Giorni Felici 2010

Emanuele Dottori, IL BUCO CON LA CITTÀ INTORNO

Stanza 15

Mi piace guardare attentamente, osservare, analizzare, anatomizzare ogni cosa che mi circonda. Soprattutto l’architettura, la città, da percorrere, attraversare. Da questo vengono i miei soggetti: sono tutti luoghi che ho osservato, attraversato nel mio quotidiano. Skylight è il buco della Stazione Centrale di Milano, il lucernario che dal centro del piazzale si tuffa nella metro. Tutti ci passano, molti lo vedono, ma nessuno sa che c’è. Ho iniziato a guardarlo perché mi sono accorto che c’era e ho iniziato a dipingerlo perché mi sono accorto di quante cose contenesse, in quei pochi metri di vuoto: dal buco, dalla metro, si vede il buco stesso (il suo “spessore”) con i suoi anelli rossi, e al di là di esso si vede il cielo con i suoi colori, i suoi grigi, le sue nuvole. La piazza, la stazione Centrale, il grattacielo Pirelli si intravedono, fanno capolino da dietro le sue curve, come per buttarsi dentro il buco. E sono dentro: nei vetri a metà del buco è riflessa tutta la città con i suoi simboli. Al piano basso c’è la metro le sue luci, gli ingressi, i sottopassi, i negozi, i tornelli, le scale, gli spazi, le uscite; al piano alto, guardando intorno si vedono altri spazi, altre uscite, intorno al buco; è una sorta di davanzale a metà tra la piazza e la metro da cui si vede fuori e dentro al buco: la sua piazza sotterranea a cielo aperto, in basso, percorsa dai pendolari, bagnata dalla pioggia, disegnata da un cerchio di neve bianca, quando c’è. E una volta usciti, da sopra, dalla piazza, guardando dentro, si vedono i suoi gironi rossi, si intuisce la sua geometria perfetta, il ripetersi dei cerchi, si vede meglio il suo vuoto, il suo aprirsi in mezzo alla città. Un anello lo circonda, impedendoci di finire di sotto. Questi 210 acquerelli sono una sintesi di tutte quelle cose che ho visto, osservato, attraversato, scoperto, standoci davanti. Anzi, dentro, fuori, intorno… Davanti.
Emanuele Dottori

Emanuele Dottori crea paesaggi architettonici interiori, dove ritorna il discorso del luogo-avatar, in cui si incarnano diversi modi di essere. Esemplari a questo proposito, le rielaborazioni pittoriche del lucernario della piazza antistante la Stazione Centrale di Milano: Dottori è partito da alcune foto realizzate con Google Earth e già in questa fase è riuscito ad umanizzare lo spazio e a rendere ambiguamente antropomorfo o perlomeno organico il lucernario, che in questo contesto assume le sembianze di una gigantesca bocca spalancata memore dell’immaginario di Guerre Stellari. Infine l’artista passa dalla rielaborazione all’astrazione, allontanandosi apparentemente dalla fisicità virtuale dell’immagine di internet, per passare a una visione interiore e personale, che trattiene comunque il senso dell’umanizzazione del luogo.
Mario Gerosa

Emanuele Dottori è nato a Cernusco sul Naviglio nel 1983. Attualmente vive e lavora a Roma. Nel 2006 si è diplomato all’Accademia di Belle Arti di Brera. Nel 2006 ha esposto Villa Fiorita allo spazio Gheroartè di Corsico. Nel 2007 ha tenuto una mostra allo Spazo Oberdan di Castelseprio e nel 2009 la personale Skylight_Disegni alla Sala rossa della Galleria Ghiggini di Varese. Ad aprile 2010 si è conclusa Skylight_Disegni e Collages presso lo Studio Maffei di Milano.

