Mostre Passate

MICHELANGELO ALLA CRIPTA SAN SEPOLCRO

Un progetto di MilanoCard e Casa Testori
A cura di Giuseppe Frangi
Cripta San Sepolcro, Milano
11 Maggio – 15 Settembre 2018

Dopo il grande successo riscosso dalla mostra di Bill Viola, è toccato a Michelangelo Antonioni (1912-2007), uno dei maggiori registi della storia del cinema, essere protagonista di uno straordinario appuntamento espositivo nella Cripta del Santo Sepolcro a Milano
Dall’11 maggio al 15 settembre 2018, gli ambienti di un luogo tra i più ricchi di spiritualità e più visitati della città che dalla sua riapertura ha visto transitare, in poco meno di due anni, oltre 70.000 persone, hanno accolto Lo sguardo di Michelangelo, un cortometraggio di 15 minuti prodotto da Istituto Luce e Lottomatica. Il film, realizzato dal regista ferrarese nel 2004, tre anni prima della sua scomparsa, può essere considerato una sorta di suo testamento spirituale. 

L’iniziativa, curata da Giuseppe Frangi, prodotta da MilanoCard e Casa Testori, promossa dalla Veneranda Biblioteca Ambrosiana, col patrocinio dell’Associazione Michelangelo Antonioni e la sponsorizzazione di Analysis, racconta la straordinaria esperienza dell’incontro tra il regista e il Mosè di Michelangelo Buonarroti conservato nella basilica di San Pietro in Vincoli a Roma. 
Lo sguardo di cui si parla nel titolo è quello del regista, che entra camminando nella penombra della chiesa, si arresta e rimane immobile, quasi sopraffatto, di fronte al capolavoro del Buonarroti, scrutandone i particolari e soffermandosi sull’espressione del profeta. 
Il Mosè è un marmo che “parla”, capace di trasmettere all’osservatore tutta la bellezza che l’artista gli ha regalato. In questa sua visita, Antonioni entra in completa simbiosi con la scultura, muovendo delicatamente il braccio fino a sfiorarla con la mano per coglierne lo spirito. 
L’uscita del regista dalla porta della chiesa, accompagnato da un misterioso coro di Pierluigi da Palestrina, fa ritornare l’autore del documentario verso la luce del sole che penetra dall’esterno. 
Una straordinaria esperienza che ha fatto sentire il visitatore protagonista, trovandosi a contatto con un’opera millenaria qual è la Cripta, nel totale silenzio da cui scaturisce il confronto tra la caducità umana e l’eternità dell’arte.

Il percorso espositivo era arricchito da alcuni ritratti fotografici del Mosé realizzati da Aurelio Amendola, in dialogo con l’opera di Antonioni. 

(IN)CROCI AL MUSEO LIA

La passione di Cristo secondo Giovanni Testori
A cura di Davide Dall’Ombra e Andrea Marmori
In collaborazione con Associazione Giovanni Testori
Museo Civico “Amedeo Lia”, La Spezia
25 Marzo – 27 Maggio 2018

UN OSPITE INATTESO
Giuseppe Frangi

Giovanni Testori (1923-1993) avrebbe amato perdutamente il Museo Lia. E non solo perché tra queste mura sono conservate opere di alcuni degli autori che, come critico d’arte, ha più amato: da Vincenzo Foppa a Giacomo Ceruti.
L’avrebbe amato perché questo museo racconta la storia di uno dei grandi collezionisti europei del secolo scorso, restituendocene la fisionomia. Lo scrittore gli avrebbe certamente dedicato parole infuocate sulle pagine del “Corriere della Sera”, di cui curò per quasi vent’anni la pagina dedicata all’arte.
Del resto, Testori fu anche un vorace, irrequieto e dilapidate collezionista: di quadri visse e non si contano le opere d’arte antica e moderna che passarono dalle sue mani. Non sorprende rivederne alcune tra queste sale spezzine, ove approdarono magari attraverso il gallerista Bruno Lorenzelli o il critico Federico Zeri.
Ma Giovanni Testori è stato uno degli intellettuali più versatili e importanti del Novecento italiano e il suo amore incondizionato per la pittura lo portò a cimentarsi personalmente nella creazione artistica, divenendo pittore dagli esiti significativi e in corso di riscoperta, negli ultimi anni.
In questa mostra a 25 anni dalla morte, si è scelto di indagare un tema centrale della sua produzione: la Crocee la Crocifissione, due soggetti tra i più diffusi nella storia dell’arte Occidentale, con numerose occorrenze nel Museo Lia, e indagato da Testori lungo tutta la vita: come drammaturgo, poeta e, appunto, pittore.
Il visitatore troverà due cicli di dipinti e disegni, realizzati negli anni Quaranta e negli anni Ottanta, a oltre trent’anni uno dall’altro, qui presentati integralmente e insieme per la prima volta, per dar vita a un inedito dialogo con le Croci del Museo: da Lippo di Benivient, all’oreficeria medioevale di Limoges.

