casa testori

Mario Airò, THE MOTORCYCLE BOY REIGNS

Stanza 20

Come è che un cinquantenne “suonato” si mette a fare un graffito a Casa Testori? Come mai ci presenta un lavoro dello scorso millennio?
La mostra qui vorrebbe aprire alle giovani generazioni, mettere in luce il loro lavoro. Cosa ci vuol suggerire questo graffito, che graffito proprio non è, visto che è citazione di un graffito, oltretutto “cinematografico”, e quindi fittizio all’origine… Citazione di citazione quindi… Eppure in ogni passaggio indicizzata… F.F. Coppola cita con quel graffito, segno del personaggio, l’essere contro per antonomasia, e nel film ne decreta la fine, o la crisi, e come suo unico sviluppo esistenziale pone un atto poetico, destinato a sfociare nella morte. Al di là della visione tragica di F.F. Coppola The Motorcycle Boy è figura folle, anarchica, e grazie alla sua impossibilità  di adattamento, per “sensibilità”, l’unica ancora in grado di comunicarci una verità, aldilà  di ogni mediazione.
Da queste osservazioni, già  15 anni fa era nato il desiderio di citarlo, e ora in questo contesto, volto appunto alle nuove leve e nel profondo buio della nuova era, spero possa dire quello che è e quello che spero l’arte voglia pur sempre essere, e cioè invenzione per un possibile mondo, magari migliore di questo, dove, come nel sogno del Motorcycle Boy, i pesci combattenti, nell’oceano, possano vivere in pace, perché hanno ognuno spazio sufficiente per le proprie esigenze.
Mario Airò

Ogni suo [di Airò] lavoro afferma, con discrezione, che esiste la possibilità di vedere il mondo con occhi nuovi, di vivere la propria esperienza coltivando un’attesa nei confronti del mondo.
Gianni Romano

Mario Airò è nato a Pavia nel 1961. Vive e lavora a Genova.

Christiane Löhr, CINQUE ELEVAZIONI

Stanza 19

Che tipo di sensazione ho quando mi trovo in una cattedrale gotica in cui tutto punta alla verticalità?
Negli edifici sacri spesso c’è una riconoscibile relazione tra strutture botaniche, regole di costruzione che funzionano sia su larga che su piccola scala.
La realizzazione materiale mi parla delle intenzioni spirituali, e nel caso di chiese e templi mi parla della fede di chi le ha costruite. Qualcosa di simile si può notare anche nelle opere d’arte.
Christiane Löhr

La semplicità e l’essenza delle cose.
Leggera e fragile, l’opera di Christiane Löhr risolve la complessità e l’abbondanza degli elementi di cui è composta con la “delicatezza”. La grande laboriosità costruttiva, il numero dei micro-elementi impiegati, la ricchezza geometrica e compositiva delle forme, trovano espressione in una sorprendente e preziosa semplicità, che si manifesta attraverso la delicatezza, la fragilità e la leggerezza. L’essenza dell’opera di Christiane Löhr si coglie osservando, fino al dettaglio più microscopico, la complessità che la genera, e di cui riesce a raggiungere una sintesi estetica mirabile in bellezza eppure incredibilmente leggera, quasi evanescente, nella percezione. La forza espressiva di queste opere sta proprio nella loro capacità  di sorprendere, di lasciare col fiato sospeso, in una forma di ossequioso incantamento e di rispetto per quella fragilità  impalpabile di cui si sostanzia.
Semi di cardo, soffioni, gambi d’erba, crini di cavallo, sono gli elementi utilizzati per comporre vere e proprie micro-architetture, sostenute dal rigore e dalla precisione geometrica, dove niente è superfluo, e tutto è assoggettato a regole che sembrano attingere direttamente alla Natura, anche se la Natura non è che uno spunto, un punto di partenza da cui costruire inattese composizioni a metà  tra il botanico e l’architettonico. […]
Della Natura Christiane Löhr coglie il senso effimero e la caducità dei suoi elementi, ne sfida le leggi fisiche, assemblando i semi in forme a loro inusuali, e quelle temporali, fissando quegli stessi elementi in strutture immobili e durature. […] La ricerca si fa a questo punto evidente: la semplicità  diventa lo strumento di indagine per individuare qualcosa che sta ben oltre l’apparenza, che utilizza la fragilità  per far sottendere l’orecchio e i sensi a un messaggio latente, appena sussurato, di ricerca dell’essenza delle cose, di una Natura intrinseca che si nasconde dietro la forma complessa e articolata, che ordina la bellezza e regola il mondo.
“Forse sono alla ricerca di ciò che tiene insieme il mondo” dichiara l’artista: la delicatezza è una condizione, uno stato del sentire, e la semplicità  una meta, che si raggiunge, come insegnava Costantin Brancusi “malgrado se stessi, avvicinandosi al senso reale delle cose”.
Valentina Muscedra

