casa testori

Candidati al Servizio Civile


A CASA TESTORI. SCADENZA PROROGATA AL 15 FEBBRAIO

Il 2021 sul quale ci siamo appena affacciati ci attende con tanti progetti e iniziative, non vogliamo fermarci, pur nelle difficoltà e restrizioni. Casa Testori dunque cresce, e desidera crescere sempre di più.

È per questa ragione che abbiamo aderito al Servizio Civile.

Se sei un under 28 puoi candidarti per l’attivazione del Servizio Civile presso Casa Testori, con  un programma dedicato alla valorizzazione culturale, dalla didattica alla comunicazione, della durata di 12 mesi, da aprile 2021 a marzo 2022.

A questo link il bando, in scadenza il 15 febbraio 2021: https://www.serviziocivile.gov.it/menusx/bandi/selezione-volontari/bandoord_2020.aspx

Qui, la domanda di iscrizione (è necessario lo SPID): https://domandaonline.serviziocivile.it

Questo invece il programma specifico di Casa Testori: https://www.serviziocivile.gov.it/menusx/bandi/scegli-progetto-italia/dettaglio-progetto.aspx?IdBando=18919&Settore=Educazione+e+promozione+culturale,+paesaggistica,+ambientale,+del+turismo+sostenibile+e+sociale+e+dello+sport&TitoloProgetto=SEMI+DI+CULTURA.+NUOVE+RADICI+PER+GLI+ADULTI+CHE+VERRANNO+&Comune=NOVATE+MILANESE&IdGazzetta=59&CodiceSede=189171

Per qualsiasi domanda potete contattare la referente Francesca Ponzini (francescaponzini@casatestori.t)

Giovedì 28 gennaio dalla 15 alle 17 ci sarà un incontro di approfondimento sul canale Youtube e Facebook di Area Parchi.

Non mancare!

Manet – impassibile e sublime di Giovanni Testori

Per accompagnarvi alla prossima visita guidata di Manet con Giuseppe Frangi (30 marzo, ore 21.15, Palazzo Reale) vi proponiamo un articolo di Giovanni Testori uscito in occasione della mostra del 1983 al Grand Palais:

A PARIGI GRANDE MOSTRA PER IL CENTENARIO DEL MAESTRO FRANCESE
Edouard Manet, impassibile e sublime

PARIGI – «Il n’y a qu’une chose vraie. Faire du primier coup ce qu’on voit. Quand ça y est, ça y est. Quand ça n’y est pas, on recommence. Tout le reste est de la blague»; per comprendere la sublime, impassibile grandezza con cui la pittura di Manet (1832-1883) prende campo dentro la storia dell’arte moderna, vi sale, anzi, uno dei troni più alti, e proprio da come essa nasce dalla splendida, visitatissima e, certo, irripetibile rassegna che Parigi ha voluto dedicare a Manet in occasione del centenario della morte («Grand Palais», fino al 1° agosto) convien partire dalle succitate parole, con cui il maestro era solito rispondere a chi lo questionava su cosa fosse la pittura; quella pittura da lui tanto adorata da essere la sua vera e propria amante, certo la sua vera e propria convivente.

L’enorme entusiasmo della folla che dopo oltre un secolo sembra risarcire Manet degli insulti che, dalla folla, gli eran stati riservati in vita, non sembra riguardare la critica; la quale, stando a quel che si legge soprattutto nel nostro ineffabile Paese, ha preso a tirar fuori i sui indispettiti «distinguo», i suoi complessati «sì, ma, però…» e le sue isteriche, zitellesche limitazioni. Sforzandoci di tener calmi i nervi noi possiamo anche capire; sembrandoci, nello stesso tempo, giusto avvisare come, mutate le condizioni e, in brevissima parte, le parole, la critica vada ripetendo l’incomprensione che riservò a Manet durante la sua esistenza. Possiamo capire, dicevo; non però, è certo, dare a tali letture una qualunque approvazione. Anzi, il fatto di comprendere i modi di tanto imbarazzo, ci autorizza a prenderci il diritto (e il dovere) di duramente dissentire. Possiamo capire, ecco, che il lavoro recente e recentissimo d’una certa critica, quella più «à la page» o che tale si vuole e per tale agisce (ma la pagina che conta non sarà, comunque e sempre, quella più prossima al vero?): quel lavoro è stato, in questi ultimi anni, di riportare in primo piano la pittura ingaggiata con la letteratura, di essa, anzi, così enfiata da essersi, come pittura, pressoché distrutta; maldestra e, spesso, insopportabile spugna inzuppatasi proprio di lei, «la blague».