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LA MOSTRA

Realizzata per il venticinquesimo anniversario della scomparsa di Giovanni Testori, la mostra “(In)Croci al Museo Lia” ha proposto un interessante dialogo tra le opere del critico-pittore e la collezione permanente del museo.
Un ciclo di Crocifissioni di Testori, realizzato negli anni 80, ha affiancato con le antiche Crocifissioni dipinte e i prodotti di oreficeria della collezione Amedeo Lia di La Spezia
Amedeo Lia è stato uno dei maggiori collezionisti della pittura del Trecento italiano, grazie alle indicazioni e alla supervisione del critico Federico Zeri. Queste preziose tavole sono chiamate a un inatteso confronto con l’approccio tutto novecentesco di Testori. La calma compositiva è stata interrogata dal segno sconvolto e inquieto dei pastelli testoriano.

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IL PASSAGGIO DI ENEA

Un progetto di Casa Tesori
A cura di Davide Dall’Ombra, Luca Fiore, Giuseppe Frangi e Francesca Radaelli
Meeting di Rimini
20-26 Agosto 2017

Ingresso
Video Introduttivo
Madonna (2007) di Alberto Garutti
Madonna (2007) di Alberto Garutti
I Promessi Sposi cancellati per venticinque lettori e dieci appestati (2016) di Emilio Isgrò
I Promessi Sposi cancellati per venticinque lettori e dieci appestati (2016) di Emilio Isgrò
Arcipelago (2016-2017) di Giovanni Frangi
Arcipelago (2016-2017) di Giovanni Frangi
Via Crucis (2011) di Adrian Paci
Via Crucis (2011) di Adrian Paci
Qui Ora (2011) di Gianni Dessì
Lo sguardo di Michelangelo (2004) di Michelangelo Antonioni
Mutter und Tochter (2010) di Julia Krahn
November 8, 2001 (2001) di Wim Wenders
November 8, 2001 (2001) di Wim Wenders
Procession (2015) di Andrea Mastrovito
Procession (2015) di Andrea Mastrovito
The Last Supper (1986) di Andy Warhol
The Last Supper (1986) di Andy Warhol
The Last Supper (1986) di Andy Warhol
The Last Supper (1986) di Andy Warhol
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IL PASSAGGIO DI ENEA
Davide Dall’Ombra

