Nascosta

Alessandro Mendini, LA POLTRONA DI TESTORI

Stanza 17

Una grande villa borghese accanto a Milano. E in essa l’astratta presenza di Giovanni Testori, il grande artista che ho sempre amato. Che bello compiere un gesto nella sua casa, dentro a una sua stanza. Pensieri per me pieni di storia e di memoria, parole e disegni tanto assimilati nel passato. Di questi giochi di anime è di fatto il mio spazio in casa Testori, un omaggio compiendo un esercizio parallelo. I miei stilemi sulle sue pareti, uno scatto di intesa con i suoi muri parlanti, dove con il colore provo a ripercorrere lo spirito dei suoi gesti. E poi nel belvedere a semicerchio fuori dalle due finestre una fredda poltrona di bronzo. Dove spero per qualche giorno Testori vorrà stare a meditare, cioè sulla poltrona di Testori.
Alessandro Mendini

Alessandro Mendini col suo lavoro d’intreccio, tra pittura progettata e design pittorico, si pone correttamente nella posizione di chi non può che rappresentare la contraddizione come valore della creazione artistica con altri processi produttivi passibili d’istruzioni prima dell’uso. La complessità in questo caso consiste proprio nel progetto dolce di trasferire nel campo della pittura quel raffreddamento tipico del design e in questo il calore decorativo caratteristico di quella. Si arriva così alla scarnificazione di un linguaggio depurato dall’edonismo della materia e dall’enfasi ornamentale capace di nobilitare la mancata funzionalità dell’oggetto. L’operazione è valida proprio a partire dalla ricerca di un equilibrio creativo fra le due polarità attraverso la scelta di una volubilità capace di tenere in piedi due processi creativi differenti eppure convergenti tra loro. Evidentemente Mendini ha superato la superstiziosa superbia dell’artista come architetto del mondo, di colui che deve produrre risposte costruttive alla domanda sociale di un ordine possibile e trasferibile in scala dal perimetro dell’opera a quello più vasto dell’esterno. L’intreccio operativo di Mendini comporta l’assunzione di un sistema strabico di produzione linguistica supportato sempre da un desiderio di astrazione dei generi adoperati. L’astrazione è raggiunta proprio mediante l’applicazione del metodo di contraddizione. Contraddizione della specificità linguistica raggiunta mediante, appunto, una “pittura progettata” e un “design pittorico”. In tal modo assistiamo a una de-strutturazione della pittura e del design realizzata attraverso l’ampliamento delle loro possibilità. L’ampliamento determina una perdita di confine, l’astrazione di un perimetro dell’opera che trova la propria definizione attraverso la citazione di procedure assolutamente contaminanti. La trasversalità formulata dal nuovo metodo creativo di Mendini comporta l’assunzione anche dell’architettura come vasto campo della rappresentazione, dove il modulo architettonico non è struttura edilizia ma attrezzo scenico. In tal modo non ci troviamo di fronte alla speranza avanguardistica di una sintesi delle arti quale possibile antidoto totalizzante contro la parzialità dei linguaggi e del mondo.
Achille Bonito Oliva

Alessandro Mendini è nato a Milano nel 1931.

Diamante Faraldo, AUGE DER ZEIT – OCCHIO DEL TEMPO

Stanza 18

Attraverso lenti di ingrandimento capovolte, due disegni che stigmatizzano l’immaginario del “secolo breve”. In un dittico di marmo nero del Belgio, acquasantiere del mondo, la mappa della terra si riflette e si inonda di petrolio, specchio delle rovine di un mondo, che ha perso la vertigine della verticalità.
Diamante Faraldo

Le opere di Diamante Faraldo si danno come forme depurate, essenziali: presenze forti, approdo di un percorso di ricerca per sottrazioni e assenza fino a giungere all’assolutezza della forma, a un nucleo concentrato e rappreso. Puntano direttamente, in un percorso abbreviato, verso l’unità dell’immagine, verso il suo carattere assoluto. Le forme di Faraldo nascono dal vuoto, nel silenzio, ne sono circondate e se ne nutrono nella loro compattezza rappresa. Procedendo per riduzioni e sottrazioni al puro segno, nel vuoto rimangono i simulacri, l’aspetto immateriale del reale. Costituiscono l’altrove dello scandalo della morte. Si pongono alla soglia tra lo spazio della vita e quello dell’annientamento.
Eleonora Fiorani

