Andrea Bianconi
A cura di Luigi Meneghelli
Casa Testori
21 Maggio – 22 Ottobre 2016
YOU AND MYSELF
Luigi Meneghelli
[…] come si presenta tutto il lavoro plastico-pittorico di Andrea Bianconi, se non come la ricerca ossessiva di raccogliere, accumulare, mescolare oggetti e segni salvati dalla dispersione: una congerie di cose vecchie, fuori moda (o fuori uso), recuperate nei negozi di giocattoli, nei mercatini dell’antiquariato (o in decrepiti vocabolari)? Già il fatto dello spostarsi, dello scegliere, del disporre ci pone di fronte ad azioni performative, ad attività comportamentali. È chiaro: l’artista mette in disparte il suo io, e dunque il corpo, come espressione diretta. Ma nell’erranza dello sguardo e dell’esplorazione manifesta una sorta di assillo o di mania: il suo è uno “spreco del desiderio”, nel tentativo di sottrarre qualcosa del mondo all’inesorabile fuga temporale. È quella che Calvino definisce “la redenzione degli oggetti”, il riscatto del banale. Anzi, Bianconi spinge la sua operazione alle estreme conseguenze, legando (e collegando) lo sterminio di cose trovate in una romantica e surreale cascata, che stabilisce tra i vari elementi contiguità provvisorie e vicinanze inattendibili, corrispondenze celate e confronti segreti. Il suo è un infinito rimando a una “collezione”, viziata da una fragilità quasi patetica, esposta com’è al movimento, al mutamento, alla molteplicità.
È un rinvio a un assurdo che può aprire nuove strade immaginarie, senza imporre pensieri univoci. È così da sempre: contro la schematicità il paradosso e il gioco producono nuove visioni.
Ma perché, a questo punto, entra in scena l’artista vestito di tutto punto e con i guanti bianchi simili a quelli di un fantomatico mago (come accade nella performance Sound of a Charmed Life, realizzata nel 2010 a Praga, Roma, Houston)? Perché si mette a toccarla, a scuotere l’“alluvione oggettuale”, fino a ottenere singolari vibrazioni sonore, sordi effetti rumoristici? La risposta più immediata potrebbe essere: per far parlare ciò che non ha più parola, per dare voce a ciò che è diventato puro scarto, rottame, spoglia. Ma, se si osserva tutta la perturbazione del corpo (il nervosismo dei movimenti, gli scatti, i gesti quasi sgraziati) si può ipotizzare anche la volontà di ritornare al caos originario (come in una pièces di Trisha Brown) o ancor più, il desiderio di con-fondere l’io individuale con l’io collettivo, di lasciare la propria impronta nelle cose, riconoscendosi (specchiandosi) in esse.
[…]
Ma dov’è finito l’autore? È intenzione di Bianconi adottare l’arte discreta di saper scomparire, per poter osservare di nascosto il mondo? Lo stesso artista afferma di “voler essere sempre in un altro posto”, magari “in una casa d’altri, per potersi appropriare delle loro cose, dei loro libri, dei loro ricordi”. Intende esprimere la malcelata esigenza che la propria identità prenda possesso dell’alterità, che l’io si riconosca nell’altro (nell’altrove, nel non conosciuto)? A dire il vero, l’artista ha come obiettivo quello di essere autore, senza che questo risulti l’autentica ragione della sua attività creativa. Egli si sente come un mago o un regista cinematografico che nascondono i trucchi del mestiere. Più si tiene lontano dalla ribalta e cela i suoi processi operativi, più risveglia la nostra curiosità e i nostri sogni. Forse con lo scrittore austriaco Peter Handke, che vive nascosto in Francia, gli piacerebbe dire: “lo vivo di ciò che gli altri ignorano di me”. Gli altri non sanno, ad esempio che, da bravo regista, Bianconi ha progettato tutti i costumi delle sue performance, che ha scelto i luoghi inattesi o, quantomeno, spontanei, in cui far “recitare” suoi “artisti”, che ha studiato le loro pose e i loro movimenti, tanto lontani dalla coreografia convenzionale, eccetera. Ma, anche quando, più di una volta, egli decide di calcare direttamente la scena (come in Miracle, del 2006, You Always Go Down Alone, del 2010, Love Story, del 2013, Fantastic Planet, del 2016) lo fa sempre sotto mentite spoglie o ricorrendo alle più stravaganti forme di travestimento: da San Francesco con tanto di aureola, da indiano con fascia sul capo e faretra, da figura barbarica calata in un rito tribale, da alieno o da astronauta con tanto di tuta e tubi. Solo che Bianconi non assume nuove identità, mosso da una scoperta carica narcisistica, “ossessionato dalla necessità di mostrarsi per poter essere” né come rifiuto di ruoli imposti dalla società, quanto invece per impersonare con ironia e assoluto disincanto epoche, età, corpi. E, in tutto questo c’è qualcosa di infantile, di spontaneo, di rimosso dalle regole della storia. “I bambini, scrive del resto il filosofo Walter Benjamin, si costruiscono da sé il loro mondo oggettuale, un piccolo mondo, dentro il grande”. È un po’ come tornare al tempo dei giochi, dove tutto è insieme vero e falso, autentico e improbabile. Basterebbe guardare la breve, paradossale azione che si svolge in Fighting Nature (Valencia, 2012), in cui l’artista ingaggia un incontro di boxe con una foglia, fino a farla cadere (andare al tappeto) o in Love Story (Huston, 2013), in cui libera dei palloncini a cui sono legati dei fiori in modo che questi salgano dolcemente verso l’alto o anche in Tunnel City (Houston, 2013), dove dall’interno di un box lancia verso l’esterno degli aereoplanini di carta. Non ci sono mai fini, obiettivi, questioni da mostrare o da risolvere. Pare quasi di ritrovarsi dentro le atmosfere degli Happenings o di Fluxus, quando ogni manifestazione era basata sull’estemporaneità, sulla casualità, sull’intervento spontaneo e non programmato. Qui potrebbero funzionare le parole di John Cage: “L’importante è lasciare che le cose siano quello che sono”: un fatto indeterminato, un gesto gratuito, un materiale povero, una gag, una folgorazione zen.