[…]
Passati i titoli di coda del video introduttivo della mostra, il visitatore deve immediatamente fare i conti con la prima delle dieci opere proposte, direttamente connessa al tema indagato e capace di attingere alla metafora virgiliana. È il dittico del 2010 di Julia Krahn, Mutter und Tochter (Madre e figlia), in cui l’artista si ritrae con la madre in due immagini che si completano in un pendant struggente. La Krahn usa da diversi anni la fotografia come un metodo di conoscenza di sé e dei più stretti rapporti famigliari. Quello che mostrano queste due foto è l’inizio di questo processo, e il primo passo – dopo alcuni lavori su di sé, sul proprio io e sul proprio desiderio di maternità – non poteva che concentrarsi sulla propria madre. Questo dittico è un percorso di conoscenza ma anche di accettazione, frutto di un travaglio, di una lotta affettiva ingaggiata con la madre, accolta come il proprio Anchise sulle spalle, nel primo scatto, e in un abbraccio pacificatorio, nel secondo. L’artista si gioca il tutto per tutto e chiede all’affetto principe e primigenio della sua vita di fare altrettanto. La nudità totale è l’espressione necessaria dell’accettazione di questa sfida. Quello che vediamo non è il frutto di un processo meditato a tavolino, ma di una conquista avvenuta proprio durante la posa. La fusione tra arte e vita è totale e l’arte diventa luogo in cui accogliere un processo naturale di accettazione del proprio essere figlia e della mortalità della propria madre. L’esecuzione dell’opera d’arte in sé, il suo processo tecnico – fatto di posa, autoscatto, cambio di pellicola, riposizionamento, fatica fisica, impazienza, imbarazzo… – produce due immagini inattese e perfette nella loro complementarietà, destinate a diventare il certificato di un punto di svolta d’ora in poi imprescindibile per il loro rapporto. È un’opera iconica e pienamente riuscita di quel processo di vaglio, rifiuto e conquista dei propri padri. E il fatto che a interpretare la metafora virgiliana sia una donna con la propria madre non è una semplice sostituzione di genere, ma un segno importante di come l’arte contemporanea registri il mutare dei tempi e la ritrovata centralità della figura femminile. Non è un caso che per proseguire la mostra occorra passare in mezzo a queste due immagini, due colonne d’Ercole necessarie che ci buttano a precipizio fuor di metafora e dentro la vita, alzando non poco il grado di aspettativa con cui approcciarsi alle altre opere presentate. 
Si tratta di nove “casi” in qualche modo esemplificativi, scelti tra i tanti possibili anche grazie alle proposte sempre pertinenti di Francesca Radaelli, senza nessuna pretesa di codificare categorie d’appartenenza o sintetizzare la varietà degli approcci riscontrabili. L’intento è stato quello di lasciare che fosse l’opera d’arte, non solo a raccontare uno dei modi possibili di rapportarsi con i propri padri, ma a mostrare il dramma, l’ampiezza e ricchezza inesauribile di questo rapporto, innanzitutto per sé. 
Ma i sette artisti viventi, ognuno presentato nel proprio spazio pensato a misura, vengono in qualche modo introdotti da due maestri del ’900: Andy Warhol e Michelangelo Antonioni, presenti grazie a una delle numerose intuizioni di Giuseppe Frangi che hanno segnato i passi di questa mostra. Due giganti di oggi impegnati in una coppia di omaggi a due giganti del passato: Leonardo e Michelangelo. 

La prima opera è The Last Supper, un dipinto in acrilico su serigrafia riportata su tela del 1986 che testimonia l’ultimo ciclo del protagonista della Pop Art americana, che sarebbe scomparso l’anno seguente. Si tratta di un grande numero di opere di differente dimensione e tipologia, interamente dedicate all’Ultima cena leonardesca, nate per la mostra milanese allestita nei mesi successivi alla Galleria del Credito Valtellinese, nel Palazzo delle Stelline, a pochi passi dal Cenacolo. Rischia di essere il più complesso e articolato ciclo religioso mai realizzato da un artista americano, a testimonianza di una consapevolezza dell’iconicità dell’immagine leonardesca, tratta da una riproduzione comprata in un negozio coreano non distante dalla Factory, ma anche di una fede dell’artista tanto nascosta quanto reale, legata anche all’amore per la propria madre. Il grande dipinto nel refettorio di Santa Maria delle Grazie è qui citato letteralmente e usato come matrice della propria opera, rivisitata con la ripetizione e il colore fluo tipici del linguaggio di Andy Warhol. È un lavoro in sé rappresentativo di un modo di rapportarsi ai propri maestri, che punta a cogliere l’iconicità del modello da riprodurre, ossessivamente, nelle sue varianti per numero e colore. Un elogio della superficie, che Warhol intuisce essere il vero campo d’azione per l’artista moderno alla ricerca della profondità. Non c’è nulla d’irriverente, insomma, semmai un desiderio: «Pensi che gli italiani vedranno il rispetto che ho per Leonardo?», confidò Warhol all’amico Pierre Restany. 