Christiane Löhr è nata a Wiesbaden (Germania) nel 1965. Vive e lavora tra Colonia e Prato.

Guido Nosari, HORNY HOTEL

Stanza 18

Horny Hotel è il titolo di un hard movie, Etat et Santè il titolo di uno studio socio-medico che, seppur malinteso, ispirò molta parte della politica eugenetica nazista.
Dopo l’esperienza del Novecento affianchiamo la privazione di libertà e di pensiero a una estetica del campo di sterminio. Vengono in mente irrimediabilmente il vuoto, l’estrema magrezza, i colori assenti e la passività. Dovremmo però oggi ripensare all’estetica dell’annichilimento umano, in forza del fatto che è diventato una delle caratteristiche del contemporaneo, non più legato all’idea di campo vuoto.
Al polo opposto del vuoto vediamo la condensazione di simboli, corpi, colori, riferimenti e stimoli. Come il vuoto, la presenza eccessiva impedisce il pensiero. Un luogo dove i riferimenti riempiono ogni spazio è un campo dove un potere coordinato può esercitare un controllo sul fruitore.
Nei due spazi che ho usato ho cercato di riprendere i temi che meglio si adattano a questa instaurazione di potere (in particolare la sessualità) e legarli a un’estetica satura; nello spazio del bagno, poi, ho rielaborato una foto storica della famiglia Testori ripresa in giardino (Testori masturbazione 1), facendo del giardino uno spazio denso ed eccitante, e dei Testori rimane solo un accenno di sessualità, al quale penso questo bagno abbia davvero assistito nel tempo.
Guido Nosari

L’accumulo dei densi grumi di colore con cui costruisce le sue forme, o meglio le de-costruisce plasticamente, ha un che di animale, atavico. Il più delle volte partendo da fotografie, l’artista “rovina” l’immagine, una volta, un’altra, e poi un’altra ancora, con l’accanimento di chi rivolta, rimesta il reale e la materia pittorica, cercando ciò che di drammatico (nel senso di azione, rappresentazione teatrale), di epico, vi si possa trovare.
Un accumulo, dunque, che è un percorso in profondità, un dentro che esplode fuori. Tutta la sovrabbondanza e il disordine che è il mondo “interiore” del “rappresentato” (e di ognuno di noi), che s’appiccica, s’impasta, alla parte “visibile”.
Ecco allora i corpi offerti nudi, e scarnificati, il rosso sangue (vita e morte) che colpisce gli occhi.
Tutto il contrario di un accanimento terapeutico, a dire: “muori, ma dimmi chi/cosa sei”. Come non pensare agli animali sanguinosi di Varlain, Soutine o anche al Giancarlo della mostra Testori a Lecco? Oppure al cumulo, al grido, alle figure caricaturali di Grosz?
Dunque il rosso, e da questo i rosa, e poi il blu. Colori, peraltro, delle messe in scena nei ritratti di Fra’ Galgario, bergamasco come Nosari, dei suoi fastosi costumi che sembrano contrastare con i volti invece “comunemente umani” (e Nosari ne scrive riguardo alla mostra del 2011 a Bergamo). Un contro altare, come in altra misura a Casa Testori.
Qui la densità della materia ha, in più, il suo contro altare nella piccola dimensione dei quadri, quasi una narrazione continua, “intima”. Oltretutto alcune fotografie origine dei dipinti ritraggono l’artista e suo fratello.
Unica eccezione la grande tela che è allestita in bagno, volutamente fuori misura nello spazio. Dipinta su un lenzuolo usato da Nosari, ripresa dall’unica fotografia della famiglia Testori al completo (altra foto “intima” e incisa sui muri della villa da Andrea Mastrovito), l’opera è totalmente ricoperta da una germinazione vegetale, da una elegante coda di pavone dispiegata. Accumulare e scavare per collegare e disvelare…
Francesca Radaelli

Guido Nosari è nato nel 1984 a Bergamo, dove vive e lavora.