Il suo intero percorso
Ora, rivedersi splanata davanti, nel suo intero percorso, una pittura come quella di Manet, del quale, parafrasando un poeta-poeta, potremmo dire che per sé volle «de la peinture avant toute chose», significa accettare di ribaltar i piani che s’eran creduti sistemati secondo la suddetta ottica; boccone, questo, non troppo facile da digerire. Meglio, allora, difendere le elucubrate e faticate costruzioni in cui le ideologie avrebbero maggior peso della realtà (quando tali siano; il che accade ben di raro); meglio questo, che non rimettere umilmente tutto in questione. Eppure… Eppure l’assioma sovrano, la legge inderogabile e splendente che Manet, dipingendo, quadro dopo quadro, stabilisce (o ristabilisce) per la pittura; quella sorta di decalogo indefinibile, stipato di sé come un immenso «gloria» laico, è lì; e si difende da sé; non inzuppandosi di nulla che sia alieno a se stesso: senza pretendere altro che il suo esistere; dunque, senza offendere alcuno; però mandando all’aria, con «le charme inattendu d’un bijou rose et noir», secondo ebbe a scrivere Baudelaire, tutte le cianfrusaglie che, alla pittura, furono laterali; e che laterali restano; con buona pace di chi vorrebbe costituirle invece come determinanti.

Diceva giustamente Cézanne di Monet «che era soltanto un occhio, ma quale occhio!»; affermazione che per altro deve un poco dimettersi, almeno per quel che riguarda l’ultimo tempo, ché allora proprio l’occhio, in Monet, forse per la già inoltrata malattia, parrà cedere alle richieste, assolutamente incongrue, ma circolanti un po’ dappertutto, del simbolo. Per Manet, la questione non fu mai di giustezza ottica; essa ebbe infatti a risiedere nella strutturazione della natura umana e di quella cosmica, in quanto riguardò, per così dire, la stessa necessità e decisione dell’esistere; dunque, la sua stessa, indicibile ragione; accolta, però, come tale; come tale, e basta. Che se poi all’occhio si volesse restare, si dovrebbe scrivere che, in Manet, si trattò d’una pupilla-cranio, d’una pupilla-mente.

Ciò che, visitando e rivisitando la mostra parigina, non cessa di stupire è l’attacco-distacco che, nei confronti della realtà, Manet seppe mettere in azione; e mantenere, poi, sino alla fine; l’attacco-distacco, intendo con cui la realtà, più che vederla, Manet ebbe a viverla; e, vivendola, ebbe a trasferirla sulla tela; tutto questo con una pienezza che non si conosceva dai tempi grandissimi del Velasquez. Si scrive questo, anche se qualcuno, cronologicamente, si attenderebbe, per restare in Spagna, il nome del Goya. Gli è che nel pur amatissimo Goya interviene, comunque e sempre, l’assedio d’un giudizio che obliqua la linea diretta che va dal visto al restituito; anche se proprio in questo abitò la sua enorme capacità di viraggio e di rivolta.

La pienezza della pittura di Manet risulta, invece, così densa di sé, di sé così certa e, inoltre, così splendente del suo essere niente più che se stessa e, dunque, di bastarsi, da trovare tutti i tesori necessari a farne il solo, esistente e supremo «elogio» che, nell’arte, la borghesia sia riuscita a darsi. Francamente, per una classe che giungeva proprio in quegli anni al suo apogeo di forza e d’opima, tesissima tranquillità, c’era di che sentirsi soddisfatta. E soddisfatta di sé, ma senza alcun compiacimento, si mostrò anche la pittura manetiana; la cui grandezza (e inimitabilità) ebbe a consistere nel semplicissimo, epperò rarissimo fatto che essa si pose là, sulle tele, come pura esistenza. Nessun lamento, nessun grido, nessun rimorso, nessuna vergogna; anche quando sull’orizzonte sembrò apparire l’annuncio d’un possibile crepuscolo, d’una possibile sera che andrà a screpolare la bellezza di carne, seta, petalo e perla; tato la borghesia, quanto il suo infallibile cantore mostreranno d’aver in sé tanta forza da annettere anche quell’annuncio all’opima potenza del proprio esistere.

Che, per far questo, Manet dovesse guardare ai grandi antichi, massimo ai veneti e agli spagnoli, non segna, come da più parti si tenta ancora oggi d’insinuare, una qualche incapacità a reggere il peso e il valore, enorme, di lei, la realtà, bensì la volontà di riferire e paragonare i propri strumenti all’arte passata, vista anch’essa come dominio della classe di cui andava edificando l’elogio; anzi, l’immenso, imperituro poema. Perché negarlo? Come la storia dei secoli più prossimi al suo trionfo doveva esser ritenuta dalla borghesia «naturaliter» accaduta affinché quel trionfo si verificasse, anche la pittura di quei secoli doveva rappresentare per Manet ciò che «naturalmente» stava dietro ai canti del suo poema. Suggerirla, quella storia, non fu altro che un modo per levarsi d’attorno «la blague» di chi, dissentendo, ovvero non riscendo a vivere nelle coordinate dell’attacco-distacco e nell’equilibrio dell’obiettività, faceva, e avrebbe fatto, anche della pittura antica, una questione; se, per l’appunto, i musei fossero da frequentare o no; fase prima della successiva proposizione, quella che avrebbe detto essere i musei cose da bruciare. Ma, alla fine, i musei chi li bruciò veramente? Quelli che piantarono sul viso della Gioconda i baffi o, invece, chi dai musei prese la forza necessaria per essere, prima di Picasso, l’unico, vero «classico» dell’arte moderna, e cioè lui, proprio lui, Manet?

