Pocket Pair

HARALD SZEEMANN NEL SUO ARCHIVIO

Jacopo Rinaldi 

Uno dei lavori più complessi sviluppati da Rinaldi nel corso degli anni si è focalizzato su Harald Szeemann e il suo archivio, a partire da un documentario realizzato dall’artista nel 2014 presso l’ex Archivio di Szeemann, la Fabbrica Rosa, a Maggia, in Canton Ticino, durante il suo processo di svuotamento e spostamento negli Stati Uniti. 
Da qui l’artista ha iniziato a riflettere sulle relazioni tra spazio, ricerca curatoriale e le dinamiche di proiezione delle stesse metodologie di ricerca del più importante curatore del XX secolo, all’interno del suo ambiente di studio e lavoro. 
Da queste premesse sono nati una serie di lavori editoriali, grafici, video e fotografici di cui in mostra si presenta un allestimento site-specific, pensato appositamente per instaurare un ipotetico dialogo Testori – Szeemann. Se infatti da una parte la mostra si apre con una riflessione di Alessandra Ferrini sul metodo Morelliano e Longhiano del riconoscimento, dall’altra la stessa si chiude con un’apertura, intuitiva, verso le metodologie e i sistemi di relazione e produzione che caratterizzano l’arte contemporanea da Szeemann ad oggi. Un intreccio di sguardi e metodi che è, in fondo, un’ulteriore chiave di lettura dell’intero progetto espositivo.  

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Jacopo Rinaldi, Harald Szeemann nel suo archivio, 2017, Stampe, carta da parati

INTERVALLO

Jacopo Rinaldi 

A Casa Testori Jacopo Rinaldi ricostruisce un’installazione nata nel 2016 in Salento, pensata per la linea ferroviaria tra Lecce e Gagliano del Capo. L’artista aveva sostituito le tende di un vagone del treno con alcuni tessuti stampati con i i frame di un piccolo video girato nel 1935 da una littorina, carrozza motrice creata in epoca fascista e diventata sinonimo di “treno” nella cultura popolare italiana. Come scrive l’artista “i vagoni [della linea Lecce e Gagliano del Capo] sono molto piccoli e hanno fra i 16 e i 17 finestrini, esattamente quanti frame al secondo ha bisogno l’occhio umano per avere un’immagine fluida del movimento. Vorrei quindi stampare sui tendaggi dei finestrini 16-17 frame di un video sull’Africa preso dall’Istituto Luce. Il video, realizzato per un cinegiornale, è ripreso da dentro un treno durante l’inaugurazione della ferrovia dell’Oltremare pugliese. L’idea è quella di un’intermittenza fra un’immagine fissa di un video, che in realtà è in movimento, e un’immagine che sarebbe fissa se solo il treno non si muovesse. Viene a realizzarsi un palinsesto intermittente con diverse temporalità a confronto: tende chiuse fermo nel passato, tende aperte ti muovi nel presente”.
In questa installazione per Casa Testori, Rinaldi riallestisce le tende rimosse dal treno mettendole in dialogo con il video dell’Istituto Luce, creando un nuovo intervallo tra passato e presente, questa volta nel dialogo con gli altri ambienti domestici e la più vasta riflessione sulle relazioni tra immagine e realtà, che attraversa l’intera mostra. 

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Jacopo Rinaldi, Intervallo, 2017, Tubi in metallo, tende in cotone, HD Video 1’’, In associazione con Archivio Storico Istituto Luce, Ferrovie del Sud Est, Courtesy dell’artista e dell’associazione RAMDOM

