano il mormorio del ciclo della natura e partecipano al potente spettacolo dell’universo, tra la perdita del Paradiso e il riconoscimento dell’umano.
Gianluca Ranzi

Alessandro Verdi è nato nel 1960 a Bergamo dove vive e lavora. È stato scoperto da Giovanni Testori che ha curato il catalogo della sua prima mostra personale nel 1987 alla Galleria Compagnia del Disegno di Milano, dov’è tornato a esporre nel 1999 e nel 2005. Ha esposto nel 1993 alla Galleria Bellinzona di Milano, nel 1998 alla Galerie der KVD di Dachau e alla Casa dei Carraresi di Treviso, nel 2000 all’Art’s Events Centro d’Arte Contemporanea di Torrecuso, nel 2001 alla Fondazione Mudina di Milano, nel 2003 a Villa Pomini di Castellana, nel 2004 all’Officina arte di Magliaro, nel 2005 e nel 2007 alla Mudimadrie Galerie Gianluca Ranzi di Anversa. Nel 2008 sono state realizzate le mostre Alessandro Verdi. Il Paradiso Perduto alla Galleria dell’Artistico di Treviso e Alessandro Verdi. Corpo senza Corpo alla Galleria Blu di Milano che attualmente lo rappresenta. Nel 2009 ha partecipato alla 53a edizione della Biennale di Venezia con la mostra Alessandro Verdi: navigare l’incertezza che si è tenuta presso Campo della Tana.

Youssef Nabil, INCANTESIMI

Stanza 14

A me i vecchi film egiziani piacciono perché mi ricordano com’era l’Egitto allora e mi fanno riflettere su ciò che è diventato oggi. E mi diverto a leggere i titoli di coda tanto quanto a vedere il film! Da quelli si capisce che mescolanza di nazionalità e religioni esisteva in Egitto. Sono la dimostrazione della ricchezza culturale del paese in quell’epoca, la gente si amava di più. Si leggeva il nome di un musulmano accanto a quello di un ebreo, un greco accanto a un armeno. La nostra società era molto ricca e più tollerante.
Youssef Nabil

La sua base di partenza è un territorio di grande storia, una storia perduta di cui restano tracce grandiose, quella degli antichi Egizi, e una storia, quella islamica, che sollecita un modello differente da quello, ormai vincente, dell’Occidente: un contesto alla fine marginale rispetto al Grande Mondo, ma centrale nel proprio ambito geo politico, cosmopolita nella propria molteplicità razziale religiosa e culturale, ombreggiata da nuance orientalistiche quanto mai seducenti. La fascinazione del cinema, come quella delle grandi mitologie del nostro tempo, lo stardom, il glamour, come la credenza nel potere perpetuante dell’immagine, producono nella sua arte quel senso di nostalgia per quel tipo di mondo e di esistenza che sembra vertiginosamente allontanarsi nello spazio e nel tempo, fino al punto di apparire di non essere mai stato e di non poter essere. L’esperienza si converte nella sua arte in vagheggiamento desiderante, in sogno arabescato, in memoria destinata a sbiadirsi nel tempo. Proprio la memoria appare allora come tratto fondamentale di tutto il suo lavoro, una memoria che sembra funzionare come quei vetri colorati che filtrano la luce dalle finestre o dalle lampade nelle moschee e tinteggiano i loro interni di un’irrealtà fantasmagorica.
Pier Luigi Tazzi

Youssef Nabil è nato al Cairo nel 1972, da padre cristiano greco-libanese e madre di famiglia musulmana. Da cristiano si è convertito all’Islam all’età di trent’anni. Ha studiato Letteratura Francese alla Ain Shams University, ma la grande passione per il cinema lo ha spinto giovanissimo alla fotografia. Tra il 1993 e il 1994 ha lavorato con David La Chapelle a New York e tra il 1997 e il 1998 con Mario Testino a Parigi. Nel 2003 ha lasciato il Cairo per Parigi e attualmente vive e lavora a New York. Le sue opere sono state esposte in molti musei e gallerie: tra le sedi più note vanno ricordati il British Museum di Londra, il Centro de la Imagen di Città  del Messico, il North Carolina Museum of Art, il Baltic Centre for Contemporary Art di Newcastle, la Galleria Leme di San Paolo del Brasile, la FotoFest di Houston in Texas, il Centre de Cultura Contemporanea di Barcellona, l’Istitut du Monde Arabe di Parigi, il Kunstmuseum di Bonn, il Centro Andaluz de Arte Contemporaneo di Siviglia, l’Aperture Foundation di New York e la 53a Biennale di Venezia. Ha tenuto tre mostre personali al Cairo nel 1999, 2001 e 2005. Nel 2005 e 2007 ha realizzato due mostre alla Third Line Gallery di Dubai. Nel 2007 e nel 2008 ha esposto alla Michael Stevenson Gallery di Cape Town in Sud Africa. Nel 2009 ha realizzato cinque mostre personali: a Roma a Villa Medici, a Firenze alla Galleria Poggiali e Forconi, a Berlino presso la Volker Diehl Gallery, a Dubai alla The Third Line Gallery e ad Atlanta al Savannah College of Art and Design.