Davide Baroggi, LA MIA VITA

Stanza 16

Faccio questi quadri perché me li sento dentro. Uno si potrebbe domandare perché scelgo di rappresentare paesaggi, ritratti o case isolate in un paesaggio. La casa ha il significato di una persona. Ne conosco solo l’esterno ma non l’interno. Come una famiglia. Io sono fuori, non riesco mai a entrare.
Gli animali, poi, sono la ferocia, il selvaggio, la rappresentazione della mia vita.
Il colore è energia, sensazione. Dimensione che trasformo nella mia realtà. Rosso, giallo, blu, colori molto forti. Espressionisti. Nella mia anima mi sento un po’ nordico, amo Kirchner e Nolde, con i suoi quadri infantili, ma carichi di emozione!
Davide Baroggi

…Cosa accade in queste immagini, o cosa è “già” accaduto? C’è un presente o solo una sospensione tra attesa e abbandono? Si tratta di un prima della creazione o di una sua irreversibile agonia? Esposti sul precipizio di un nulla eppure capaci di manifestarsi con l’invenzione anche assurda del colore, con l’impennarsi del segno, il precipitare convulso dei tempi narrativi, questi dipinti vivono dell’ansia che li ha generati e, pure nella loro istanza convulsa, ci interrogano ancora sulle ragioni del vivere.
Claudio Olivieri


Davide Baroggi è nato nel 1974 a Locarno (Svizzera). Vive e lavora a Pavia.

Michela Forte,1900 SPIFFERI

Stanza 15

Mia nonna paterna era una sarta, la sarta più famosa del quartiere, era lei che mi cuciva tutte quelle gonnelline da bambina vanitosa che sfoggiavo a scuola, le creava da rimasugli di tanti tipi di stoffe, e così i pois si mescolavano con i fiorellini, le righe con i quadrettini; se ci penso ero inconsapevolmente punk, alternativa, oggi sarebbero vintage e andrebbero a ruba, all’epoca erano soltanto allegri e colorati, tranne una volta che per Natale avanzandogli del velluto nero mi cucì un completino con tanto di gilet abbinato. Mi faceva impazzire quel rumore di grosse forbici Zac Zac Zac, sembrava un ciak di fine ripresa ed era il suo film quotidiano, un intreccio che riempivano spazi presenti e assenti. ZAC
Michela Forte

Per entrare nel mondo di Michela Forte ci vuole la chiave… E bisogna entrare piano, in silenzio, chinando un po’ la testa.
Intimità e profondità di un mondo femminile e sacro, le opere scelte per questa mostra raccontano la sua fragilità e straordinaria forza. Difficile separare le immagini dall’artista in questo caso.
Intensi bianchi e neri che rimandano alla potenza sublime della vita, alle radici di un passato che aiuta a vivere il presente. Ho sempre amato la profonda drammaticità di queste immagini che hanno il senso della grazia. Verità e bellezza in uno scatto veloce, rapido e profondo. Fotogrammi in bianco e nero che raccontano la vita, le radici, le emozioni, i ricordi, la purezza, la bellezza, il dolore, la forza, la tragicità, l’intimità, la passione, la musica.
Le forbici che tagliano per cucire e le forbici che tagliano per salvare. La forza dolorosa, tragica e salvifica dell’amore. Il filo che in sala operatoria salva il cuore, diventa una corona della passione così viva e reale. Il melograno, frutto sacro e regale, accostato al suo corpo, unisce la santità e la bellezza, la fecondità e l’abbondanza della vita.
Oggetti quotidiani che vengono trasfigurati in un profondo significato, fino a rendere il quotidiano sacro, monumentale, senza tempo.
E sempre, anche solo un dettaglio, ci ricorda la sua presenza, perché lei si mette in gioco e ci ricorda che quelli sono i suoi occhi, che ritraggono, ricordano e amano.
Alessandra Klimciuk

Michela Forte è nata nel 1980 a Erice (TP). Vive e lavora a Milano.