ABRASFERA

Jacopo Rinaldi 

L’installazione ambientale di Jacopo Rinaldi sviluppa e approfondisce le riflessioni legate al colonialismo e alla storia italiana del novecento già introdotte nei capitoli precedenti.  L’elemento centrale del progetto è una lastra in metallo in cui è incisa una pattern che l’artista arriva a costruire attraverso la ripetizione di un elemento grafico. Si tratta di un disegno che Rinaldi rielabora a partire da un’immagine realizzata negli anni Venti da Luigi Daniele Crespi per la Pirelli. Le mani si tengono le une con le altre e allo stesso tempo tengono in mano una gomma per cancellare, appunto Pirelli. Rispetto al disegno originale l’artista, inoltre, fa indossare alle mani disegnate dei guanti bianchi, che ricordano quelli di Mickey Mouse (indossati dal cartone animato per la prima volta nel 1929 in un episodio in cui il personaggio doveva interpretare il ruolo di “incantatore di serpenti”, sicuramente “non occidentale”). 
Questo elemento grafico così, più che un documento storico, si rivela essere una nota visiva, il risultato di una speculazione storica e un sottile atto di accusa che mescola colonialismo, sfruttamento di risorse primarie (come la gomma in Africa) e rappresentazione dell’alterità, in un costante processo di espansione e negazione, come la pattern che si diffonde sul soffitto di Casa Testori, che cerca, attraverso le mani disegnate che impugnano gomme, di cancellare se stessa. 

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Abrasfera, 2016 – 2019, Installazione ambientale: incisione laser su ferro, fumo, disegni su carta.

A BOMB TO BE RELOADED

Alessandra Ferrini 

A partire dalla veranda di Casa Testori e proseguendo nella sala del camino è allestito in differenti nuclei il progetto di ricerca a lungo termine di Alessandra Ferrini dal titolo A Bomb to be Reloaded. L’opera, come spesso accade per lavori che si sviluppano negli anni, è suddivisa in vari capitoli che esplorano storie e vicende legate al Centro Documentazione Frantz Fanon (CDFF), fondato da Giovanni Pirelli nel 1963 e dedicato al celebre psichiatra e filosofo naturalizzato francese nato in Martinica, fondamentale per lo sviluppo dei movimenti di decolonizzazione in Asia, America Latina e Nord Africa.
Come scrive l’artista: “Il progetto è suddiviso in vari capitoli, che esplorano diversi personaggi e elementi investigati durante la ricerca sul Centro Documentazione Frantz Fanon. Il lavoro si basa sulla struttura di una costellazione di voci, di personaggi, di luoghi che sono più o meno legati dalla ricerca sul CDFF”.
Il lavoro affronta, nel suo insieme, le potenzialità di rivitalizzazione di un resistant archive cioè un archivio che, nonostante i suoi spostamenti e smembramenti, continua ad avere la possibilità di parlare ed interrogare il presente, appunto come una bomba che sta per essere innescata. La portata politica dell’intero lavoro non ha dunque solo un piano contenutistico, ma anche metodologico poiché mette in luce possibilità e strumenti per dare voce a fatti e storie che solo in apparenza sono silenti. 

Così A Bomb to be Reloaded si snoda tra le sale della mostra: 

CHAPTER 0 – Sala del camino

Questo capitolo funziona come un’introduzione al progetto e al processo di ricerca sul CDFF, in particolare, sui materiali della sua biblioteca ed emeroteca, che mettono in rilievo il network internazionale sviluppato dal Centro, specialmente con i movimenti di lotta anti-coloniale e anti-imperialista in Africa, America Centrale e Meridionale, e Sud Est Asiatico. Concentrandosi sugli spazi che ne accolgono i materiali, e la storia dietro la loro dispersione, la ricerca è stata sviluppata durante un laboratorio realizzato nel 2018 con gli studenti dell’Accademia di Belle Arti di Brera a Milano. Include documenti che appartenevano al CDFF e materiale documentario relativo a luoghi storici dell’attivismo milanese come l’Archivio Primo Moroni o la Panetteria Occupata, così come all’Istituto Nazionale della Storia del Movimento di Liberazione in Italia.

CHAPTER 1 – Sala del camino 

Il primo capitolo, in ordine di tempo, esplora l’influenza diretta di Fanon su Giovanni Pirelli e sul regista Valentino Orsini. L’installazione è realizzata attraverso documenti storici, pubblicazioni e citazioni stampate su grandi bandiere e si concentra sul film diretto da Orsini I Dannati della Terra (1969) anche attraverso un’intervista realizzata da Ferrini con Kadigia Bove, attrice che compare nello storico film, che deve il suo titolo proprio al celebre libro di Fanon. Questa presenza cerca anche di sopperire alla scarsa visibilità femminile nella narrazione del contesto storico del cosiddetto “terzomondismo”. L’installazione, in particolare, mette in luce l’importanza della scrittura e dell’esposizione di una pratica autoriflessiva e autocritica, nell’attività degli autori.