Non è infatti a caso, che Picasso si sia attaccato, per esercitarvisi sopra senza fine, al «Déjeuner» di Manet (1863): giusto come si attaccherà a quella «summa» dell’arte velasquegna che sono «Las meninas». Difficile pensare che il grande spagnolo potesse rivolgersi, per la bisogna, all’altro «Déjeuner», quello di Monet, che del resto, senza il primo, giacerebbe del tutto inesplicabile.

Dunque, aveva ragione Malraux quando, a proposito della definitoria impassibilità che è nella «Fucilazione dell’imperatore Massimiliano» (1867) (qui, alla mostra, presente nel vastissimo abbozzo venuto da Boston) scriverà che «sempre il “Tre di maggio” di Goya, una volta che se ne siano tolti tutti i significati». Ora proprio in questo non soprammettere alla pittura significato alcuno abita, non sola la grandezza di Manet, ma la sua esplodente e come perenne novità. In questo abita altresì l’enorme apertura che Manet offrì agli impressionisti; un’apertura che è vano, se non già iniquo, mettere in discussione.

I fatti son lì da vedere: e da studiare. Ed anche è lì, da vedere e da studiare, il modo in cui l’oggettività di Manet arrivi intatta sino alla fine: cristallo dove il nero ha luce, potenza e gloria giusto come il bianco, la seta dei lutti come i petali delle peonie; e altresì il modo con cui essa non dimetta nulla di sé, anche quando l’avventura impressionista sembrerà minacciarla e superarla. Neppure a quella data, sarà Manet a guardare dove stiano andando, che so, Renoir o Monet; saranno Renoir, Monet e gli altri che, essendo partiti da lui una volta che Manet uscirà di scena, dovranno guardare (e, insieme, guardarsi bene) dal scivolare nel contrario di ciò che pure avevano stabilito come loro poetica.

In effetti la mostra titolata «Monet a Giverny» che, neppure a farlo apposta, Parigi offre in concomitanza al «Centre culturel de Marais» (fino al 17 luglio), pur nella sua incerta attribuzione critica e nella sua orrenda e psichedelica presentazione (ma, su questo, varrà forse la pena di tornare altra volta) è lì a provare che, morto Manet, anche il grandissimo Claude sembrerà mancare del termine di paragone diretto e, di lì a poco, versare in una commovente, ma non sempre chiara tentazione simbolista; dove la sua fulminante esattezza panica s’oblitera nelle ripetizioni proprie al decadentismo, assai più di quanto, come troppo spesso s’è scritto e si scrive, arrivi a perdersi e ad annegare nelle nebbie e nelle luci degli stagni e del cosmo. Cosa questa che c’era accaduto di segnalare alla mostra dell’80 e che il confronto odierno, davvero durissimo, che Monet è chiamato a sostenere per la compresenza dell’antologica di Manet, ripropone in termini allarmanti.

La gloria della pittura sembra determinarsi in Manet da sé; e per quell’abbandono alla grazia e alle seduzioni che solo possono darsi a chi, dell’abbandono, si sia vietata ogni possibilità; dunque, ogni connesso equivoco. In Manet, il dominio obbiettivo è il valore dell’immagine solo perché è valore della pittura; ma attraverso tale dominio, e solamente attraverso di lui, la pittura riguadagna tutti quei valori che il romanticismo aveva prima assalto e dissipato, poi strozzato e annegato nei pantani e nei laghi delle proprie estenuazioni e delle proprie stragi. «Figé» al suo se stesso, il mondo pittorico di Manet si potenzia essendo lì e, nello stesso tempo, staccandosi continuamente da sé; forse per la piena e concreta coscienza della brevità di cui quella potenza disponeva; almeno come atto di pregnanza e plenitudine totali.

Un regale distacco
In tal modo le figure della borghesia raggiunsero la fissità che ebbero i re e gli imperatori dun tempo; persino quella che fu propria alle antiche deità faraoniche ed egizie. Niente, dopo il Rinascimento, fu più fermo, stabile, attonito, addirittura decalogamente stabilito nell’esclusiva ed escludente legge della pittura, di quanto lo furono l’Olimpia, Nana, il Leon del «Déjeuner» di Monaco (1868/69) o quell’indicibile marmo-carne che è la «serveuse» del «Bar aux Folies-Bergère» (1881), opera con cui, si può dire, Manet chiude la sua carriera; e la sua vita.

Niente fu, di loro, più evidente, più chiaro e, insieme, più inesplicabile e misterioso. Noi, oggi, possediamo, con ogni probabilità, i mezzi per avvicinare e tentar di leggere, passo dietro passo, la biblica impresa di Cézanne o la tensione straripante, folle e profetica di Van Gogh, ma continuiamo a sentirci del tutto incapaci davanti a queste deità borghesi che ci incatenano trattenendoci a una distanza che par minima ed è invece smisurata. Dentro questa fissità, Manet ha deposto, con uguale, impassibile certezza, tanto la calma, frusciante perla della «Femme au perroquet» (1866) quanto quella peonia carnale che si disfa sui divani del proprio lutto, che è «La maitresse de Baudelaire couchée» (1862) o la «Berthe Morisot au chapeau de deuil» (1874), forse il ritratto più tragico che sia uscito dall’intero Ottocento.