Diamante Faraldo è nato nel 1962 ad Aversa, in provincia di Caserta. Ha frequentato l’Accademia di Belle Arti di Napoli e nel 1984 ha tenuto le prime personali a Castel dell’Ovo a Napoli e a Grenoble. Nel 1986 si è trasferito a Berlino per approfondire i suoi studi artistici e, di ritorno dalla Germania, si è stabilito a Milano dove vive e lavora. Nel 1991 ha esposto all’Institut Français di Napoli, nel 1996 allo Studio Gennai di Pisa e presso Il Cantiere di Venezia. Nel 1998 ha tenuto la mostra Stilleben allo spazio Decidue Arte di Milano e Contaminazione allo Spazio Mozzilo di Milano. Nel 2000 ha esposto all’Artforum di Merano e alla Fondazione Mudima di Milano. Nel 2001 ha partecipato a Le Tribù dell’arte al MACRO di Roma e nel 2004 ha realizzato Stimmung allo Spazio Mudimadue di Milano. Nel 2006 ha tenuto una personale presso la Galleria Gianluca Ranzi di Anversa e nel 2007 alla Galleria Nina Lumer di Milano.

Rossella Roli, VALIGIE

Stanza 20

“Lo slancio del gesto di partire, l’audacia avventurosa delle spedizioni in terra remota, ingannano circa le loro motivazioni. Non di rado si tratta semplicemente di evitare quanto ci sta dappresso, perché non siamo all’altezza di affrontarlo. Ne avvertiamo la pericolosità e preferiamo avere a che fare con altri pericoli di ignota entità”. Mi piace iniziare con queste parole di Elias Canetti, perché davvero lo spirito umano si rivolge spesso verso le cose lontane e trascura tutto ciò “contro cui va continuamente a sbattere”. Lo spirito che “sbatte” contro le cose vicine, che si affanna per schivarle avventurandosi verso altri luoghi, credendo così di metterle a tacere, mi ha accompagnato per molti anni. Lo spirito che si allontana è un salvataggio, almeno ho creduto che lo fosse. Tutte le volte in posti lontani (non solo fisici), ho sempre avvertito un malessere, un sintomo, come a dirmi “questo non è il tuo posto, torna a casa”. La casa fisica e la casa “dentro”. La casa fisica è facile, la casa “dentro” è da ricostruire, smantellare fin sotto le fondamenta e ricomporre, mi ci sono voluti vent’anni. Adesso posso raccontare qualcosa della mia storia, della mia memoria, costruire valigie e avventurarmi verso luoghi ignoti. Ospite per diciotto giorni, in una stanza al primo piano nella casa in cui Giovanni Testori amava ritornare dopo le “puntate verso l’esterno”, mi piace ricordare le sue parole: “Però, io ti assicuro che quello che mi ha sempre aiutato a vivere e, di più, ad accettare la vita anche nella sua maledizione, è sempre stato il ritorno a casa”.
Rossella Roli