CHAPTER 2 – Veranda

Questo capitolo si focalizza sull’opera del compositore  Luigi Nono  A floresta è jovem e cheja de vida scritta tra il 1965 e il 1966  in collaborazione con Giovanni Pirelli e suonata per la prima volta nel 1966 al teatro La Fenice di Venezia in occasione della XIX Biennale di Musica Sperimentale di Venezia. L’installazione di Ferrini, attraverso documenti storici e video, ricostruisce la storica performance ma “lo fa in modo parziale: si concentra su alcuni documenti che sottolineano l’influenza del pensiero Fanoniano sulla realizzazione dell’opera e su una delle performer dell’opera, Kadigia Bove che collega anche questo capitolo con quello precedente”. I racconti di Kadigia arricchiscono questa narrazione di una serie di aneddoti e storie autobiografiche, che aprono anche una finestra sull’esperienza dell’attrice e cantante – di origini Italo-Somale – nell’Italia del dopoguerra.

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Alessandra Ferrini, A Bomb to be reloaded (Chapter 0), 2018 – 2019, Installazione ambientale: stampe fotografiche e su alluminio dibond, Courtesy di INSMLI, Archivio Primo Moroni e Panetteria Occupata.
Alessandra Ferrini, A Bomb to be reloaded (Chapter 1), 2018 – 2019, Installazione ambientale: video, stampa su plexiglass e su tessuto acrilico, materiali d’archivio.
Alessandra Ferrini, A Bomb to be reloaded (Chapter 2), 2018 – 2019, Installazione ambientale: video, stampa su plexiglass e su carta, treppiedi in alluminio, Courtesy di Archivio Privato Giovanni Pirelli, Fondazione Archivio Luigi Nono e Kadigia Bove.

MARADAGÀL

Jacopo Rinaldi 

Il grande salone di Casa Testori viene trasformato da Jacopo Rinaldi in una serra piena di piccole piante tropicali. Questa installazione ha diverse chiavi di lettura che superano quello che a prima vista sembra un semplice interesse botanico. Il primo piano interpretativo ha a che vedere con il titolo del lavoro Maradagàl: si tratta del nome del paese immaginario in cui Carlo Emilio Gadda situa il suo romanzo La cognizione del dolore (1963). Maradagàl è un luogo inventato ma anche una ricostruzione fittizia della Brianza fascista degli anni Venti e un’aspra critica all’indolente società borghese italiana di quegli anni. In questa prospettiva le piante scelte da Rinaldi ironizzano e mostrano criticamente la dimensione borghese della cultura milanese in cui lo stesso Testori nacque. Inoltre l’inserimento della pianta tropicale all’interno del contesto domestico, come evidenzia Penny Sparke, è esso stesso un atto decorativo coloniale, nato nell’Inghilterra vittoriana, che legittima la dimensione esotica e aspirazionale della cultura borghese – modernista.

Vi è però, nella semplicità di questa azione, un livello successivo di lettura dell’opera: le piante tropicali alludono in modo molto più specifico alla storia italiana ed entrano in relazione con il racconto di Gadda, le vicende fasciste e il passato coloniale, in modo intimo poiché le piante allestite sono di Ricinus Comunis, noto anche come ricino. 