Quella che il grande Michelangelo Antonioni dedica alla Tomba di Giulio II a San Pietro in Vincoli, e al celebre Mosè di Michelangelo posto al centro del complesso, è un’opera sul silenzio. Il cortometraggio Lo sguardo di Michelangelo è considerato il testamento del regista. Realizzato nel 2004, tre anni prima della sua scomparsa, è l’unica opera in cui Antonioni compare come attore e lo fa occupando tutta la scena. Il regista si fa filmare mentre entra nella chiesa deserta, si avvicina trascinando i propri passi verso la scultura michelangiolesca, lentamente si approssima, osserva in profondità la scultura, fino a cedere a un contatto diretto, accarezzandola. Un percorso semplice, intenso e commovente, reso struggente dalla manifesta fatica del protagonista, segnato dall’età e, soprattutto, dall’ictus che lo aveva colpito quasi vent’anni prima, rendendogli difficoltoso camminare e parlare. Ma il silenzio non è qui il segno di una sconfitta obbligata dalle ingiurie del tempo, quanto, piuttosto, il vero protagonista, lo strumento con cui rendere il proprio omaggio a Michelangelo, che, tradizione vuole, quel silenzio tra arte e vita aveva vissuto per primo in tutta la sua drammaticità, arrivando a colpire la statua terminata, proprio pronunciando la frase «Perché non parli?!». Antonioni attinge all’esasperazione di Michelangelo per una bellezza perfetta che non si traduceva in vita, in possibilità di parola, e crea quel silenzio, ottenendolo con una ricerca tecnica complessa, necessaria per annullare i rumori della città e mantenere solo quelli pertinenti e significanti, come quelli prodotti dai passi lungo la navata o dalla fede nuziale sulla superficie marmorea. È così che lo sguardo di Michelangelo ne diventa il suono. 

La ripetizione compulsiva che sprigiona energia, di Warhol, e la carezza di un silenzio pieno, di Antonioni. Due modi opposti segnano il diapason possibile dell’espressione di un amore riguadagnato verso i propri padri, e forniscono al visitatore il viatico per questo nuovo viaggio nell’arte contemporanea. 

Leggi per intero

OPERE IN MOSTRA

Al Meeting di Rimini del 2017 sono state esposte: I Promessi Sposi cancellati per venticinque lettori e dieci appestati (2016) di Emilio IsgròMadonna (2007) di Alberto GaruttiArcipelago (2016-2017) di Giovanni FrangiVia Crucis (2011) di Adrian PaciNew York, November 8, 2001 (2001) di Wim WendersProcession (2015) di Andrea MastrovitoQui Ora (2011) di Gianni DessìMutter und Tochter (2010) di Julia KrahnLo sguardo di Michelangelo (2004) di Michelangelo AntonioniThe Last Supper (1986) di Andy Warhol.

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FOTOGRAFARE GAUDENZIO

Sofia Bersanelli, Giulia Riva ed Elisabetta Polelli
Un progetto di Angelo Barone
Casa Testori

Tre giovani artiste, Sofia BersanelliGiulia Riva ed Elisabetta Polelli, hanno lavorato con la macchina fotografica attorno alle sculture del Sacro Monte esposte a Casa Testori (Arriva il gran teatro montano, Casa Testori, 9 Aprile – 8 Maggio 2016).
Sono state guidate da Angelo Barone, a sua volta artista, fotografo e docente. La sfida era quella di capire in che modo artisti delle nuove generazioni intercettano e rivisitano le forme del nostro passato; quale dialogo si crea tra loro e un monumento affascinante, ma a volte percepito “lontano”, come il Sacro Monte di Varallo. Le tre giovani artiste hanno interpretato con molta libertà e creatività quei capolavori, realizzando ciascuna dei sorprendenti percorsi per immagini.

I prodotti di questo laboratorio sono stati esposti a Casa Testori. In occasione della presentazione, Angelo Baronee le artiste hanno dialogato la direttrice dell’Ente Sacri Monti Elena De Filippis.