Non c’è spazio per i souvenir: il bagaglio è un kit di sopravvivenza, raccoglie dentro sé il necessaire fantastico per un viaggio reale. Valigie che sono altrettanti ponti verso mondi possibili, posti appena un passo a lato del nostro quotidiano; risplendono di simboli, cariche di richiami organici, cuori e cordoni ombelicali rosso porpora o carminio, sono il sangue venoso colmo di impurità o quello che sgorga come sorgente chiara dalle arterie, segnate da blu femminei, sorrette da trasparenze aeree vetrose, affermando un hic et nunc che brucia qualsiasi tentazione di spiritualità. Sono un’affermazione eppure un dialogo aperto: enti attivi, pensati nello svolgersi del tempo, immaginati come compagni di viaggio, da toccare, aprire, usare, rompere, manipolare e reinventare. Si tratta di sopravvivenze: l’opera di Rossella Roli, impudica, dismette ogni vanità e intraprende un’ascesa verso la vetta della montagna, verso altri spazi temporali, negli inferi della memoria. Non ci sono oggetti, infatti, slegati dall’azione del ricordare, essi sono naturalmente connotati come macchine del tempo. Materni nel loro proteggerci dall’horror vacui, sono presenze in prima istanza rassicuranti, capaci di ancorarci al reale, talvolta taumaturgiche. Scavalcando l’idea che l’opera d’arte – in particolare quella che ha a che fare con la scultura – necessiti di un luogo fisico determinato con cui discorrere e infrangendo la regola aurea che la vuole sacra, intoccabile, elemento ieratico quando avvolto in fumi metafisici, o semplicemente cinico, quando più connotato di allure contemporanea, l’assemblaggio di Rossella Roli invece è audace nel rinunciare ad uno status prestabilito, non ha paura di essere dipendente dal fruitore, di farsi cosa d’uso quotidiano.
Silvia Bottani

Rossella Roli è nata a Modena nel 1967. Si è diplomata all’Accademia di Belle Arti di Brera con specializzazione in Arti Visive. Attualmente vive e lavora a Milano. Si occupa di progettazione grafica dal 1989. Nel 2001 ha frequentato il master di web design presso la Domus Academy di Milano. Dopo aver partecipato ad alcune mostre collettive, nel 2009 ha tenuto due mostre personali a Milano: Porzione di mare che sale e di cielo che sale che sale che sale alla Galleria Blanchaert e Survivals alla Galleria Obraz.

Andrea Mastrovito, SETTE GIORNI

Stanza 21

L’opera che presenterò a Giorni Felici è un immediato rimando al titolo della mostra. Entrando in casa, ho avvertito una sensazione familiare. “Familiare” sia nell’accezione freudiana di opposto e, al contempo, sinonimo di “perturbante” (heimlich, ovvero “familiare” in tedesco, ha un secondo significato più letterale ovvero “tenuto in casa, nascosto”), sia nel suo significato più comune, di qualcosa vi già conosciuto, vissuto, come di un passato, recente e magari, appunto, sereno, “felice”. Il contrasto fra queste due sensazioni, simili ed opposte, mi ha condotto a concepire questo lavoro, Sette Giorni. “Sette Giorni” sono una settimana, l’emblema del ciclo della vita e della natura che inizia e finisce e ricomincia ininterrottamente, nascendo dalle proprie ceneri ogni volta. “Sette Giorni” è anche la frase che Samara Morgan, nel The Ring di Gore Verbinski, pronuncia sussurrando al telefono preannunciando la fine per sua mano. Anche lì si tratta di ciclo, di “anello”, appunto. E così ecco nascere questi sette collage neri. Quadri neri che fasciano la stanza portando ognuno il nome di uno dei giorni della settimana e dove i ricordi, i volti sereni del passato e del presente, scavati nel bianco della carta sottostante, si lasciano avvolgere e carezzare dal nero del futuro e dell’oblio.
Andrea Mastrovito

Una ricerca rivolta alla meraviglia, in realtà un’antenna inquieta sul mondo e il nostro bagaglio culturale, diluita secondo modalità e materiali fragili votati allo stupore percettivo. Sensibilità verso il contingente, il dato cartaceo e la luce quali strumenti ineffabili per evidenziare una pratica sempre concettuale: l’apposizione di lacerti colorati, la perizia certosina di assemblare frammenti che si svelano parti di un tutto nel piano compositivo d’insieme, in cui ogni dettaglio ricostruisce deontologicamente e fisicamente una nuova realtà, immaginifica ma non per questo meno vera. L’artista varca la soglia del dato bidimensionale, servendosene. L’esito è pittorico ma per suggestione e non certo per l’impiego di tela e pennello: vi è interesse alla parte procedurale, all’attivazione di una forma e alla costruzione della stessa secondo una logica semplice ma non facile, infantile nel rimando gioioso e bricoleur. L’Homo Ludens quale possibile risposta propedeutica alle nostre fratture esistenziali? Una prospettiva a volo d’uccello quella di Mastrovito, in moto perpetuo fra estrema perizia artigianale e l’attualizzazione di problematiche urgenti, sempre condotta secondo modalità lievi. Come afferma Derrida, filosofo prossimo alle istanze fin qui osservate, “Resta ancora da intaccare uno spazio che possa dar luogo alla verità in pittura. Né interno né esterno, questo spazio si allarga senza lasciarsi mai incorniciare, ma non sta mai fuori-quadro. […] Il tratto vi si attrae e si ritrae da sé, vi si attrae e vi fa a meno, da se stesso. Si situa.”
Andrea Bruciati