Francesco Diluca, ULTIMA CENA

Stanza 14

All’inizio ho voluto creare una scultura piccola che racchiudesse in sé una propria storia, ma con il passare del tempo la storia si è ampliata.
Pian piano stavo componendo una narrazione, un cammino preordinato, sulla società di oggi.
Nasce così Ultima Cena, un’installazione scultoreo-pittorica, un racconto per immagini atto a squarciare il velo di Maya.
Ho scelto questo titolo come pretesto per segnare un passaggio.
Un inizio.
Una fine.
Francesco Diluca

Il senso dell’assenza.
Francesco Diluca vede in queste forme attorcigliate, in queste lamiere umane, una possibilità di unione del singolo con l’universale, il particolare e il generale, il senso dell’intellegibile congiunto all’estrinsecazione del mondo sensibile.
Ma allora dov’è finito il corpo? Può esistere il contenitore senza il contenuto? Quale strana metamorfosi sta accadendo a questi uomini e perché? È proprio su questi quesiti, su questi dubbi, che Diluca si concentra provando a sovvertire ogni possibile aspettativa, raffigurando un involucro, un bozzolo apparentemente privo di vita, statico ed inerme, l’anima della non presenza, per indurci a considerare e provare a comprendere il senso dell’assenza. Un’assenza che obbligatoriamente invita, anzi costringe, a valutare ed analizzare il motivo di tale mancanza, trovando così paradossalmente la propria unità tra le trame del sensibile, del materico, per poi trovare il significato nell’immateriale.
Si tratta ora di continuare il viaggio all’interno della crisalide, nelle viscere del corpo, tra le trame dell’anima e le elucubrazioni del pensiero; sculture che trovano il coraggio della rottura, per poi addentrarsi nell’intimo e nella strutturazione dell’ossatura umana.
L’opera d’arte, come ci ricorda Andrè Malraux, non è solo esecuzione, ma nascita, è la vita in faccia alla vita.
Alberto Mattia Martini

Francesco Diluca è nato nel 1979 a Milano, dove vive e lavora.

Leonora Hamill, ROUFFACH

Stanza 13

Nelle mie opere mi soffermo su quella dimensione affettiva che risiede nell’empatia, in modo da rispondere con un’emozionalità appropriata ai pensieri e ai sentimenti di un’altra persona.
Rouffach è una video-installazione che mi è stata commissionata dal Centre Hospitalier de Rouffach, un ospedale psichatrico in Alsazia, Francia. La commissione ha reso possibile per me l’esperienza dell’incontro con altri esseri umani tramite l’uso della telecamera.
Il mio punto di partenza è stato l’altare del quindicesimo secolo della Madonna delle Rose di Martin Schongauer. Ho lavorato con sette pazienti poiché la preghiera alla Vergine Maria è basata su sette dolori e su sette gioie. Da questo lavoro è emersa una semplice struttura binaria – chiedere ad ogni persona quali sono stati i suoi momenti migliori e peggiori.
Ogni paziente è stato ripreso frontalmente nello studio, mentre rispondeva a queste due domande, e poi è stato anche filmato in diversi luoghi geograficamente collegati con l’ospedale – sul suolo dell’ospedale, per le strade della vicina città di Rouffach, nei vigneti che circondano l’ospedale, nel chiostro di Colmar, nelle foreste intorno, vicino ad un lago, e sulla cima della montagna più prossima. La persona si sta sempre allontanando dallo spettatore, come attraversando la cornice. Le immagini di queste persone che parlano, ascoltano e camminano nello spazio, sono giustapposte in un triplo canale di proiezione.
Leonora Hamill