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Jacopo Rinaldi, Maradagàl, 2019
Installazione ambientale: ferro, alluminio, luci led e piante di ricino

LA REALTÀ DEGLI ALTRI

Alessandra Ferrini 

La mostra si apre con un’installazione creata da Alessandra Ferrini appositamente per Casa Testori. Si tratta di un ecosistema di indizi e riferimenti relativi alla cultura visiva e all’attività critica di Giovanni Testori. Quest’opera si pone in termini seminali rispetto all’intera mostra perché documenta un approccio teorico caratteristico dell’intero percorso e basato sulla costruzione di una serie di assonanze visive, di riferimenti storici e di inedite relazioni culturali e storiche. Nel caso specifico troviamo alcuni articoli scritti da Testori sul “Corriere della Sera” e dedicati all’arte africana e una serie di composizioni digitali in cui alcuni dettagli di dipinti moderni affiorano. La riflessione di Alessandra Ferrini prende le mosse dal saggio di Carlo Ginzburg Spie. Radici di un paradigma indiziario1 in cui il celebre storico mette in relazione il noto storico dell’arte Giovanni Morelli, Sherlock Holmes e Sigmund Freud, mettendo a nudo l’arbitrarietà incompleta di un metodo indiziario basato sul dettaglio e il frammento, sia esso all’interno di un quadro o di un’analisi giudiziaria. Questa arbitrarietà è quella che caratterizza anche l’egemonia “realista” della storia dell’arte occidentale sulle culture colonizzate e di cui, nei suoi articoli, Testori riconosce l’irriducibilità ai sistemi epistemologici europei. In questa prospettiva l’opera di Ferrini diviene essa stessa un reticolo indiziario in cui frammenti di dipinti, una fotografia tagliata in due di Roberto Longhi con in mano una lente d’ingrandimento e i materiali tratti dall’archivio di Testori (compresedelle lettere che chiedono al critico l’attribuzione a Daniele Crespi di un dipinto) suggeriscono allo spettatoreuna differente prospettiva con cui leggere e approcciarsi alla storia dell’arte, ai suoi limiti e ai meccanismi egemonici che ha innescato e tuttora innesca.

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Alessandra Ferrini, La realtà degli altri, 2019
Stampe fotografiche e documenti d’archivio

TRAGÖDIE

Marica Fasoli e Silvia Argiolas
A cura di Ivan Quaroni
Casa Testori
21 Giugno – 8 Settembre 2019

TRAGÖDIE. PREMESSA
Ivan Quaroni 

Nella barbarie linguistica della comunicazione odierna – massmediatica direbbe qualcuno – la filosofia è stata oggetto di numerosi processi di liofilizzazione a uso e consumo del pubblico. Tra i concetti che questo tipo di pubblicistica ha consegnato alla mediocrità del vocabolario corrente, vi sono due aggettivi sostantivati di estrema rilevanza: dionisiaco apollineo.
Sono termini oggi grossolanamente usati per designare due aspetti o attitudini del comportamento umano. Il primo, di carattere orgiastico, attiene i sentimenti di esaltazione e furore della sfera istintiva e irrazionale; il secondo, di matrice solare, introduce le idee di ordine e armonia che sostanziano il pensiero logico e razionale. Si riferiscono a due divinità della religione dei greci antichi: Dioniso, il Dio arcaico della vegetazione, incarnazione della linfa vitale, ibrida e multiforme, che alimenta le esplosioni mistiche e sensuali, secondo un principio d’indistinzione, o di primaria comunione tra uomo e natura; Apollo, divinità dalle qualità cumulative, auriga solare, protettore di pastori e greggi, patrono della musica, della poesia, della medicina e della mantica, acuto nel giudizio, oscuro nei vaticini. 
Dionisiaco apollineo prendono forma nella mente di un giovane filologo tedesco rintanato in un angolo delle Alpi, durante la guerra franco-prussiana del 1870-71, “mentre i tuoni della battaglia di Wörth trascorrevano sull’Europa”. Friedrich Nietzsche dà alle stampe la sua opera prima, La nascita della tragedia dallo spirito della musica, ovvero grecità e pessimismo, nel 1872, esordendo con uno sbalorditivo incipit: “Avremo acquistato molto per la scienza estetica, quando saremo giunti non soltanto alla comprensione logica, ma anche alla sicurezza immediata dell’intuizione, che lo sviluppo dell’arte è legato alla duplicità dell’apollineo e del dionisiaco”. 
Sarà, infatti, la composizione dei due principi che fanno capo alle opposte origini e finalità delle due divinità, sempre in aperto contrasto e in “eccitazione reciproca”, a produrre finalmente l’opera d’arte, inizialmente nella particolare forma della tragedia attica. Tuttavia, quattordici anni dopo la pubblicazione dello scritto, nel suo Tentativo di autocritica (1886), Nietzsche applica quelle prime e visionarie intuizioni estensivamente a tutta l’arte, indicando in essa – e non nella morale – la vera attività metafisica dell’uomo. 
La Nascita della tragedia s’innesta, a tratti come una sorta di sovrascrittura, sulla concezione pessimistica de Il mondo come volontà e rappresentazione di Arthur Schopenhauer (1818). Il dionisiaco vi s’inserisce come una forma di totale identificazione col dolore originario, come uno stato che subentra alla rottura del principio d’individuazione e produce una mistica, erotica congiunzione con la natura, un rapimento estatico che l’autore della Tragedia paragona all’ebbrezza provocata dalle bevande narcotiche o dal “poderoso avvicinarsi della primavera”.
Laddove Schopenhauer avverte il terribile orrore che afferra l’uomo quando perde fiducia nelle forme di conoscenza dell’apparenza, Nietzsche intravede una possibilità di riconciliazione con la natura. Proprio qui si consuma il distacco dal pensiero di Schopenhauer. Nietzsche si domanda, infatti, se il pessimismo – ossia la coscienza che il mondo e la vita non possono dare nessuna vera soddisfazione, nessuna gioia permanente – sia necessariamente un segno di declino, di decadenza o se possa esistere un pessimismo della forza, “un’inclinazione intellettuale per ciò che nell’esistenza è duro, raccapricciante, malvagio e problematico, in conseguenza di un benessere, di una salute straripante, di una pienezza dell’esistenza”.