Solo che a volte i travestimenti di Bianconi coinvolgono direttamente il problema della dissimulazione, come in Trap for the Minds (Houston, 2012) dove l’artista davanti a uno specchio indossa un numero imprecisato di maschere, fino ad arrivare all’ultima che riproduce il suo stesso volto o in Romance (sempre del 2012) dove, all’interno di una cornice luminosa, l’artista si presenta già mascherato e assiste immobile alla proiezione sul suo volto delle infinite immagini grafiche e iconiche prese da un piccolo, fittissimo testo da lui disegnato. Ci pone cioè di fronte alla faccenda del doppio, dell’essere nella sua differenza e nella sua molteplicità. Ma la risolve, dissolvendola, la supera moltiplicando i dettagli, la liquida assumendo infinite fisionomie. Però, in fondo, non c’è mai una vera soluzione. Si può dire che qui (come in tutte le performance di Bianconi), si rimane allo stato di opera incompiuta o opera potenziale, “come rovina di ambiziosi progetti, che conserva i segni dello sfarzo e della cura meticolosa con cui è stata concepita” (Calvino). Essa rimane lì come un racconto inattesa di una improbabile conclusione. Perché a contare non è il prodotto, ma il processo, non il completamento, ma lo svolgimento.
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LA MOSTRA
Con You and Myself Andrea Bianconi (Vicenza, 1974) è tornato a Casa Testori, occupando gran parte delle stanze, con il suo bagaglio di performance lungo dieci anni, in cui l’artista impiega il corpo come linguaggio espressivo e matrice di segno. Un segno che non cerca l’esibizione spettacolare, la rivelazione provocatoria, ma che acquisisce il proprio essere (la propria identità), cessando di essere segno di qualche cosa. È come se non avesse niente da dire, ma solo una serie di eventi da suggerire, da far intuire. Nelle sue performance siamo invitati a cercare anche ciò che non c’è (che non si vede, che non si sente), a intuire l’alternativa possibile, l’altra faccia del mondo. A stanare il soggetto che si nasconde nell’altro (o nell’altrove). Il myself che si con-fonde con you. La sua è la poetica dello spostamento e della transizione continua.
La mostra ha ripercorso l’intero iter performativo di Bianconi: accanto ad azioni poste sotto il segno del ludico (della sorpresa, dello stupore), ad azioni minimali, sommesse, incantatorie, Bianconi ha sviluppato altre performance che implicano autentiche “recite collettive”.
L’artista non si pone stretti limiti disciplinari, regole, gerarchie, se non quelli di aprirsi all’altro, al pubblico, per destare stupore, incredulità, interrogativi. Spesso, la performance di Bianconi ha a che fare con una sorta di “divertimento artistico”: è una gag, una serie di gesti apparentemente gratuiti, di risibili azioni ludiche. Alla pari degli attori dei film muti (o dei bambini) a lui piace nascondersi e apparire in scena all’improvviso.
Soprattutto le maschere fanno la loro apparizione come strumenti di difesa, di fuga, di falsità. In Trap for the Minds (del 2012), l’artista se le mette e se le toglie ossessivamente, fino ad arrivare all’ultima che non è altro che la riproduzione della sua stessa faccia. E molte sono le immagini delle “trappole” di cui Bianconi dissemina i luoghi delle sue performance: scatole, specchi, gabbie, maschere che spesso vengono indossate dai protagonisti, senza che si capisca mai fino in fondo se, questo, avvenga per rinchiudersi, isolarsi o per vivere l’esperienza della dispersione, dello sconfinamento, delle associazioni imprevedibili.
Andrea Bianconi vive e lavora tra Vicenza e Brooklyn. Fra le sue esposizioni, una public performance tra la Piazza Rossa, il Cremlino e il Manege Valencia, Madrid, New York, United Arab Emirates, Basilea, Palazzo Reale, Milano, Shanghai.
Nel 2011 Charta ha pubblicato la sua prima monografia, nel 2012 Cura.Books il suo primo libro d’artista “ROMANCE” e nel 2013 il secondo dal titolo “FABLE”. Entrambi fanno parte della collezione del MoMA, NYC.
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