Albe e notti, perle e onici, carni sode, levigate e fiori sfatti, sete e velluti, ombre e luci, tutto vive in Manet una pienezza che romba del suo semplice, stratificato e regale distacco. In tale pienezza, ogni quadro, quanto più sembra esibire ritorni all’antico, tanto più si sposta in avanti e annuncia ben altro di ciò che riusciranno ad annunciare gli impressionisti; questo, non solo nelle dimensioni dello spazio, ché Manet ebbe a interessare la pittura di tutto il mondo, ma anche nelle dimensioni del tempo. Se è vero, ed è vero, che la deificazione, più o meno legittima e legittimata, che della pittura l’arte moderna ha fatto come del valore primo e assoluto, trova la sua origine e lo specchio in cui riflettersi proprio nell’opera di Manet; uno specchio da cui, pel vero, dovrà spesso ritrarsi perché indegna; e, appunto, a questo in nulla legittimata. Tuttavia, la tensione resta quella; e, con ogni certezza, quella resterà ancora per molto e molto tempo.

Insomma, per chiudere con l’ex-libris pensato da Puolet-Malassis e inciso da Bracquemond: «Manet et manebit»; dove il gioco di parole sigilla, anche da fuori, di lui, Manet, la suprema obiettività, il supremo distacco e, nell’uno e nell’altra, la suprema, lucida grandezza.

Giovanni Testori

 

MUSEUM INNOVATION FOR SOCIAL INCLUSION

24 Febbraio 2017

Museum Innovation

Quali sono le potenzialità civiche e sociali del museo?
Come restituire in modo critico le competenze necessarie alla comprensione del presente a partire dalle collezioni? Il concetto di responsabilità sociale, proprio dei contesti aziendali, può trovare una declinazione anche in ambito museale?

A prescindere dalla sua tipologia, il museo può essere inteso quale spazio di inclusione e democrazia proattiva proprio a partire dalla condivisione delle complessità di competenze e settori talvolta distanti. La tavola rotonda e il workshop MUSEUM INNOVATION FOR SOCIAL INCLUSION nascono per indagare questi aspetti a partire dal confronto fra operatori e istituzioni diverse di provenienza europea. La proposta, infatti, si colloca all’interno del progetto pa.pa.pa! Heritage for Social Innovation, sviluppato da ABCittà (Italia) e Plataforma para a Inovação Social (Portogallo) all’interno del programma Tandem Europe in collaborazione con diversi partner nazionali e internazionali.

TAVOLA ROTONDA

Alessandra Gariboldi, Fondazione Fitzcarraldo
Jasmin Grimm, Future heritage (Berlin, Germany)
Davide Dall’Ombra, Casa Testori
João Pedro Rosa, Plataforma para a Inovação Social (Aveiro, Portugal)
Museimpresa
Moderano Maria Chiara Ciaccheri e Anna Chiara Cimoli (ABCittà)

EN CORPS… TESTORI, ANCORA

Percorso testoriano
Con Giovanni Agosti, Franco Branciaroli, Luca Doninelli, Fabio Francione, Giuseppe Frangi, Sandro Lombardi e Andrée Ruth Shammah
20 Ottobre – 30 Novembre 2016

 

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Serie di incontri su Giovanni Testori organizzati dal Teatro i di Milano.
Tracciando una mappa, un reticolo di sentieri fatto di percorsi umani e artistici, che ha portato, attraverso memorabili affondi, a ciò che può significare “parlare” Testori oggi.
È stata un’indagine sulla sua memoria, sul suo ripresentarsi nel nostro presente, e nel lavoro degli artisti e nelle riflessioni degli studiosi.
È impossibile affrontare Testori e la sua lingua prescindendo dal confronto con chi, insieme a lui, ha dato alla luce il suo teatro e dunque, in qualche modo, scrivendola sulla propria carne, ha dato vita alla sua lingua.
Ancora una volta Testori e sempre en corps, nel corpo, di Testori.

IL PROGRAMMA

20 ottobre
Sandro Lombardi legge i Tre Lai / a seguire incontra Giovanni Agosti

31 ottobre
Franco Branciaroli e Giuseppe Frangi

9 novembre
Luca Doninelli

20 novembre
Spettacolo: Erodiàs / produzione Teatro i
a seguire: Incontro: Fabio Francione

30 novembre
Spettacolo: Erodiàs / produzione Teatro i
a seguire: Andrée Ruth Shammah in dialogo con Giuseppe Frangi

Laboratorio per i Tre Lai

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Giovedì 14 luglio, ore 21:30
Una serata speciale a Casa Testori
Laboratorio per i  Tre Lai

Incontro con Federica Fracassi e Renzo Martinelli
Introduce Fabio Francione, autore di Testori, lo scandalo del cuore