Andrea Mastrovito è nato a Bergamo nel 1978. Ora vive tra Bergamo e New York. Ha esposto la prima volta nel 2003 al The Flath di Milano. Ha tenuto tre mostre personali presso la Analix Forever di Ginevra nel 2005, nel 2007 e nel 2009. Nel 2006 e nel 2008 ha esposto alla Galleria 1000eventi e Antonio Colombo Arte Contemporanea di Milano, nel 2007 al Palais des Exposition di Bruxelles, nel 2008 alla Jerome Ladiray Gallery di Roue, al Dior Centre di Parigi e all’Italian Academy della Columbia University. La Foley Gallery di New York ha ospitato nel 2008 Black Bag – American Philosophy of Composition e nel 2009 Love is a four-letter word. Nello stesso anno ha tenuto le mostre Enciclopedia dei fiori da giardino all’ Assab One – Ex GEA di Milano, La Bonne Nouvelle al Centre d’Art Contemporain di Lacoux, e Climat Poetique all’Hotel de Ville di Ginevra. Ha partecipato alla II Biennale di Praga nel 2005 e alla 15a Quadriennale di Roma nel 2008. Nel 2005 ha esposto nella mostra Beauty is not difficult presso la Fondazione Stelline di Milano e trasferita poi a Berlino. Nel 2009 si è tenuta Italian Artists New York all’Istituto Italiano di Cultura di New York e, nello stesso spazio, ha realizzato nel 2010 l’istallazione Velocità  d’automobile + fiori. Il 5 giugno 2010 ha allestito The Island of Dr. Mastrovito in una stanza del Governor’s Island di New York.

Julia Krahn, MUTTER UND TOCHTER

Stanza 4

L’opera Mutter rappresenta una maternità senza figlio e nasce come minuscolo porta foto che si sviluppa sul lato opposto in un’affissione di 4 x 3 m. Nella veranda di Casa Testori Mutter und Tochter più che un’affissione è una carta da parati che ci guarda direttamente dal muro. Le due immagini sono appese nella veranda, che nella sua architettura rotonda ed ambigua, racchiude perfettamente il lavoro in un ciclo. Da una parte si accede alla zona della vita quotidiana; dall’altra invece all’esterno, al giardino. Le due grandi foto sono appese in mezzo al muro, una di fronte all’altra. Nella prima una ragazza porta in spalla sua madre. L’autoscatto, tenuto ancora in mano, guida il nostro sguardo verso una foto a terra che rappresenta la neonata tra le braccia della madre. Nella seconda la figlia si gira. L’autoscatto si è liberato dalla mano e si trova sotto il piede a contatto con il suolo. Nude, le due figure guardano avanti, poi dentro se stesse. I due corpi si fondono in un insieme di pezzi di carne. I loro piedi poggiano sul pavimento di legno di una casa vera, la carta da parati invece induce ad una messa in scena. E così la stanza ripete l’istallazione stessa, sottolineando il passaggio tra passato e presente.
Julia Krahn