Elena Monzo, EDEN PARTY

Stanza 8

L’origine di una festa. Tutto è confezionato, pronto al consumo. L’ambiente stesso diventa una scatola che ospita tre lavori principali: Self ControlPrincipessa sul piselloVenere & cloni UomoTigre. Le figure sono statiche, mute e statuarie, merce travestita, clonata e incorniciata. La stanza diventa soffice e dolce.
Elena Monzo

Elena Monzo è un’osservatrice che assorbe, filtra e restituisce le questioni dell’umano vivere in modo duro ma allo stesso tempo scanzonato; crea aborti di opposti armonici, che ammassa per avvicinarli all’esperienza reale, fatta di eventi tanto rapidi e strumentalizzati da poter essere ignorati senza creare alcun problema di coscienza. La giovane artista pare volutamente trasportare l’etica virtuale e televisiva sul supporto bidimensionale, sovrapponendo immagini che possono essere godute da lontano senza traduzioni, oppure decifrate e comprese al di là del loro decorativismo, generando inspiegabili rigonfiamenti di tutte le basi pilifere che mappano la nostra pelle. […] Se la caduta non fosse parte dell’umana esperienza, l’uomo sarebbe stato creato con base d’appoggio più solida. Quella di Elena Monzo è un’arte tragica e deliziosa, che restituisce con coscienza critica l’unico terribile quotidiano che ci sia stato dato in gestione.
Viviana Siviero

Elena Monzo è nata a Orzinuovi in provincia di Brescia nel 1981. Vive tra Brescia e Milano. Nel 2004 ha vinto il Premio Italian Factory per la giovane pittura italiana e nel 2007 ha partecipato alle mostre Yourlineneismakingmesowetrightnow.lloveit e Why can’t we all just get along? alla Sara Tecchia Gallery di New York. Nello stesso anno ha tenuto la prima mostra personale Inside presso la Galleria Bonelli Contemporary di Los Angeles e Dipendenze alla Galleria Traghetto di Roma. Nel 2008 ha realizzato la personale Nidi di Nodi di Bu alla Galleria Bonelli Arte Contemporanea di Mantova. Nel 2010 ha partecipato all’evento (Con)Temporary Art al Superstudiopiù di Via Tortona a Milano, presentando i suoi ultimi lavori in una stanza dal titolo Specchio specchio delle mie brame.

Gianni Dessì, TRE PER TE (A GIOVANNI)

Stanza 9

Oggi il luogo dell’arte, la sua immagine, è qualcosa che bisogna strappare con i denti.
Gianni Dessì

Non c’è mai l’improvvisato, ma sempre un tempo di deposito dell’esperienza, una ricerca un po’ zen del luogo mentale più disponibile al formarsi e al permanere dell’immagine. […] Un mondo, il suo, sempre alla ricerca di un punto di equilibrio, di una messa a fuoco, da raggiungere a partire dal caos degli elementi, dalla dispersione dei segni: che è uno stato dell’essere dove gli argomenti individuali trovano perfetta concordanza con quelli di una generazione chiamata, storicamente, a ridare forma ai concetti e corpo alle forme.
Federico De Melis

Armin Linke, CHIESA DI VETRO

Stanza 10

Fotografate una cosa e poi fotografatela nuovamente facendo qualche passo indietro, così potrete scoprire se il suo contesto può farci capire qualcosa in più di quella cosa.
Armin Linke

Nelle sue perlustrazioni globali Armin Linke è stato calamitato dall’architettura di luce della Chiesa di vetro di Baranzate. La parrocchia di Nostra Signora della Misericordia venne progettata da Angelo Mangiarotti e da Bruno Morassutti nel 1957, ma grande importanza ebbero i calcoli strutturali di Bruno Favini che permisero di realizzare una struttura completamente libera nel suo perimetro. Un capannone industriale virato a edificio sacro. La chiesa fece allora l’effetto di un satellite uscito da un film di fantascienza ad anticipare i tempi. La chiesa faceva cadere le cesure rispetto al mondo. La fatica del tempo segna quelle strutture fatte solo di luce e bisognose di restauri. La vita concreta le ha ormai felicemente metabolizzate. Linke coglie questa transizione avvenuta. Un senso di attesa pacificata pervade le immagini, come se il tempo invece di consumarlo desse sempre più corpo a questo spazio.
Giuseppe Frangi

Armin Linke è nato nel 1966 a Milano, vive e lavora a Berlino.