I Tre Lai sono gli ultimi testi scritti da Testori per il teatro, che Sandro Lombardi portò in scena con una memorabile sequenza tra 1996 e il 1998 : Cleopatràs, Erodiás e Mater Strangosciás. Federica Fracassi e Renzo Martinelli, che in autunno presenteranno Erodiás, prodotto da Teatro i, nella loro marcia di avvicinamento al mondo e alla lingua di Testori, hanno voluto incrociare tutte e tre le protagoniste dei Lai, grazie ad un montaggio dei tre testi realizzato in anteprima per il progetto Stanze – Esperienze di teatro d’appartamento. Come ha scritto Anna Bandettini su Repubblica, la Fracassi «attrice tra le più temerarie e brave della generazione delle quarantenni, ha messo in scena un lavoro teso e coraggioso per come spinge l’espressività del corpo e della voce (inserendo anche quelle musicali di Ornella Vanoni, di Mina, di Rita Pavone anni Sessanta) verso una femminilità evidente e non ambigua che Testori non aveva mai avuto (in quella teatrale dei tanti interpreti testoriani maschili), verso un dolore, uno strazio, una ferita come solo le donne sanno e sentono, verso quell’amore così simile a non-amore che le donne sanno raccontare meglio di altri. Un bagaglio importante per un viaggio nell’universo testoriano».

Nel corso della serata Federica Fracassi reciterà anche alcuni passaggi dei Tre Lai.

L’incontro verrà introdotto da Fabio Francione, giornalista e critico, che ha appena pubblicato per conto di Clichy un libro intitolato Giovanni Testori Lo scandalo del cuore, dedicato in particolare al teatro testoriano.

Qui si possono leggere le recensioni allo spettacolo di Anna Bandettini
e Grazia Gregori 

FOTOGRAFARE GAUDENZIO

Sofia Bersanelli, Giulia Riva ed Elisabetta Polelli
Un progetto di Angelo Barone
Casa Testori

Tre giovani artiste, Sofia BersanelliGiulia Riva ed Elisabetta Polelli, hanno lavorato con la macchina fotografica attorno alle sculture del Sacro Monte esposte a Casa Testori (Arriva il gran teatro montano, Casa Testori, 9 Aprile – 8 Maggio 2016).
Sono state guidate da Angelo Barone, a sua volta artista, fotografo e docente. La sfida era quella di capire in che modo artisti delle nuove generazioni intercettano e rivisitano le forme del nostro passato; quale dialogo si crea tra loro e un monumento affascinante, ma a volte percepito “lontano”, come il Sacro Monte di Varallo. Le tre giovani artiste hanno interpretato con molta libertà e creatività quei capolavori, realizzando ciascuna dei sorprendenti percorsi per immagini.

I prodotti di questo laboratorio sono stati esposti a Casa Testori. In occasione della presentazione, Angelo Baronee le artiste hanno dialogato la direttrice dell’Ente Sacri Monti Elena De Filippis.

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A DOPPIO SENSO – Incontro con artisti e curatori

Sabato 25 giugno, dalle 17

Andrea Bianconi e Matteo Negri presentano i volumi pubblicati in occasione della mostra estiva di Casa Testori. I due artisti saranno protagonisti di due incontri con il pubblico, in cui verranno presentati i due volumi pubblicati in occasione della mostra. Saranno presenti anche i critici Luigi Meneghelli, curatore della mostra di Bianconi, e Daniele Capra, curatore della mostra di Negri, che dialogherà con Flaminio Gualdoni. Nell’occasione gli artisti saranno disponibili ad accompagnare il pubblico nella visita. La mostra coinvolge in modo molto attivo il pubblico come ha sottolineato Chiara Gatti che ha firmato la recensione per Repubblica. «L’arte gioca a mutare la percezione dei luoghi. Accade a Casa Testori dove un tandem di giovani artisti, Andrea Bianconi e Matteo Negri ha messo mano agli ambienti della villa appartenuta a Giovanni Testori trasformandola in una scatola delle meraviglie, un carosello di suoni e colori destinati a cambiare i connotati del luogo».

Intanto prosegue con grande adesione di pubblico la performance collettiva lanciata da Andrea Bianconi. Il pubblico è invitato a fare una libera interpretazione del volto dell’artista, disegnando su una cartolina dove è stampato un suo ritratto frontale in bianco e nero. La cartolina viene consegnata alle persone che visitano la mostra. Sono già oltre 300 le cartoline arrivate e pubblicate sull’account Instagram: draw.me.project

 

Incontro di presentazione dei due cataloghi:

h. 17:30
YOU AND MYSELF. PERFORMANCE 2006 — 2016
con ANDREA BIANCONI e il curatore LUIGI MENEGHELLI

h. 18:30
SPLENDIDA VILLA CON GIARDINO, VISTE INCANTEVOLI
con MATTEO NEGRI, il curatore DANIELE CAPRA e il critico d’arte FLAMINIO GUALDONI

modera GIUSEPPE FRANGI

seguirà aperitivo!