Dal momento che il lavoro di Julia Krahn si interroga sulla permeabilità dello sguardo tra l’identità di artista e spettatore, esso ha costantemente a che vedere con la questione della memoria. Gli oggetti quotidiani, i simboli, le tracce del passato sono così, volta per volta, ridefiniti attraverso l’immagine fotografica. Ma più che il racconto dello scorrere del tempo o la costruzione di una storia, a Julia Krahn interessa cristallizzare, cioè trasformare da stato liquido a solido, i frammenti di un reale privato e segreto. Le opere di Julia si caratterizzano in questo senso per una fluidità ambigua: immagini esteticamente attraenti, in ultima istanza segnate da un contenuto pressoché ermetico […] Mutter è infatti un progetto in cui la drammaticità dell’immagine è in qualche modo intensificata dalla paura di dimenticare e perdere un contatto con il racconto scelto e costruito dall’artista. I corpi nudi, l’abbraccio tra madre e figlia, il riferimento a simbologie sacre manifestano non solo il tentativo di sopravvivenza, ma anche di risignificazione, dunque di rigenerazione, che è affidato alla pratica artistica.
Alessandro Castiglioni

Julia Krahn è nata ad Acquisgrana in Germania nel 1978 e nel 2000 si è trasferita a Milano abbandonando gli studi di medicina per dedicarsi esclusivamente alla fotografia. Dal 2001 ha iniziato a collaborare con la Galleria Magrorocca di Milano e a partire da quell’anno ha esposto in Italia e all’estero, in particolare in Spagna, Inghilterra e Germania. Nel 2001 ha tenuto la sua prima mostra personale dal titolo Intallation presso lo spazio Schoking di Milano. Nel 2004 ha partecipato al progetto Whant you Yokeandzoom, London -Tokyo e ha realizzato tre personali a Milano, tra cui eiapopaia_ninnananna alla Galleria Openmind. Nel 2007 si è tenuta la mostra The creation of Memory presso la Galleria Magrorocca e Denied Childhood al Museum Ludwigforum di Aachen. Nel 2008 si è qualificata seconda al Premio Arti Visive San Fedele di Milano e ha esposto tra i vincitori del Premio de Fotografia de CCM, 5th di Barcellona. Nello stesso anno è stata selezionata per la Biennale di Tehran ed è stata segnalata come miglior fotografa di bambini in Italia dalla Tau Visual. Nel 2009 ha esposto Engelstueck alla Galleria Magrorocca di Milano, ha partecipato a MACO Messico a Messico City e a PaxBank ad Aachen. Nel 2010 ha partecipato ad Art Scope a Basilea rappresentata dalla Galleria Magrorocca e nel 2012 ha presentato una personale presso lo studio Zircumflex di Berlino.

Pippa Bacca, BOULES DE BROUILLARD

Stanza 5

A Milano un tempo c’era tanta nebbia e dentro la nebbia si poteva giocare, lo dice anche la canzone (ma poi lei gridava e allora il gioco non era valido e forse bisognava rifare, forse no, non si capisce). Ora a Milano la nebbia non c’è quasi più, ma io, che non sono mica tanto giovane, me la ricordo bene e mi ricordo anche di tante persone che ho incontrato e che ogni tanto sono sbucate dalla nebbia di questa città portandone dentro di loro il senso. Ma non sono l’unica a ricordare, e voglio quindi dare una forma anche a quelle persone verissime, anche se forse inventate che ci racconta il Testori ne Il ponte della Ghisolfa. Non si tratta di un’illustrazione del libro, ma di un’interpretazione dei personaggi data da persone che oggi potrebbero essere la loro versione moderna. Così accostati i ritratti veri a quelli anche più veri, tratti del romanzo, sono tutti chiusi in barattoli, per conservarsi meglio, messi sotto grappa ed immersi nella nebbia.
Pippa Bacca