Alessandro Verdi, CAREZZE

Stanza 11

Il rosa è un colore che mi appartiene da sempre. È il colore della tenerezza che si contrappone ai colori della brutalità. Il mio lavoro si muove sempre tra questi due poli: la delicatezza e la violenza. Ma mentre la violenza l’ho sentita subito come una mia cifra espressiva, la delicatezza è invece affiorata con la maturità. Anche da giovane avvertivo che il rosa era un colore che mi apparteneva profondamente, ma in quegli anni quando mi capitava di usarlo alla fine distruggevo sempre i lavori, perché sentivo di non essere ancora pronto. Non mi sembrava di avere la sufficiente lucidità per usarlo. Oggi invece lo sento come un modo compiuto di lavorare sul corpo.
Alessandro Verdi

I suoi lavori squarciano il velo sul palpito della vita e sugli abissi della disperazione, fanno affiorare le tracce di una memoria lontanissima, archetipica e trasversale alle generazioni, registrano i sussulti della carne il suo fiorire, il suo degenerare, ascoltano il mormorio del ciclo della natura e partecipano al potente spettacolo dell’universo, tra la perdita del Paradiso e il riconoscimento dell’umano.
Gianluca Ranzi

Alessandro Verdi è nato nel 1960 a Bergamo dove vive e lavora. È stato scoperto da Giovanni Testori che ha curato il catalogo della sua prima mostra personale nel 1987 alla Galleria Compagnia del Disegno di Milano, dov’è tornato a esporre nel 1999 e nel 2005. Ha esposto nel 1993 alla Galleria Bellinzona di Milano, nel 1998 alla Galerie der KVD di Dachau e alla Casa dei Carraresi di Treviso, nel 2000 all’Art’s Events Centro d’Arte Contemporanea di Torrecuso, nel 2001 alla Fondazione Mudina di Milano, nel 2003 a Villa Pomini di Castellana, nel 2004 all’Officina arte di Magliaro, nel 2005 e nel 2007 alla Mudimadrie Galerie Gianluca Ranzi di Anversa. Nel 2008 sono state realizzate le mostre Alessandro Verdi. Il Paradiso Perduto alla Galleria dell’Artistico di Treviso e Alessandro Verdi. Corpo senza Corpo alla Galleria Blu di Milano che attualmente lo rappresenta. Nel 2009 ha partecipato alla 53a edizione della Biennale di Venezia con la mostra Alessandro Verdi: navigare l’incertezza che si è tenuta presso Campo della Tana.

Arianna Scommegna, …ÀS

Stanza 16

Per una nata e cresciuta a Milano come me, Testori è quello che ho assaporato fin da bambina. Il suo è un meraviglioso dialetto, un brianzolo misto a latino, francesismi, onomatopee, una lingua che è corpo, terra, profumi. Tridimensionale, non piatta come l’italiano della dizione perfetta.
Arianna Scommegna

Sconvolgente dichiarazione d’amore, di morte e di vita “Cleopatras”, è uno dei “Tre Lai” i lamenti per l’amato ucciso, scritti da Giovanni Testori negli ultimi mesi di vita. È il pianto della regina d’Egitto, qui con la lombarda desinenza «as» segno dialettale di enormità, disprezzo ed equivalente al nome in dialetto di Asso in quella Brianza cara all’autore, per il suo «Gran Tugnàs», Antonio. Una donna che si esprime in quella lingua testoriana più che mai estrema, artificiale, nata da più lingue, vive e morte, da dialetti, da varianti fonetiche, impervia, oscura ma paradossalmente «naturale» e «chiara» nell’evocare la violenza delle passioni. Guidata dalla regia attenta di Gigi Dall’Aglio la bravissima Arianna Scommegna ben riesce a dare voce a questa lingua materica e alle emozioni che la pervadono, a renderla carne e sangue, e sul suo bianco costume con colori blu, verde, rosso disegnerà il luogo geografico in cui Testori la fa vivere.
Magda Poli