Matteo Negri, Splendida villa con giardino, viste incantevoli


Gallery


Mostra

a cura di Daniele Capra

 Sei interventi scultorei site specific per gli spazi del piano terra e per il giardino della dimora di Novate Milanese. “Splendida villa con giardino, viste incantevoli”, mostra personale di Matteo Negri è il progetto, di grande impatto visivo, che ribalta il punto di vista e le modalità fruizione del luogo: le opere ospitate nelle stanze della casa saranno, infatti visibili solo dall’esterno, spingendo il visitatore a essere nel contempo osservatore e protagonista. La mostra, curata da Daniele Capra, è corredata da una pubblicazione bilingue con le immagini delle opere negli spazi della casa, i testi del curatore, un contributo critico di Flaminio Gualdoni e un’intervista all’artista di Giuseppe Frangi. L’evento, assieme alla personale di Andrea Bianconi, fa parte della mostra A doppio senso, la grande mostra della stagione estiva di Casa Testori.
Splendida villa con giardino, viste incantevoli, il cui titolo allude al lessico impiegato negli annunci di compravendita immobiliare, nasce dall’analisi delle funzionalità delle singole stanze di una casa, connotate ciascuna da finalità abitative di ordine differente. Negri sceglie, invece, di cambiare visivamente la loro destinazione d’uso, trasformando ciascun spazio in un luogo fisicamente inaccessibile alle persone, ma visibile dalle finestre del giardino. L’osservatore non è così banalmente attore passivo di un percorso già stabilito, quanto invece persona esortata ad andare alla scoperta dei contenuti proposti, flâneur che interagisce con gli stimoli ambientali che gli si pongono innanzi.

Le opere di Splendida villa con giardino, viste incantevoli – che testimoniano la poliedrica abilità di Matteo Negri – spaziano da installazioni di carattere ambientale, realizzate con specchi speciali e luci teatrali, a sculture in cui vengono impiegati materiali compositi (come resine epossidiche, silicone), sino al più classico bronzo, utilizzato per la grande scultura rotante che occupa lo spazio nella veranda della dimora Testori.

La mostra è realizzata in collaborazione con ABC-ARTE, Genova.

La ricerca di Matteo Negri (San Donato, 1982) è caratterizzata da un interesse prevalente per la scultura, benché non manchino lavori di carattere bidimensionale. Ospitate frequentemente in contesti pubblici, come ad esempio in Piazza Gae Aulenti a Milano (Multiplicity, 2015) e in diverse piazze a Parigi (L’egosÏme 2010), le sue opere attivano gli spazi con un senso di ludica meraviglia.

Catalogo: con testi di Flaminio Gualdoni, Giuseppe Frangi e del curatore Daniele Capra


News

LA MOSTRA É STATA PROROGATA FINO AL 22 OTTOBRE CON 2 NUOVE ISTALLAZIONI
8 ottobre dalle 17 inaugurazione delle due nuove installazioni
9 – 22 ottobre:
Martedì – Venerdì: 10 – 18
Sabato: 14 – 20

YOU AND MYSELF. Performance 2006-2016

Andrea Bianconi
A cura di Luigi Meneghelli
Casa Testori
21 Maggio – 22 Ottobre 2016

YOU AND MYSELF
Luigi Meneghelli

[…] come si presenta tutto il lavoro plastico-pittorico di Andrea Bianconi, se non come la ricerca ossessiva di raccogliere, accumulare, mescolare oggetti e segni salvati dalla dispersione: una congerie di cose vecchie, fuori moda (o fuori uso), recuperate nei negozi di giocattoli, nei mercatini dell’antiquariato (o in decrepiti vocabolari)? Già il fatto dello spostarsi, dello scegliere, del disporre ci pone di fronte ad azioni performative, ad attività comportamentali. È chiaro: l’artista mette in disparte il suo io, e dunque il corpo, come espressione diretta. Ma nell’erranza dello sguardo e dell’esplorazione manifesta una sorta di assillo o di mania: il suo è uno “spreco del desiderio”, nel tentativo di sottrarre qualcosa del mondo all’inesorabile fuga temporale. È quella che Calvino definisce “la redenzione degli oggetti”, il riscatto del banale. Anzi, Bianconi spinge la sua operazione alle estreme conseguenze, legando (e collegando) lo sterminio di cose trovate in una romantica e surreale cascata, che stabilisce tra i vari elementi contiguità provvisorie e vicinanze inattendibili, corrispondenze celate e confronti segreti. Il suo è un infinito rimando a una “collezione”, viziata da una fragilità quasi patetica, esposta com’è al movimento, al mutamento, alla molteplicità.
È un rinvio a un assurdo che può aprire nuove strade immaginarie, senza imporre pensieri univoci. È così da sempre: contro la schematicità il paradosso e il gioco producono nuove visioni.
Ma perché, a questo punto, entra in scena l’artista vestito di tutto punto e con i guanti bianchi simili a quelli di un fantomatico mago (come accade nella performance Sound of a Charmed Life, realizzata nel 2010 a Praga, Roma, Houston)? Perché si mette a toccarla, a scuotere l’“alluvione oggettuale”, fino a ottenere singolari vibrazioni sonore, sordi effetti rumoristici? La risposta più immediata potrebbe essere: per far parlare ciò che non ha più parola, per dare voce a ciò che è diventato puro scarto, rottame, spoglia. Ma, se si osserva tutta la perturbazione del corpo (il nervosismo dei movimenti, gli scatti, i gesti quasi sgraziati) si può ipotizzare anche la volontà di ritornare al caos originario (come in una pièces di Trisha Brown) o ancor più, il desiderio di con-fondere l’io individuale con l’io collettivo, di lasciare la propria impronta nelle cose, riconoscendosi (specchiandosi) in esse.