Uno dei problemi su cui l’uomo si è sempre arrovellato è quello dell’essere e dell’apparire di una cosa, reale o mentale, e del suo rapporto con la parola che la definisce: che cosa è vero e reale? Ciò che noi vediamo o un qualcosa che l’occhio non percepisce? Eraclito diceva che un fiume non è mai lo stesso perché l’acqua che scorre ne fa un’entità sempre diversa, eppure il “nome” è sempre lo stesso. Gli idealisti estremi affermavano che la realtà di una cosa è data dal pensiero che la pensa, salvo poi farsi male sbattendo, nel buio di una stanza, una gamba su una sedia che, non pensata, non esisteva! Gertrude Stein, la grande amica di Picasso, diceva che “una rosa è una rosa, una rosa, una rosa”. Ma non è vero, e Pippa ce lo dimostra, evidenziando quale complessità si cela dietro alle cose semplici e quante possibilità esistono per stabilire definizioni stabili la cui riduzione, il famoso rasoio di Occam, rischia di complicare ancor più le cose. E allora, un’arte apparentemente disinvolta, ironica, “leggera”, ci induce a riflessioni “alte” che oltrepassano il piacere dell’occhio e ci ricordano che l’uomo, se è tale, è stato fatto per “seguir virtute e conoscenza”.
Giorgio Bonomi

Pippa Bacca (1974- 2008)

Michael S. Lee, LA CITTÀ CHE NON C’È

Stanza 6

La mia opera d’arte digerisce l’idea della città in un tema. Il disegno è auto-generato, prendendo un momento della memoria e dall’immaginazione e producendo un sistema dalle esperienze. In questa maniera, io quantifico le interazioni di una serie di strutture in uno schema. Il lavoro non ha un obiettivo. Comincia da un balcone semplice o una struttura e si ripete, per ricostruirsi, e inventarsi. Io mi siedo con una penna in mano ed iscrivo i ricordi più commoventi, per poi creare un contesto dove loro possono proliferare. Io domando alla città come vuole crescere, come vuole funzionare, e come si vuole far mostrare. Il disegno è auto-generato. Come i frammenti di Venezia di Italo Calvino in Città Invisibili, queste costruzioni prendono un punto di interesse per elaborarlo verso l’esterno e verso l’interno. Verso l’esterno, come un dettaglio, che diventa un punto di partenza. Verso l’interno, come questi nuovi temi preparano il terreno per nuove interazioni umane negli ambienti insoliti. In questo modo io divento la mia memoria. Io vedo e immagino, e quindi vedo un’altra volta. Il palcoscenico è fatto per uno sviluppo tematico per lo spettatore. Io faccio un livello alto dei dettagli per un’esperienza intensa, però copro e taglio alcune parti delle formazioni. L’idea delle città supera il mezzo, gli spettatori possono interpretare e immaginare di continuare il lavoro attraverso la profondità del nero.
Michael S. Lee

La consapevolezza etica del valore del lavoro “artigianale” conferisce alla ricerca artistica di Michael S. Lee un’attenzione al dettaglio nella quale il fare e il pensare si integrano con pari dignità. Da un elemento minimo, scaturito dalla memoria, si auto-generano i suoi disegni di città, attraverso una sorta di scrittura automatica. L’elaborazione dell’elemento di partenza avviene contestualmente verso l’esterno e l’interno in una ricerca estetica e intellettuale che lo porta alla creazione di disegni complessi e installazioni.
Loris Schermi

Michael S. Lee è nato nel 1988 a New York dove frequenta il corso di architettura presso l’Università di Cornell. Ha lavorato in Sud America nell’estate del 2008 e ora vive a Brooklyn, alternando viaggi a Roma e a Seoul. Si è specializzato in disegno e istallazioni. Ha esposto a Palazzo Lazzaroni a Roma nel 2009, alla Festa dell’Architettura nel 2010 e nello stesso anno alla Galleria Hartell Gallery Ithaca di New York.

12. GIOVANNI VITALI, Rock’n roll High School

Stanza 12
Sì, va bene, ho capito, non ho studiato. Però dai, quel film era più bello che i vasi micenei. Cosa? Stavo dormendo? Sì  sono tornato tardi, ero al concerto, ma se lei mi è stata tutta notte su Facebook? E allora? E allora eccoci qui, anche a questo giro mi hanno mandato fuori dalla classe e mi hanno detto di stare fermo in corridoio. Ma perchè poi? Perchè ho giocato ai videogame anzichè fare i compiti? Oppure perchè ho mangiato un panino mentre c’era la spiegazione? Mmm…. quella scritta sul muro non possono sapere che l’ho fatta io, però ho lo stesso simbolo sul giubbotto… che siano così acuti? Ah, ecco il bidello, so che gli piacciono i miei stessi fumetti, così ci raccontiamo due storie. E poi gira la leggenda che da giovane cantasse in un gruppo. Vabbè adesso devo rientrare che c’è l’ora di diritto. Ma tanto sabato si va a Genova…
Giovanni Vitali