Arianna Scommegna è nata nel 1973 a Milano, dove vive e lavora. Si è diplomata alla Civica Scuola Arte Drammatica “Paolo Grassi” nel 1996 e nello stesso anno ha fondato, con un gruppo di compagni di accademia, l’Associazione teatrale indipendente A.T.I.R. con la quale realizza la sua attività teatrale organizzando spettacoli, laboratori, festival. Il nucleo stabile e continuativo dell’Associazione è composto da quattordici persone tra attori, regista, scenografa, costumista, organizzatrice e staff tecnico. La direzione artistica è di Serena Sinigaglia. L’associazione gestisce dal 2007 il teatro Ringhiera, uno spazio nella periferia Sud di Milano, al Gratosoglio. Tra le tante produzioni che l’hanno vista coinvolta, spiccano i tre monologhi interpretati nell’ultima stagione: Qui città di M di Piero Colaprico, La Molli (divertimento alle spalle di Joyce) e Cleopatràs di Giovanni Testori. Il 5 giugno 2010 l’Associazione Nazionale dei critici di teatro le ha assegnato il Premio Critica.

Mario Dellavedova, QUASI PURO ESERCIZIO FORMALE

Stanza 19

Per Giorni Felici si è scelto di entrare subito nei dettagli: tele che si richiamano a motivi tradizionali del sud ovest messicano tinte naturalmente e tessute su telai a mano… Che fanno da sfondo a scritte al neon (luminosità glacialmente calda)… Del genere aporie… Testi di canzoni… Frasi fatte poliglotte. Come “refined roughness” (rugosità raffinata). Una congiunzione o coniugazione tra regionale, locale, ancestrale e modernità globalizzata… Come “quasi-puro esercizio formale”.
Mario Dellavedova

Lo stile dell’artista non è facilmente identificabile, dal momento che questo è intenzionalmente “decostruito” a favore di plurime e costruttive chiavi di lettura. Le sue opere, che spaziano in diversi campi, giungono alla pittura, alla scultura, alle installazioni, ma anche ad altri mezzi, rifacendosi ad oggetti, materiali e linguaggi provenienti dalle culture passate e contemporanee. Questi elementi vengono scomposti e ricomposti azzerati e rielaborati in modo che acquistino un senso logico o una semplice e palese giustificazione a prima vista non così evidente, soprattutto se accomunati tra loro e non accumulati. La parola scritta, spesso utilizzata dall’artista, è tolta dal suo ambito culturale per essere formalizzata attraverso oggetti improbabili ma che allo stesso tempo ne caratterizzano lo stato, proponendo allo spettatore una riflessione sul ruolo dell’artista e sul linguaggio dell’arte eludendone i privilegi. Il gioco di parole, la metafora, l’ironia sottile riportano ad un ambito concettuale che di proposito contrasta con l’aspetto a volte artigianale dei manufatti prodotti o utilizzati e con la semplicità del metterli assieme.
Carlotta Testori

Mario Dellavedova è nato a Legnano nel 1958. Si è laureato in architettura e ora vive tra Taxco in Messico e Villastanza, in provincia di Milano. Le sue opere sono state esposte in molti musei e gallerie in Italia e all’estero: in Giappone, Stati Uniti, Cina, Messico Germania, Austria e Spagna. Ha tenuto la sua prima mostra personale nel 1984 alla Rocca d’Angera. Nel 1987 ha esposto allo studio Corrado Levi di Milano e alla Guido Carbone Gallery di Torino, nel 1987 a Le Case d’Arte Gallery di Cologne e nel 1990 a Le Case d’Arte di Milano, nel 1991 alla Galleria in Arco di Torino, nel 1992 e nel 1995 alla Sperone Gallery di Roma e nel 1993 nella sede newyorkese della stessa galleria. Nel 1996 ha tenuto una mostra alla Stadtpark Gallery di Krems, nel 1997 alla Galleria 1000eventi di Milano e nel 2000 la Galleria Mazzoli di Modena ha ospitato due sue personali. Nello stesso anno ha tenuto una personale al Museo de las Artes di Guadalajara in Messico, nel 2003 si è svolta la mostra And all that remains is founded by poets alla Sperone – Westwater Gallery di New York e nel 2004 Domestic lights, domestic flights, domestic delights alla Galleria Sprovieri di Londra. Nel 2009 alcuni dei suoi ultimi lavori sono stati presentati alla Galleria Mazzoli di Modena in occasione della mostra ABCD…Benvenuto, Chucchi, Dellavedova.