[…]

Ma dov’è finito l’autore? È intenzione di Bianconi adottare l’arte discreta di saper scomparire, per poter osservare di nascosto il mondo? Lo stesso artista afferma di “voler essere sempre in un altro posto”, magari “in una casa d’altri, per potersi appropriare delle loro cose, dei loro libri, dei loro ricordi”. Intende esprimere la malcelata esigenza che la propria identità prenda possesso dell’alterità, che l’io si riconosca nell’altro (nell’altrove, nel non conosciuto)? A dire il vero, l’artista ha come obiettivo quello di essere autore, senza che questo risulti l’autentica ragione della sua attività creativa. Egli si sente come un mago o un regista cinematografico che nascondono i trucchi del mestiere. Più si tiene lontano dalla ribalta e cela i suoi processi operativi, più risveglia la nostra curiosità e i nostri sogni. Forse con lo scrittore austriaco Peter Handke, che vive nascosto in Francia, gli piacerebbe dire: “lo vivo di ciò che gli altri ignorano di me”. Gli altri non sanno, ad esempio che, da bravo regista, Bianconi ha progettato tutti i costumi delle sue performance, che ha scelto i luoghi inattesi o, quantomeno, spontanei, in cui far “recitare” suoi “artisti”, che ha studiato le loro pose e i loro movimenti, tanto lontani dalla coreografia convenzionale, eccetera. Ma, anche quando, più di una volta, egli decide di calcare direttamente la scena (come in Miracle, del 2006, You Always Go Down Alone, del 2010, Love Story, del 2013, Fantastic Planet, del 2016) lo fa sempre sotto mentite spoglie o ricorrendo alle più stravaganti forme di travestimento: da San Francesco con tanto di aureola, da indiano con fascia sul capo e faretra, da figura barbarica calata in un rito tribale, da alieno o da astronauta con tanto di tuta e tubi. Solo che Bianconi non assume nuove identità, mosso da una scoperta carica narcisistica, “ossessionato dalla necessità di mostrarsi per poter essere” né come rifiuto di ruoli imposti dalla società, quanto invece per impersonare con ironia e assoluto disincanto epoche, età, corpi. E, in tutto questo c’è qualcosa di infantile, di spontaneo, di rimosso dalle regole della storia. “I bambini, scrive del resto il filosofo Walter Benjamin, si costruiscono da sé il loro mondo oggettuale, un piccolo mondo, dentro il grande”. È un po’ come tornare al tempo dei giochi, dove tutto è insieme vero e falso, autentico e improbabile. Basterebbe guardare la breve, paradossale azione che si svolge in Fighting Nature (Valencia, 2012), in cui l’artista ingaggia un incontro di boxe con una foglia, fino a farla cadere (andare al tappeto) o in Love Story (Huston, 2013), in cui libera dei palloncini a cui sono legati dei fiori in modo che questi salgano dolcemente verso l’alto o anche in Tunnel City (Houston, 2013), dove dall’interno di un box lancia verso l’esterno degli aereoplanini di carta. Non ci sono mai fini, obiettivi, questioni da mostrare o da risolvere. Pare quasi di ritrovarsi dentro le atmosfere degli Happenings o di Fluxus, quando ogni manifestazione era basata sull’estemporaneità, sulla casualità, sull’intervento spontaneo e non programmato. Qui potrebbero funzionare le parole di John Cage: “L’importante è lasciare che le cose siano quello che sono”: un fatto indeterminato, un gesto gratuito, un materiale povero, una gag, una folgorazione zen.


Solo che a volte i travestimenti di Bianconi coinvolgono direttamente il problema della dissimulazione, come in Trap for the Minds (Houston, 2012) dove l’artista davanti a uno specchio indossa un numero imprecisato di maschere, fino ad arrivare all’ultima che riproduce il suo stesso volto o in Romance (sempre del 2012) dove, all’interno di una cornice luminosa, l’artista si presenta già mascherato e assiste immobile alla proiezione sul suo volto delle infinite immagini grafiche e iconiche prese da un piccolo, fittissimo testo da lui disegnato. Ci pone cioè di fronte alla faccenda del doppio, dell’essere nella sua differenza e nella sua molteplicità. Ma la risolve, dissolvendola, la supera moltiplicando i dettagli, la liquida assumendo infinite fisionomie. Però, in fondo, non c’è mai una vera soluzione. Si può dire che qui (come in tutte le performance di Bianconi), si rimane allo stato di opera incompiuta o opera potenziale, “come rovina di ambiziosi progetti, che conserva i segni dello sfarzo e della cura meticolosa con cui è stata concepita” (Calvino). Essa rimane lì come un racconto inattesa di una improbabile conclusione. Perché a contare non è il prodotto, ma il processo, non il completamento, ma lo svolgimento.