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ARRIVA IL GRAN TEATRO MONTANO

Castello Sforzesco, 16 Marzo – 3 Aprile 2016
Casa Testori, 9 Aprile – 8 Maggio 2016
MVSA, Museo Valtellinese di Storia e Arte, 14 Maggio – 6 Giugno 2016

LA MOSTRA

C’è qualcosa di straordinario in questa “trasferta” di due tra le più celebri sculture del Sacro Monte di VaralloCasa Testori. L’aspetto inedito stava proprio nel vedere per una volta un pezzo di Sacro Monte fuori dal suo naturale contesto. Vederlo da vicino, potervi girare attorno, studiarlo.
Per i visitatori è stata un’esperienza destinata a sollecitare sguardi inediti, cortocircuiti imprevisti, davanti a questi corpi così audacemente agli antipodi l’uno dall’altro.
In seguito al restauro condotto dalla Bottega Gritti, che ci ha restituito una sorprendente visione “autentica” delle due sculture, per gli studiosi si sono aperti invece nuovi problemi, e con i problemi nuove ipotesi su cui andare a far luce.
Certamente non si poteva preventivare opportunità migliore di questa per festeggiare i 50 anni dall’uscita di quel fondamentale libro di Giovanni Testori che aveva di fatto svelato all’attenzione di un pubblico vasto la grandezza di Gaudenzio Ferrari e il fascino del Sacro Monte di Varallo. Oggi quel libro è tornato in una nuova edizione, curata da Giovanni Agosti, e pubblicata dallo stesso editore di allora, Feltrinelli: ed è altro motivo per cui festeggiare. Il titolo del libro è diventato quasi il claim del Sacro Monte varallino: “Il gran teatro montano”.
Un libro straordinario, che Giovanni volle mettere nella bara del padre Edoardo, figura fondamentale per lo scrittore, a cui fu dedicata una mostra nella stanza “Testori” al primo piano, a 50 anni dalla scomparsa.
Un frammento del “gran teatro” ha lasciato il suo secolare palcoscenico, per conquistare, ne siamo sicuri, nuove platee. Dunque, Casa Testori ha ospitato il Gran teatro montano, con la scena, toccante e insieme impressionante, del Cristo della Passione trascinato da un Manigoldo. Due corpi veri, reali, in dialettica tra loro. Una scultura che ha nei suoi geni l’espansione verso l’azione scenica. Un frammento di teatro molto contagioso, che ha spinto tanti visitatori ad andare a scoprire, o a riscoprire, Varallo, ovvero l’“ottava meraviglia del mondo”, com’è l’ha definito il premio oscar Toni Servillo.

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LE TAPPE

Castello Sforzesco
16 Marzo – 3 Aprile 2016

Al centro della sala XVII del Museo Civico milanese, dedicate alla scultura, l’esposizione delle due statue ha permesso una visione a tutto tondo eccezionale, grazie a un confronto puntuale con alcune statue lì conservate, capaci di mettere in evidenza affinità e differenze con la scultura gaudenziana del Sacro Monte: dalla testa attribuita a Gaudenzio Ferrari, alla Maddalena di Giovanni Angelo Del Maino, acquisita dal Comune di Milano e presentata per l’occasione.

Casa Testori
9 Aprile – 8 Maggio 2016

MVSA, Museo Valtellinese di Storia e Arte
14 Maggio – 6 Giugno 2016

EVENTI COLLATERALI

Presentazione del restauro delle due sculture
Castello Sforzesco, Sala Bertarelli
4 Aprile 2016

Presentazione al pubblico dei risultati degli interventi di restauro a cui sono state sottoposte le due statue, avvenuta alla presenza della direttrice dell’Ente Sacri Monti Elena De Filippis e dei restauratori Eugenio e Luciano Gritti. La presentazione è stata l’occasione per numerosi studiosi per vedere dal vivo le due sculture e intervenire nel dibattito attributivo sul Manigoldo, visibile nella cromia originale.

Presentazione della nuova edizione de “Il gran teatro montano”
Biblioteca Comunale di Villa Venino, Novate Milanese

16 Aprile 2016Presentazione della nuova edizione del libro curato da Giovanni Agosti, alla presenza dell’autore, del direttore di Casa Testori Davide Dall’Ombra, della direttrice dell’Ente Sacri Monti Elena De Filippis e del direttore editoriale di Feltrinelli Alberto Rollo.