Youssef Nabil, INCANTESIMI

Stanza 14

A me i vecchi film egiziani piacciono perché mi ricordano com’era l’Egitto allora e mi fanno riflettere su ciò che è diventato oggi. E mi diverto a leggere i titoli di coda tanto quanto a vedere il film! Da quelli si capisce che mescolanza di nazionalità e religioni esisteva in Egitto. Sono la dimostrazione della ricchezza culturale del paese in quell’epoca, la gente si amava di più. Si leggeva il nome di un musulmano accanto a quello di un ebreo, un greco accanto a un armeno. La nostra società era molto ricca e più tollerante.
Youssef Nabil

La sua base di partenza è un territorio di grande storia, una storia perduta di cui restano tracce grandiose, quella degli antichi Egizi, e una storia, quella islamica, che sollecita un modello differente da quello, ormai vincente, dell’Occidente: un contesto alla fine marginale rispetto al Grande Mondo, ma centrale nel proprio ambito geo politico, cosmopolita nella propria molteplicità razziale religiosa e culturale, ombreggiata da nuance orientalistiche quanto mai seducenti. La fascinazione del cinema, come quella delle grandi mitologie del nostro tempo, lo stardom, il glamour, come la credenza nel potere perpetuante dell’immagine, producono nella sua arte quel senso di nostalgia per quel tipo di mondo e di esistenza che sembra vertiginosamente allontanarsi nello spazio e nel tempo, fino al punto di apparire di non essere mai stato e di non poter essere. L’esperienza si converte nella sua arte in vagheggiamento desiderante, in sogno arabescato, in memoria destinata a sbiadirsi nel tempo. Proprio la memoria appare allora come tratto fondamentale di tutto il suo lavoro, una memoria che sembra funzionare come quei vetri colorati che filtrano la luce dalle finestre o dalle lampade nelle moschee e tinteggiano i loro interni di un’irrealtà fantasmagorica.
Pier Luigi Tazzi

Youssef Nabil è nato al Cairo nel 1972, da padre cristiano greco-libanese e madre di famiglia musulmana. Da cristiano si è convertito all’Islam all’età di trent’anni. Ha studiato Letteratura Francese alla Ain Shams University, ma la grande passione per il cinema lo ha spinto giovanissimo alla fotografia. Tra il 1993 e il 1994 ha lavorato con David La Chapelle a New York e tra il 1997 e il 1998 con Mario Testino a Parigi. Nel 2003 ha lasciato il Cairo per Parigi e attualmente vive e lavora a New York. Le sue opere sono state esposte in molti musei e gallerie: tra le sedi più note vanno ricordati il British Museum di Londra, il Centro de la Imagen di Città  del Messico, il North Carolina Museum of Art, il Baltic Centre for Contemporary Art di Newcastle, la Galleria Leme di San Paolo del Brasile, la FotoFest di Houston in Texas, il Centre de Cultura Contemporanea di Barcellona, l’Istitut du Monde Arabe di Parigi, il Kunstmuseum di Bonn, il Centro Andaluz de Arte Contemporaneo di Siviglia, l’Aperture Foundation di New York e la 53a Biennale di Venezia. Ha tenuto tre mostre personali al Cairo nel 1999, 2001 e 2005. Nel 2005 e 2007 ha realizzato due mostre alla Third Line Gallery di Dubai. Nel 2007 e nel 2008 ha esposto alla Michael Stevenson Gallery di Cape Town in Sud Africa. Nel 2009 ha realizzato cinque mostre personali: a Roma a Villa Medici, a Firenze alla Galleria Poggiali e Forconi, a Berlino presso la Volker Diehl Gallery, a Dubai alla The Third Line Gallery e ad Atlanta al Savannah College of Art and Design.