Nel 2009 la svolta, nel giorno in cui capisce che la bellezza non deve essere per forza nel quadro, ma nelle cose della vita. Cambia studio, vita e modo di dipingere. Cerca la bellezza in sè e disegna al computer visioni rabbiose e ironiche che poi stampa e colora su tela, quasi a ricreare il mondo pop del web, fatti di immagini senza profondità , nè gerarchia.
Marina Mojana

Giovanni Vitali è nato a Melzo in provincia di Milano nel 1981. Si è diplomato in pittura all’Accademia di Belle Arti di Brera e ora vive e lavora a Milano. Nel 2005 ha esposto al Castello Borromeo di Corneliano Bertario, nel 2006 al Centro Culturale di Milano e nello stesso anno a Trento presso lo Spazio 27. Nel 2008 ha esposto al Collegio Cairoli di Pavia e alla Galleria Obraz di Milano. Nel 2008 si è tenuta la mostra Disegnare Sui Muri presso la Fabbrica del Vapore di Milano.

J&PEG, LA NOTTE CADE SU DI NOI

Stanza 13

Una camera da letto, la stanza più segreta della casa, dove nemmeno l’ospite viene invitato ad entrare, diventa, nel percorso di questi quadri e di questa installazione, l’emblema di un mondo universale, nel quale si indaga sulla libertà e sul suo rapporto col potere. In questo ambiente l’uomo rimane solo con se stesso, finalmente libero da ogni imposizione esterna, abbandonato alla sua intimità, ma destinato comunque a soccombere davanti alle sue necessità fisiche e all’esigenza del riposo. L’essere umano, concepito con il limite del sonno, è qui già pronto ad evadere e a riscattarsi con l’immaginazione e la speranza del sogno. Una stanza, illuminata in modo da ricordare al visitatore le luci e le ombre della società contemporanea.
J&PEG

La coppia J&PEG si mette al lavoro con serena cleptomania e illustra atteggiamenti, posture, comportamenti e metamorfosi di figure che sembrano voler rappresentare un inedito teatro della vita. Pittura, scultura, fotografia ed istallazione si mettono al servizio di una messa in scena capace di spostare la contemplazione del pubblico fuori da un’esclusiva condizione di intelligenza diurna. Qui la scena invece amplifica gli spazi intermedi della fruizione estetica e determina la possibilità di affermare con Baudelaire che il Bello è sempre una promessa di felicità. Naturalmente qui il bello è volutamente costruito. Rinvia sempre ad un altrove reso possibile dalla riproduzione tecnologica, ma anche corretto dalla manualità artigianale. La convivenza dei diversi media tra loro permette una iconografia che vive ai confini tra enigma e senso esplicito. Qui l’arte sembra confermare un’inedita vocazione, quella di essere una sorta di Bocca della verità che non ci parla con sentenze ambigue e oscure, ma piuttosto illustra il bisogno dell’uomo di marcar i limiti psicologici e sociali. Per farlo J&PEG utilizza sul piano della comunicazione la famigliarità furtiva che proviene al gran pubblico dal cinema, la fotografia, il teatro e la virtualità dei giochi interattivi.
Achille Bonito Oliva

J&PEG sono Antonio Managò e Simone Zecubi; lavorano da sempre in coppia. Antonio è nato nel 1978 a Busto Arsizio e Simone nel 1979 a Gallarate. Entrambi si sono diplomati presso l’Accademia di Belle Arti di Brera: Antonio in Scultura e Simone in Scenografia. Vivono e lavorano a Milano. Nel 2006 e nel 2007 hanno esposto alla Galleria Obraz di Milano in occasione delle collettive Take Five Lo stato dell’arte. Nel 2007 e nel 2008 hanno partecipato ad Artfirst di Bologna e al Miart di Milano, nel 2008 ad Art Paris e a Roma – The road of contemporary Art. Nello stesso anno hanno tenuto la prima mostra personale Working Mates + Project Room. Ten second to midnight presso la Galleria Poggiali e Forconi di Firenze, presentati da Achille Bonito Oliva. Nel 2010 hanno partecipato all’evento (Con)Temporary Art presso Superstudiopiù di via Tortona a Milano, con una stanza dal titolo Natura Naturans.