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CROCIFISSIONE ‘49. I DISEGNI RITROVATI

Giovanni Testori
A cura di Davide Dall’Ombra
In collaborazione con Associazione Giovanni Testori
Mart – Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto
28 Marzo – 24 Maggio 2015

IL DIPINTO SALVATO
Giuseppe Frangi

Nel 1950 Giovanni Testori aveva 27 anni. Il suo profilo già allora era quello dell’intellettuale difficile da incasellare, per la molteplicità di ambiti che lo vedevano impegnato. Ma in quel 1950 uno di questi ambiti venne meno, ed era certo uno dei più amati: la pittura. 
Testori, ferito dall’incomprensione e dalla conseguente copertura degli affreschi realizzati nella chiesa di San Carlo al Corso a Milano, aveva deciso di metter fine alla sua esperienza di pittore. Con un gesto tipico del suo temperamento distrusse, infatti, le tele realizzate fino ad allora e rimaste nel suo studio di via Santa Marta. Si salvarono praticamente solo quelle che aveva venduto o regalato. E si salvò questa Crocifissione, che Testori ha sempre tenuto con sé fino alla fine. 
Che quella Crocifissione, rappresentata per simboli e datata 1949, costituisse qualcosa di molto importante per lui, era evidente. Ora il ritrovamento, da parte di Davide Dall’Ombra, di un’importante serie di disegni preparatori per quel quadro in una collezione romana, arriva a rafforzare quell’indizio. Grazie a questi disegni è possibile seguire lo sviluppo del pensiero e delle idee di Testori attorno a un’opera che è certamente la più importante e la più ambiziosa di questa sua stagione pittorica, segnata da un impego critico per il ritorno dell’arte contemporanea nelle chiese.
Testori da una parte si mostra pienamente allineato con le novità dell’arte figurativa di quegli anni, impegnata nella rielaborazione personale delle novità picassiane, ma dall’altra conferma la sua straordinaria originalità, staccandosi dai modelli e mettendo in atto una “messa in scena” di sorprendente originalità sia stilistica che iconografica. Un nucleo articolato e affascinante che richiedeva una contestualizzazione adeguata, capace di considerare il suo impegno critico con i compagni di strada “realisti” e le fonti medioevali che sottendono le scelte iconografiche messe in campo da Testori […].

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LA MOSTRA

Il Mart di Rovereto, uno dei più importanti e innovativi musei d’arte contemporanea d’Italia, ha ospitato “Crocifissione ’49. I disegni ritrovati”, una mostra che ha presentato al pubblico un Testori inaspettato. Un Testori prima de “I segreti di Milano”, prima di Luchino Visconti e di Robero Longhi: un giovanissimo Testori pittore.
Negli anni Quaranta, Giovanni Testori, prima ancora che come scrittore, era noto infatti come pittore, sodale con l’esperienza della scuola milanese uscita da “Corrente”, compagno di strada di Ennio Morlotti, Bruno Cassinari e Renato Guttuso. Anche i suoi interventi come critico militante erano dettati dalla necessità di trovare, innanzitutto per sé, una strada percorribile per il realismo italiano che, riconoscendo in Cèzanne il proprio padre, era disposto ad andare oltre la folgorazione picassiana.
A illuminare questi anni di sperimentazione, tra il 1948 e il 1949, ha concorso l’importante scoperta di 26 disegni, esposti in mostra, che mostrano il processo creativo testoriano sfociato negli affreschi di San Carlo e in una delle rare opere scampate alla distruzione: la Crocifissione firmata e datata 1949, il più importante dipinto di Giovanni Testori, che chiude questa fase della sua vita artistica, in seguito alla delusione per la scialbatura degli affreschi.
Unico caso nella produzione pittorica testoriana, questo gruppo di carte permette di seguirne passo passo il processo creativo, in un momento di grande ricerca formale e iconografica.