Rossella Roli, VALIGIE

Stanza 20

“Lo slancio del gesto di partire, l’audacia avventurosa delle spedizioni in terra remota, ingannano circa le loro motivazioni. Non di rado si tratta semplicemente di evitare quanto ci sta dappresso, perché non siamo all’altezza di affrontarlo. Ne avvertiamo la pericolosità e preferiamo avere a che fare con altri pericoli di ignota entità”. Mi piace iniziare con queste parole di Elias Canetti, perché davvero lo spirito umano si rivolge spesso verso le cose lontane e trascura tutto ciò “contro cui va continuamente a sbattere”. Lo spirito che “sbatte” contro le cose vicine, che si affanna per schivarle avventurandosi verso altri luoghi, credendo così di metterle a tacere, mi ha accompagnato per molti anni. Lo spirito che si allontana è un salvataggio, almeno ho creduto che lo fosse. Tutte le volte in posti lontani (non solo fisici), ho sempre avvertito un malessere, un sintomo, come a dirmi “questo non è il tuo posto, torna a casa”. La casa fisica e la casa “dentro”. La casa fisica è facile, la casa “dentro” è da ricostruire, smantellare fin sotto le fondamenta e ricomporre, mi ci sono voluti vent’anni. Adesso posso raccontare qualcosa della mia storia, della mia memoria, costruire valigie e avventurarmi verso luoghi ignoti. Ospite per diciotto giorni, in una stanza al primo piano nella casa in cui Giovanni Testori amava ritornare dopo le “puntate verso l’esterno”, mi piace ricordare le sue parole: “Però, io ti assicuro che quello che mi ha sempre aiutato a vivere e, di più, ad accettare la vita anche nella sua maledizione, è sempre stato il ritorno a casa”.
Rossella Roli

Non c’è spazio per i souvenir: il bagaglio è un kit di sopravvivenza, raccoglie dentro sé il necessaire fantastico per un viaggio reale. Valigie che sono altrettanti ponti verso mondi possibili, posti appena un passo a lato del nostro quotidiano; risplendono di simboli, cariche di richiami organici, cuori e cordoni ombelicali rosso porpora o carminio, sono il sangue venoso colmo di impurità o quello che sgorga come sorgente chiara dalle arterie, segnate da blu femminei, sorrette da trasparenze aeree vetrose, affermando un hic et nunc che brucia qualsiasi tentazione di spiritualità. Sono un’affermazione eppure un dialogo aperto: enti attivi, pensati nello svolgersi del tempo, immaginati come compagni di viaggio, da toccare, aprire, usare, rompere, manipolare e reinventare. Si tratta di sopravvivenze: l’opera di Rossella Roli, impudica, dismette ogni vanità e intraprende un’ascesa verso la vetta della montagna, verso altri spazi temporali, negli inferi della memoria. Non ci sono oggetti, infatti, slegati dall’azione del ricordare, essi sono naturalmente connotati come macchine del tempo. Materni nel loro proteggerci dall’horror vacui, sono presenze in prima istanza rassicuranti, capaci di ancorarci al reale, talvolta taumaturgiche. Scavalcando l’idea che l’opera d’arte – in particolare quella che ha a che fare con la scultura – necessiti di un luogo fisico determinato con cui discorrere e infrangendo la regola aurea che la vuole sacra, intoccabile, elemento ieratico quando avvolto in fumi metafisici, o semplicemente cinico, quando più connotato di allure contemporanea, l’assemblaggio di Rossella Roli invece è audace nel rinunciare ad uno status prestabilito, non ha paura di essere dipendente dal fruitore, di farsi cosa d’uso quotidiano.
Silvia Bottani

Rossella Roli è nata a Modena nel 1967. Si è diplomata all’Accademia di Belle Arti di Brera con specializzazione in Arti Visive. Attualmente vive e lavora a Milano. Si occupa di progettazione grafica dal 1989. Nel 2001 ha frequentato il master di web design presso la Domus Academy di Milano. Dopo aver partecipato ad alcune mostre collettive, nel 2009 ha tenuto due mostre personali a Milano: Porzione di mare che sale e di cielo che sale che sale che sale alla Galleria Blanchaert e Survivals alla Galleria Obraz.