Vi è l’apertura di una dialettica “nuova” all’interno di ogni personaggio, che nel rievocare le proprie esperienze a se stesso, ancor prima che allo spettatore, genera una sorta di cortocircuito fra il dire e il detto e successivamente fra il dire e l’indicibile.
Ne scaturisce uno scambio di ruoli nel quale il paziente, colui abituato ad essere assistito, prende per una volta il posto del guaritore (personale medicale) e lo spettatore diventa complice di questo meccanismo. È lui che ci conduce nei meandri dell’esperienza gioia/dolore, è lui che ci dischiude le porte della sfera empatica e anche psichica.
“Non riuscirò più a vedere questi pazienti con gli stessi occhi di prima…” è stato il commento di un infermiere che solo in quel momento si era accorto dell’inversione fra le parti.
Il nostro percepire quasi si arresta davanti alla dimensione dell’indicibile e impone riflessioni profonde sul limite impostoci dalle parole che non abbiamo mai avuto il coraggio di pronunciare, e sul diritto di essere ascoltati, quello che nella realtà di Rouffach semplicemente si definisce le droit d’ècouter.
Edoardo Testori

Leonora Hamill è nata a Parigi nel 1978. Vive tra Milano e Londra.

Piero 1/2Botta, SCALE SENZA TITOLI

Stanza 12

La mia stanza è un luogo di passaggio e un punto di vista scomodo da cui osservarmi. Eppure sono pronto ad aspettarmi ogni volta che vi entro, temporaneamente e per non essere presente. Aspettando che nuove immagini prendano forma. Lo sforzo è estremo e raccolto in sé. Dimenticare di esistere nell’assenza. E poi esco, rimane il quadro, l’immagine figurata di ciò che sono quando ricordo tutto. La vita. La mia storia sincera e nuda allo stesso tempo appare.
Piero 1/2Botta

Più spontaneamente che citazionalmente, credo che le pitture di Piero 1/2Botta sembrino ritrovare, allusivamente, l’intimità carnale che Philip Guston prima maniera e Willem de Kooning nell’intero arco della sua opera ebbero a esprimere scomponendo e ricomponendo masse corporee e masse materiche. La gestualità e la sensualità dichiarate di Piero 1/2Botta hanno tuttavia referenze pre – o extra – pittoriche, e ovviamente altre di quanto i due maestri della Scuola di New York già mezzo secolo fa ebbero a perseguire. Sono cioè autobiografiche e bagnano nel clima nato, non solo in Italia, con la pittura della Transavanguardia. Ma come lo sarebbero quelle narrate da un insetto kafkiano: contigue, complici, contaminate, da interstizialità che appaiono quando la visione percorre a raggiera la densità e i meandri delle carni, siano esse attribuibili al corpo umano, di sé, di altri, che a presenze animali. Il percorso del giovane Piero 1/2Botta, nonostante una esplicita empatia con il colore e l’interessante modo di comporre le masse colorate zoo-antropomorfe ricorrendo ad una forma rappresa di dripping che condensa e scontorna al tempo stesso questa ritrattistica dell’anonimato, segue un percorso molto coerente nel senso che l’impronta personale è già in lui ricorrenza stilistica.
Remo Guidieri

Piero 1/2Botta è nato a Fermo nel 1977. Vive e Lavora a Milano.

Mario Francesconi, S.B.

Stanza 11

Ho eseguito ritratti di Beckett per oltre 10 anni. Beckett insieme a Cèline e a Giacometti è per me (e per molti) uno dei visi più interessanti del 900, ove arte, letteratura e poesia si incontrano in una sintesi imperscrutabile ed inafferrabile. L’immagine del drammaturgo irlandese diviene sempre più un archetipo, si allontana, si smaterializza, ed accentua la sua inafferrabilità. Per questo ho scelto un materiale rigido come il ferro, che per quanto condotto da un disegno sapiente e sintetico, cerca di catturare e fissare l’immagine, quasi di imprigionarla all’interno di un reticolo mentale, per poi tramandarcelo come icona esistenziale.
Mario Francesconi