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LA MOSTRA

Con You and Myself Andrea Bianconi (Vicenza, 1974) è tornato a Casa Testori, occupando gran parte delle stanze, con il suo bagaglio di performance lungo dieci anni, in cui l’artista impiega il corpo come linguaggio espressivo e matrice di segno. Un segno che non cerca l’esibizione spettacolare, la rivelazione provocatoria, ma che acquisisce il proprio essere (la propria identità), cessando di essere segno di qualche cosa. È come se non avesse niente da dire, ma solo una serie di eventi da suggerire, da far intuire. Nelle sue performance siamo invitati a cercare anche ciò che non c’è (che non si vede, che non si sente), a intuire l’alternativa possibile, l’altra faccia del mondo. A stanare il soggetto che si nasconde nell’altro (o nell’altrove). Il myself che si con-fonde con you. La sua è la poetica dello spostamento e della transizione continua. 
La mostra ha ripercorso l’intero iter performativo di Bianconi: accanto ad azioni poste sotto il segno del ludico (della sorpresa, dello stupore), ad azioni minimali, sommesse, incantatorie, Bianconi ha sviluppato altre performance che implicano autentiche “recite collettive”. 
L’artista non si pone stretti limiti disciplinari, regole, gerarchie, se non quelli di aprirsi all’altro, al pubblico, per destare stupore, incredulità, interrogativi. Spesso, la performance di Bianconi ha a che fare con una sorta di “divertimento artistico”: è una gag, una serie di gesti apparentemente gratuiti, di risibili azioni ludiche. Alla pari degli attori dei film muti (o dei bambini) a lui piace nascondersi e apparire in scena all’improvviso. 
Soprattutto le maschere fanno la loro apparizione come strumenti di difesa, di fuga, di falsità. In Trap for the Minds (del 2012), l’artista se le mette e se le toglie ossessivamente, fino ad arrivare all’ultima che non è altro che la riproduzione della sua stessa faccia. E molte sono le immagini delle “trappole” di cui Bianconi dissemina i luoghi delle sue performance: scatole, specchi, gabbie, maschere che spesso vengono indossate dai protagonisti, senza che si capisca mai fino in fondo se, questo, avvenga per rinchiudersi, isolarsi o per vivere l’esperienza della dispersione, dello sconfinamento, delle associazioni imprevedibili.

Andrea Bianconi vive e lavora tra Vicenza e Brooklyn. Fra le sue esposizioni, una public performance tra la Piazza Rossa, il Cremlino e il Manege Valencia, Madrid, New York, United Arab Emirates, Basilea, Palazzo Reale, Milano, Shanghai. 
Nel 2011 Charta ha pubblicato la sua prima monografia, nel 2012 Cura.Books  il suo primo libro d’artista “ROMANCE” e nel 2013 il secondo dal titolo “FABLE”. Entrambi fanno parte della collezione del MoMA, NYC.

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Presentazione: Il gran teatro montano

In occasione della mostra: ARRIVA IL GRAN TEATRO MONTANO 
a Casa Testori (9 aprile – 8 maggio)

presentazione della nuova edizione:
IL GRAN TEATRO MONTANO DI GIOVANNI TESTORI
Sabato 16 aprile, ore 18
Villa Venino, Novate Milanese (Largo Padre Ambrogio Fumagalli, 5)

con il curatore del volume:
Giovanni Agosti (Università degli Studi di Milano)
e
Davide Dall’Ombra (Casa Testori), Alberto Rollo (Giangiacomo Feltrinelli Editori)

A seguire visita guidata alle statue a Casa Testori. 

dal comunicato:
A cinquant’anni dalla comparsa della prima edizione, ritorna Il gran teatro montano di Giovanni Testori. È ancora oggi la migliore introduzione per chi voglia accostarsi a un luogo unico del nostro paese: il Sacro Monte di Varallo, che – proprio a partire da questo libro – è diventato persino per le pro loco o le agenzie di viaggi il “gran teatro montano”.

Le parole di Testori si sono impresse in maniera indelebile sulle cappelle, sugli affreschi, sulle statue e, verrebbe da dire, persino sui boschi e sui torrenti della verdissima Valsesia, oggi amministrativamente piemontese ma per secoli – fino al 1707 – parte dello Stato di Milano.

Il volume Feltrinelli del 1965, dal memorabile apparato illustrativo qui riproposto, è costituito da cinque saggi che testimoniano la passione dell’autore per il massimo responsabile del Sacro Monte: Gaudenzio Ferrari, un artista originario di Valduggia, in Valsesia, attivo appunto a Varallo, ma anche a Vercelli, a Novara e a Milano, dove muore al principio del 1546.

Adesso il libro originario è stato arricchito da una serie di interventi di Testori su Gaudenzio, che dimostrano la lunga fedeltà a un autore particolarmente amato.
LA nuova edizione non rinuncia ad un’opera scrupolosa di attualizzazione e contestualizzazione, garzie a due saggi e un inserto fotografico curati da Giovanni Agosti, che definiscono le coordinate storiche che hanno visto nascere il volume e ne inquadrano il peso e il ruolo negli studi gaudenziani. In un continuo dialogo tra ora (2015) e allora (1965), il nuovo Gran teatro montano si pone perciò come un momento di riflessione sul metodo e sullo stato di salute della storia dell’arte in Italia oggi.

Il volume è acquistabile online o nel bookshop di Casa Testori

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