Alessandro Mendini, LA POLTRONA DI TESTORI

Stanza 17

Una grande villa borghese accanto a Milano. E in essa l’astratta presenza di Giovanni Testori, il grande artista che ho sempre amato. Che bello compiere un gesto nella sua casa, dentro a una sua stanza. Pensieri per me pieni di storia e di memoria, parole e disegni tanto assimilati nel passato. Di questi giochi di anime è di fatto il mio spazio in casa Testori, un omaggio compiendo un esercizio parallelo. I miei stilemi sulle sue pareti, uno scatto di intesa con i suoi muri parlanti, dove con il colore provo a ripercorrere lo spirito dei suoi gesti. E poi nel belvedere a semicerchio fuori dalle due finestre una fredda poltrona di bronzo. Dove spero per qualche giorno Testori vorrà stare a meditare, cioè sulla poltrona di Testori.
Alessandro Mendini

Alessandro Mendini col suo lavoro d’intreccio, tra pittura progettata e design pittorico, si pone correttamente nella posizione di chi non può che rappresentare la contraddizione come valore della creazione artistica con altri processi produttivi passibili d’istruzioni prima dell’uso. La complessità in questo caso consiste proprio nel progetto dolce di trasferire nel campo della pittura quel raffreddamento tipico del design e in questo il calore decorativo caratteristico di quella. Si arriva così alla scarnificazione di un linguaggio depurato dall’edonismo della materia e dall’enfasi ornamentale capace di nobilitare la mancata funzionalità dell’oggetto. L’operazione è valida proprio a partire dalla ricerca di un equilibrio creativo fra le due polarità attraverso la scelta di una volubilità capace di tenere in piedi due processi creativi differenti eppure convergenti tra loro. Evidentemente Mendini ha superato la superstiziosa superbia dell’artista come architetto del mondo, di colui che deve produrre risposte costruttive alla domanda sociale di un ordine possibile e trasferibile in scala dal perimetro dell’opera a quello più vasto dell’esterno. L’intreccio operativo di Mendini comporta l’assunzione di un sistema strabico di produzione linguistica supportato sempre da un desiderio di astrazione dei generi adoperati. L’astrazione è raggiunta proprio mediante l’applicazione del metodo di contraddizione. Contraddizione della specificità linguistica raggiunta mediante, appunto, una “pittura progettata” e un “design pittorico”. In tal modo assistiamo a una de-strutturazione della pittura e del design realizzata attraverso l’ampliamento delle loro possibilità. L’ampliamento determina una perdita di confine, l’astrazione di un perimetro dell’opera che trova la propria definizione attraverso la citazione di procedure assolutamente contaminanti. La trasversalità formulata dal nuovo metodo creativo di Mendini comporta l’assunzione anche dell’architettura come vasto campo della rappresentazione, dove il modulo architettonico non è struttura edilizia ma attrezzo scenico. In tal modo non ci troviamo di fronte alla speranza avanguardistica di una sintesi delle arti quale possibile antidoto totalizzante contro la parzialità dei linguaggi e del mondo.
Achille Bonito Oliva

Alessandro Mendini è nato a Milano nel 1931.

Diamante Faraldo, AUGE DER ZEIT – OCCHIO DEL TEMPO

Stanza 18

Attraverso lenti di ingrandimento capovolte, due disegni che stigmatizzano l’immaginario del “secolo breve”. In un dittico di marmo nero del Belgio, acquasantiere del mondo, la mappa della terra si riflette e si inonda di petrolio, specchio delle rovine di un mondo, che ha perso la vertigine della verticalità.
Diamante Faraldo

Le opere di Diamante Faraldo si danno come forme depurate, essenziali: presenze forti, approdo di un percorso di ricerca per sottrazioni e assenza fino a giungere all’assolutezza della forma, a un nucleo concentrato e rappreso. Puntano direttamente, in un percorso abbreviato, verso l’unità dell’immagine, verso il suo carattere assoluto. Le forme di Faraldo nascono dal vuoto, nel silenzio, ne sono circondate e se ne nutrono nella loro compattezza rappresa. Procedendo per riduzioni e sottrazioni al puro segno, nel vuoto rimangono i simulacri, l’aspetto immateriale del reale. Costituiscono l’altrove dello scandalo della morte. Si pongono alla soglia tra lo spazio della vita e quello dell’annientamento.
Eleonora Fiorani