Tu sei riuscito a sottrarti al giudizio superficiale della cronologia ed anche ed ancor più alle questioni dello stile.
Se ti va, ti dico anche il perché: perché tu sei un selvaggio, sei l’artista più selvaggio che io abbia mai incontrato.
E mi offendo quando vedo e sento parlare del tuo lavoro in senso iconografico, mi ribolle il sangue quando leggo inutili citazioni.
La tua arte è “gesto”.
È il tuo gesto che lascia senza fiato. È il rapporto fra il gesto e l’idea che con te e in te nascono insieme, ma che hanno fra loro una relazione incestuosa: sono padre e figlia e l’uno non sa dove va a parare l’altra. Si inseguono, si aspettano per frazioni minime di tempo, ma non si riesce mai a intuire chi delle due prevalga. Nel tuo gesto fino all’ultimo istante non si sa dove vuoi arrivare ed il risultato è tanto più imprevedibile quanto sorprendente.
Ecco perché le tue immagini sono pugni nello stomaco ovvero strette al cuore: sono annunci che non si vogliono sentire, sono “vanitas”, sono l’addio che non si vorrebbe mai sentire dalla persona amata.
Edoardo Testori

Mario Francesconi è nato nel 1934 a Viareggio (LU), dove vive e lavora.

Massimo Uberti, GIORNI FELICI

Stanza 10

Ho appena buttato nel cassonetto dell’immondizia decine di disegni, di appunti e qualche progetto che probabilmente, fossi stato prudente, avrei conservato e trasformato in lavori, ma ho bisogno di vedere nuovo spazio e me ne sono liberato.
Ora il mio studio è completamente vuoto e mi sento a casa.
Lo spazio della pittura è nuovamente sgombro e posso decidere di varcarne la soglia, ma non subito; per qualche istante assaporo ancora l’opportunità di avere dello spazio vuoto.
Nessun peso o incombenza si mostra al mio sguardo, mi sento bene. Vedo!
Adesso nuove immagini si affacceranno e questo mi provoca eccitazione.
Fatico non poco a trattenermi, ma devo resistere, devo stare calmo: gesti incauti in questo momento d’assenza di gravità possono compromettere tutto.
La magia privata di questo vuoto resiste alcuni istanti, attimi in cui nessun segnale è attivo, solo io e questo spazio luminoso attorno a me. Resto immobile per quanto possibile, ma stare fermo non è semplice e, poco dopo, inizio a muovermi e ci finisco dentro. Parto.
Al mio ritorno scopro con stupore che nello studio sono comparsi nuovi progetti e nuove immagini, cosa faccio? Attendo?
No. Me ne vado e provo a dormire ma mi sveglio presto, ritorno in studio e scopro che il cassonetto di fronte è di nuovo vuoto… Non resisto, sento la necessità impellente di buttare tutto. Lo faccio. Rivedo lo spazio amato.
Riparto.
Massimo Uberti

Massimo Uberti è un artista della luce, che interviene nello spazio trasformandolo in un magico gioco di costruzioni e allusioni, forme e idee. Da oltre un decennio utilizza tubi bianchi al neon per comporre immagini metafisiche e disegnare ambienti virtuali, sospesi nel tempo poetico e rivelatore dell’arte (di illuminare). Semplici profili di luce ci avvicinano alla pratica intellettiva del linguaggio (Scrittoio, 2000) o ci introducono all’immagine del luogo più familiare (Avvolgente casa, 2009). Installazioni luminose più articolate e complesse ci proiettano nell’illusione spaziale dell’illimitato (Senza fine, 2006) e nell’aspirazione temporale all’interminabile (Tendente infinito, 2008). Scritte al neon ci annunciano l’assunzione testuale (nell’arte) di una dimensione insieme fisica e mentale, concreta e ideale (Spazio amato, 2008; Altro spazio, 2010).
L’ultima creazione, concepita per Casa Testori, combina nel vuoto di una stanza elementi strutturali abitualmente usati come supporti, sovrapposti fra loro, a segmenti luminosi orizzontali di misura crescente, fissati a distanza regolare e intersecati ai primi: un’opera progressiva ed espansiva, che si eleva dal materiale all’etereo, dal reale all’apparente, dal corporeo all’affettivo (Giorni felici, 2011).
Stefano Pezzato

Massimo Uberti è nato nel 1966 a Brescia, dove vive e lavora.

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