Yi Zhou, SPAZIO DI CONFINE

Stanza 2

I suoi lavori esplorano le radici dell’iperrealismo e del neo-realismo: da una parte trae forme visibili e tangibili dai sogni e dall’immaginazione, dall’altra prende alcuni aspetti surreali dalla natura stessa. Le sue opere rappresentano una complessa sintesi di immaginazione, letteratura, mitologia, filosofia e nuova tecnologia, impregnate di cultura cinese e mediterranea. Video, istallazioni, disegni, tutti i suoi lavori introducono la magia inquietante dei caratteri virtuali in paesaggi soprannaturali così come la realtà effimera della vita, dell’amore e della morte, attraverso il linguaggio simbolico dell’inconscio. Yi Zhou presenta una visione della vita che trascende da tempo e spazio, con ironia e leggerezza.
Carlotta Testori

Il mio lavoro è nato nell’epoca virtuale. Trascorriamo gran parte del nostro tempo al computer, al cellulare o davanti ad uno schermo. Sempre meno in relazione con il reale, con il fisico. Le mie opere sono situate in un punto in movimento nel tempo e nello spazio, dove passato e futuro si mescolano nel presente. Come creature, strutture con una vita parallela, dove tutto e niente è possibile senza il tempo, in uno spazio di confine e senza vincoli. Luoghi, paesaggi, scene, e creature che rappresento potrebbero apparire familiari a un primo sguardo. Ma immediatamente ci si domanda se queste cose sono già esistite o semplicemente generate al computer. Se si basano su riferimenti precedenti o puramente generati dall’immaginazione; se il lavoro potrebbe venire da tempi antichi o da futuristici mondi esterni, creazioni di un vertiginoso, inaspettato e inesperto sentimento. E alcuni pezzi scultorei ci fanno fuggire dal presente virtuale. Ma sono pochi, così noi continuiamo a vivere in un mondo nel quale troppa realtà, troppe cose fisiche potrebbero risvegliarci dal sogno del presente virtuale.
Yi Zhou

Yi Zhou è nata in Cina e ha vissuto a Roma dall’età di 10 anni. Ha studiato tra Londra e Parigi, si è diplomata in Scienze Politiche e ora vive tra Parigi e Shanghai. Nel 2002 ha tenuto la sua prima mostra personale Y Game al Noirmont Prospect di Parigi. Nel 2004 ha realizzato la performance Mountaintank al Deitch Projects di New York. Nel 2005 le sue opere sono state esposte alla Galerie Jerome de Noirmount di Parigi e nel 2006 ha realizzato il progetto Three Cantos, Prefiguration: Inferno, Purgatorio, Paradiso a Palazzo Vecchio di Firenze, con una performance in Piazza della Signoria. Nel 2007 ha tenuto la mostra Il passato è remoto anzi sarà sempre presente. Una scultura, un video, un anello alla Galleria Nicola Ricci di Petrasanta e nello stesso anno ha presentato il video Avatar al Festival Internazionale del Cinema di Venezia. Nel 2008 ha realizzato la mostra My Heart Laid Bare alla Ooi Botos Gallery di Hong Kong e Hear, Earth, Heart alla Galerie Jerome de Noirmount di Parigi. Nello stesso anno il video Paradise è stato selezionato per la competizione ufficiale al Sundance film Festival. Nel 2009 le sue opere sono state esposte a Basel Art Fair, a Basel Miami Art Fair e al SuZhou Trou Color Museum of Contemporary Art.

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