Diamante Faraldo è nato nel 1962 ad Aversa, in provincia di Caserta. Ha frequentato l’Accademia di Belle Arti di Napoli e nel 1984 ha tenuto le prime personali a Castel dell’Ovo a Napoli e a Grenoble. Nel 1986 si è trasferito a Berlino per approfondire i suoi studi artistici e, di ritorno dalla Germania, si è stabilito a Milano dove vive e lavora. Nel 1991 ha esposto all’Institut Français di Napoli, nel 1996 allo Studio Gennai di Pisa e presso Il Cantiere di Venezia. Nel 1998 ha tenuto la mostra Stilleben allo spazio Decidue Arte di Milano e Contaminazione allo Spazio Mozzilo di Milano. Nel 2000 ha esposto all’Artforum di Merano e alla Fondazione Mudima di Milano. Nel 2001 ha partecipato a Le Tribù dell’arte al MACRO di Roma e nel 2004 ha realizzato Stimmung allo Spazio Mudimadue di Milano. Nel 2006 ha tenuto una personale presso la Galleria Gianluca Ranzi di Anversa e nel 2007 alla Galleria Nina Lumer di Milano.

Rossella Roli, VALIGIE

Stanza 20

“Lo slancio del gesto di partire, l’audacia avventurosa delle spedizioni in terra remota, ingannano circa le loro motivazioni. Non di rado si tratta semplicemente di evitare quanto ci sta dappresso, perché non siamo all’altezza di affrontarlo. Ne avvertiamo la pericolosità e preferiamo avere a che fare con altri pericoli di ignota entità”. Mi piace iniziare con queste parole di Elias Canetti, perché davvero lo spirito umano si rivolge spesso verso le cose lontane e trascura tutto ciò “contro cui va continuamente a sbattere”. Lo spirito che “sbatte” contro le cose vicine, che si affanna per schivarle avventurandosi verso altri luoghi, credendo così di metterle a tacere, mi ha accompagnato per molti anni. Lo spirito che si allontana è un salvataggio, almeno ho creduto che lo fosse. Tutte le volte in posti lontani (non solo fisici), ho sempre avvertito un malessere, un sintomo, come a dirmi “questo non è il tuo posto, torna a casa”. La casa fisica e la casa “dentro”. La casa fisica è facile, la casa “dentro” è da ricostruire, smantellare fin sotto le fondamenta e ricomporre, mi ci sono voluti vent’anni. Adesso posso raccontare qualcosa della mia storia, della mia memoria, costruire valigie e avventurarmi verso luoghi ignoti. Ospite per diciotto giorni, in una stanza al primo piano nella casa in cui Giovanni Testori amava ritornare dopo le “puntate verso l’esterno”, mi piace ricordare le sue parole: “Però, io ti assicuro che quello che mi ha sempre aiutato a vivere e, di più, ad accettare la vita anche nella sua maledizione, è sempre stato il ritorno a casa”.
Rossella Roli

Non c’è spazio per i souvenir: il bagaglio è un kit di sopravvivenza, raccoglie dentro sé il necessaire fantastico per un viaggio reale. Valigie che sono altrettanti ponti verso mondi possibili, posti appena un passo a lato del nostro quotidiano; risplendono di simboli, cariche di richiami organici, cuori e cordoni ombelicali rosso porpora o carminio, sono il sangue venoso colmo di impurità o quello che sgorga come sorgente chiara dalle arterie, segnate da blu femminei, sorrette da trasparenze aeree vetrose, affermando un hic et nunc che brucia qualsiasi tentazione di spiritualità. Sono un’affermazione eppure un dialogo aperto: enti attivi, pensati nello svolgersi del tempo, immaginati come compagni di viaggio, da toccare, aprire, usare, rompere, manipolare e reinventare. Si tratta di sopravvivenze: l’opera di Rossella Roli, impudica, dismette ogni vanità e intraprende un’ascesa verso la vetta della montagna, verso altri spazi temporali, negli inferi della memoria. Non ci sono oggetti, infatti, slegati dall’azione del ricordare, essi sono naturalmente connotati come macchine del tempo. Materni nel loro proteggerci dall’horror vacui, sono presenze in prima istanza rassicuranti, capaci di ancorarci al reale, talvolta taumaturgiche. Scavalcando l’idea che l’opera d’arte – in particolare quella che ha a che fare con la scultura – necessiti di un luogo fisico determinato con cui discorrere e infrangendo la regola aurea che la vuole sacra, intoccabile, elemento ieratico quando avvolto in fumi metafisici, o semplicemente cinico, quando più connotato di allure contemporanea, l’assemblaggio di Rossella Roli invece è audace nel rinunciare ad uno status prestabilito, non ha paura di essere dipendente dal fruitore, di farsi cosa d’uso quotidiano.
Silvia Bottani