Andrea Mastrovito, SETTE GIORNI

Stanza 21

L’opera che presenterò a Giorni Felici è un immediato rimando al titolo della mostra. Entrando in casa, ho avvertito una sensazione familiare. “Familiare” sia nell’accezione freudiana di opposto e, al contempo, sinonimo di “perturbante” (heimlich, ovvero “familiare” in tedesco, ha un secondo significato più letterale ovvero “tenuto in casa, nascosto”), sia nel suo significato più comune, di qualcosa vi già conosciuto, vissuto, come di un passato, recente e magari, appunto, sereno, “felice”. Il contrasto fra queste due sensazioni, simili ed opposte, mi ha condotto a concepire questo lavoro, Sette Giorni. “Sette Giorni” sono una settimana, l’emblema del ciclo della vita e della natura che inizia e finisce e ricomincia ininterrottamente, nascendo dalle proprie ceneri ogni volta. “Sette Giorni” è anche la frase che Samara Morgan, nel The Ring di Gore Verbinski, pronuncia sussurrando al telefono preannunciando la fine per sua mano. Anche lì si tratta di ciclo, di “anello”, appunto. E così ecco nascere questi sette collage neri. Quadri neri che fasciano la stanza portando ognuno il nome di uno dei giorni della settimana e dove i ricordi, i volti sereni del passato e del presente, scavati nel bianco della carta sottostante, si lasciano avvolgere e carezzare dal nero del futuro e dell’oblio.
Andrea Mastrovito

Una ricerca rivolta alla meraviglia, in realtà un’antenna inquieta sul mondo e il nostro bagaglio culturale, diluita secondo modalità e materiali fragili votati allo stupore percettivo. Sensibilità verso il contingente, il dato cartaceo e la luce quali strumenti ineffabili per evidenziare una pratica sempre concettuale: l’apposizione di lacerti colorati, la perizia certosina di assemblare frammenti che si svelano parti di un tutto nel piano compositivo d’insieme, in cui ogni dettaglio ricostruisce deontologicamente e fisicamente una nuova realtà, immaginifica ma non per questo meno vera. L’artista varca la soglia del dato bidimensionale, servendosene. L’esito è pittorico ma per suggestione e non certo per l’impiego di tela e pennello: vi è interesse alla parte procedurale, all’attivazione di una forma e alla costruzione della stessa secondo una logica semplice ma non facile, infantile nel rimando gioioso e bricoleur. L’Homo Ludens quale possibile risposta propedeutica alle nostre fratture esistenziali? Una prospettiva a volo d’uccello quella di Mastrovito, in moto perpetuo fra estrema perizia artigianale e l’attualizzazione di problematiche urgenti, sempre condotta secondo modalità lievi. Come afferma Derrida, filosofo prossimo alle istanze fin qui osservate, “Resta ancora da intaccare uno spazio che possa dar luogo alla verità in pittura. Né interno né esterno, questo spazio si allarga senza lasciarsi mai incorniciare, ma non sta mai fuori-quadro. […] Il tratto vi si attrae e si ritrae da sé, vi si attrae e vi fa a meno, da se stesso. Si situa.”
Andrea Bruciati

Andrea Mastrovito è nato a Bergamo nel 1978. Ora vive tra Bergamo e New York. Ha esposto la prima volta nel 2003 al The Flath di Milano. Ha tenuto tre mostre personali presso la Analix Forever di Ginevra nel 2005, nel 2007 e nel 2009. Nel 2006 e nel 2008 ha esposto alla Galleria 1000eventi e Antonio Colombo Arte Contemporanea di Milano, nel 2007 al Palais des Exposition di Bruxelles, nel 2008 alla Jerome Ladiray Gallery di Roue, al Dior Centre di Parigi e all’Italian Academy della Columbia University. La Foley Gallery di New York ha ospitato nel 2008 Black Bag – American Philosophy of Composition e nel 2009 Love is a four-letter word. Nello stesso anno ha tenuto le mostre Enciclopedia dei fiori da giardino all’ Assab One – Ex GEA di Milano, La Bonne Nouvelle al Centre d’Art Contemporain di Lacoux, e Climat Poetique all’Hotel de Ville di Ginevra. Ha partecipato alla II Biennale di Praga nel 2005 e alla 15a Quadriennale di Roma nel 2008. Nel 2005 ha esposto nella mostra Beauty is not difficult presso la Fondazione Stelline di Milano e trasferita poi a Berlino. Nel 2009 si è tenuta Italian Artists New York all’Istituto Italiano di Cultura di New York e, nello stesso spazio, ha realizzato nel 2010 l’istallazione Velocità  d’automobile + fiori. Il 5 giugno 2010 ha allestito The Island of Dr. Mastrovito in una stanza del Governor’s Island di New York.

Privacy Policy Cookie Policy