TRAGÖDIE. DUE EVIDENZE APPARENTEMENTE ESEMPLIFICATIVE
Ivan Quaroni 

Ora, la succitata premessa potrebbe fornire una chiave interpretativa delle ricerche di Silvia Argiolas e Marica Fasoli. Si potrebbero, cioè, applicare le categorie contenute nell’opera prima di Nietzsche per penetrare a fondo le loro differenti attitudini espressive.
Nella pittura di Argiolas domina lo spirito dionisiaco, l’attrazione per il titanico e il barbarico, l’interesse per il doloroso fondo esistenziale e per la sua controparte panica e sensuale. C’è, nei suoi racconti visivi, l’espressione di uno sguardo coraggioso, intento a scrutare gli accessi di follia e i deliqui erotici, le estasi e le agonie del magma esperienziale, ma anche la banale quotidianità di esistenze straordinarie o marginali.
Placido e distillato è, invece, lo sguardo di Marica Fasoli, governato dalla geometria aurea e trasognata dell’apollineo. La sua indagine pittorica decanta il mondo in forme astratte, filtrandolo attraverso una pletora di diagrammi che simbolizzano la realtà fenomenica, senza mai rappresentarla direttamente. L’impeto mimetico, che da sempre costituisce la marca stilistica del suo lavoro, è indirizzato verso la pellicola dell’immagine, insieme superficie testurale e concettuale. 
Quella di Argiolas è una pittura scaturita da un abbandono vigile, che riceve e restituisce, come una sorta di documento poetico, l’urto dell’esperienza vitale. Quella di Fasoli è una pittura stillata e meditata, che osserva la vita da un punto di vista remoto per ricavarne un senso ulteriore, radiografandone la struttura per trasmetterla all’osservatore in forme platoniche e ideali, ma dotate di una potente capacità seduttiva. 

Tragödie fa parte di Pocket Pair, un ciclo di mostre coordinato da Marta Cereda avviato da Casa Testori nel 2018. Il titolo del ciclo riprende un’espressione del gioco del poker che indica la situazione in cui un giocatore ha due carte, di uguale valore, e deve scommettere su di esse. Allo stesso modo, i curatori scommettono su talenti emergenti, due artiste/i dal pari valore, per dar vita a una bipersonale di elevata qualità, allestita al pian terreno di Casa Testori dove sono liberi di incontrarsi, anche all’interno delle singole stanze, di farsi visita, di dialogare da vicino.

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