Rossella Roli è nata a Modena nel 1967. Si è diplomata all’Accademia di Belle Arti di Brera con specializzazione in Arti Visive. Attualmente vive e lavora a Milano. Si occupa di progettazione grafica dal 1989. Nel 2001 ha frequentato il master di web design presso la Domus Academy di Milano. Dopo aver partecipato ad alcune mostre collettive, nel 2009 ha tenuto due mostre personali a Milano: Porzione di mare che sale e di cielo che sale che sale che sale alla Galleria Blanchaert e Survivals alla Galleria Obraz.

Umberto Chiodi, STANZA DEI VARCHI

Stanza 7

31 Marzo 2010. L’asimmetria delle pareti, la pavimentazione originale in terracotta e la grande finestra che dà sul giardino interno danno all’ambiente un distacco temporale e una luce che mi rimandano ai silenzi dell’infanzia. Questa sala, che Testori adibì a biblioteca e che ora vedo inquietantemente vuota, mi sembra contenere un segreto, è come sospesa e velata. La stanza stessa mi sembra una soglia, un sipario da scostare. Mentre cammino credo di compiere una metaforica invasione nell’organismo, nell’interiorità e nell’anteriorità della casa. Maggio 2010. Ho pensato ad un grande sipario di velluto rosso fissato al muro, leggermente aperto per far intravedere la mancanza di un reale passaggio. Intorno sulla parete, come sospese in un dialogo fra bidimensione e tridimensione, disegno delle figure antropomorfe che rappresentano le tensioni di un disordine pulsionale. Le figure sono come sfingi ai lati di un teatrale varco illusorio. Al centro della composizione nelle opere su carta e nell’assemblaggio, il varco è uno stemma svuotato, privato del simbolo di un ordine politico-sociale o dal contrassegno di una Nobiltà. Una nobiltà intesa soprattutto come Bellezza ed elevatezza. La mancanza effettiva o illusoria di qualcosa di centrale all’interno dell’opera è un’esperienza del vuoto per l’osservatore. L’opera si nega, la visione indotta si nega. Quel varco – foglio bianco o reale sfondamento – equivale ad uno specchio, è il cuore della morte, trascende l’opera stessa.
Umberto Chiodi

L’infanzia come scenario, l’inconscio come orizzonte, assumono nell’opera di Chiodi una temperatura altamente drammatica perché servono all’artista per intavolare un discorso sul viscerale. La visceralità è un modo primario di affacciarsi sul mondo, un sistema di relazioni prerazionali, irrelate e non necessariamente motivate, a diretto contatto con l’immaginario e forte a sufficienza per costruire il discorso. Non necessarie, gratuite, le relazioni di senso che l’immaginario crea hanno a che fare col mondo dell’infanzia una volta assurta quest’ultima a emblema del disordine pulsionale contro l’ordine razionale. Dunque, emblema di uno scontro, di una contraddizione, di una tensione. L’immaginario si oppone, almeno nelle strategie estetiche, ai discorsi dell’ordine, e il lavoro recente di Umberto Chiodi assume l’infanzia facendola diventare da tema implicito intenzione, tensione, che sovrintende alla messa in forma dell’opera stessa.
Giorgio Verzotti

Umberto Chiodi è nato a Bentivoglio nel 1981. Vive e lavora a Milano. Ha esposto per la prima volta nel 2003 all’Accademia d’Arte di Bologna. Nel 2006 ha tenuto la personale dal titolo Asfodelo presso Studio d’Arte Cannaviello di Milano. Nel 2007 ha partecipato alle collettive Arte Italiana, 1968-2007 a Palazzo Reale di Milano, a Dopamine presso Studio d’Arte Cannaviello e ha realizzato la mostra Semplicitas, Duplicitas presso la Galleria Schultz Contemporary di Berlino. Nel 2008 la Galleria Nazionale di Belle Arti di Sofia gli ha dedicato la personale Umberto Chiodi. Nel 2009 si è tenuta Milano la mostra Superfetazione presso Studio d’Arte Cannaviello.

Privacy Policy Cookie Policy