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TENER VIVO IL FUOCO, SORPRESA DELL’ARTE CONTEMPORANEA

Un progetto di Casa Testori
A cura di Davide Dall’Ombra, Luca Fiore, Giuseppe Frangi e Francesca Radaelli
Meeting di Rimini
20-26 Agosto 2015

UN SOLO TEMPO: IL PRESENTE
Giuseppe Frangi

Partiamo da un dato statistico: mai nella storia dell’uomo abbiamo avuto tanta produzione artistica come in questo nostro tempo. Mai ci sono stati altrettanti artisti, non solo come quantità assoluta (che sarebbe logico visto che siamo in sette miliardi sulla terra) ma anche come percentuale di persone che hanno scelto l’arte come propria strada. Perché c’è tanta voglia e tanto bisogno di arte? E come mai proprio in una stagione come la nostra, in cui la logica utilitaristica sembra sempre quella vincente? Sono domande per le quali vale la risposta che si diede Gio Ponti, raccontando un bellissimo aneddoto. Immaginava che Dio ricevesse alla fine dei tempi gli uomini ad uno ad uno, compiacendosi del proprio – suo di Dio – lavoro e di ciò che aveva creato. Quando dopo tutte le infinite professioni si presentò un artista, Dio restò interdetto. Perché, che gli uomini potessero essere artisti, era cosa che neanche lui aveva previsto. Ma invece che indispettirsi si compiacque ancor di più di quelle sue creature che avevano sorpreso il loro stesso creatore, facendo qualcosa che neanche Lui aveva messo in preventivo. Cosa suggerisce questo aneddoto? Che l’arte è l’attività che fa balzare l’uomo oltre se stesso, che è lo spazio dell’imprevisto, del non necessario, del gratuito. È il luogo in cui il desiderio che muove l’uomo in ogni istante della sua vita, tenta di oggettivarsi in una forma, in una parola. 
È la stessa cosa da sempre, dal tempo delle incisioni rupestri di Lascaux sino ad oggi. Così come non c’è un tempo senza arte, non c’è neppure un codice che assicura sulla bontà dell’arte. Come ha detto Damien Hirst, uno dei fenomeni dell’arte contemporanea, personaggio insieme da scandalo e da copertina: «L’arte è vera se capisci qualcosa dell’essere vivi che non avevi mai capito prima». 
Una cosa certa è che l’arte non può mai essere uguale a se stessa, deve accettare sempre il rischio del nuovo, del non detto prima. Anche a costo di fallire, di deragliare clamorosamente rispetto alla sua natura. C’è un’altra caratteristica dell’arte: conosce solo un tempo, ed è il tempo presente. Questo vale per sempre, nel senso che anche quando guardiamo una grande opera del passato, questa non è grande per statuto, ma è grande perché fa vibrare le corde del nostro presente, secondo uno sguardo che non è quello di nessun altro tempo della storia. E il presente dell’arte non è solo ideale, interiore, soggettivo. È anche oggettivo: The Artist Is Present si intitolava una straordinaria performance che ha emozionato centinaia e centinaia visitatori al MoMa di New York nel 2010. Marina Abramović, questo il nome dell’artista, per tre mesi è rimasta seduta davanti ad un tavolo, relazionandosi, soltanto a sguardi, con i visitatori che ad uno ad uno si sedevano di fronte a lei: 1565 persone per un totale di 700 ore di performance. Un’esperienza umanamente ed emotivamente intensissima, in cui l’artista consegnandosi allo sguardo dell’altro, in un certo senso “dandosi”, toccava qualcosa che aveva a che fare con il destino suo e di chi aveva di fronte. 
L’artista oggi è difficilmente personaggio nell’ombra, perché i meccanismi mediatici sono molte volte parte integrante del suo agire. È personaggio che spesso è chiamato a scoprire tutto se stesso, a mettere a nudo la propria vita, come aveva fatto Tracey Emin, esponente della Young British Art, con un’opera dall’impatto mediatico clamoroso e dall’aspetto sconcertante: nient’altro che il suo letto sfatto, dopo essere stato “abitato” dal proprio corpo per quattro giorni, dominati da un istinto mortifero. Poi quando se ne è sottratta, ha visto in quella forma che racconta il potenziale disfacimento della vita un’immagine forte, una forma “scolpita” dalla vita stessa; dalla sua vita. 
Ci si può chiedere a buon diritto come guarderanno quel letto gli uomini del prossimo secolo, che cosa ne vedranno. Ma l’idea che l’orizzonte di un artista sia quello di vincere il tempo, oltre che vagamente superba, è figlia di una retorica accademica che l’arte contemporanea ha avuto il pregio di spazzare via. 
L’arte è uno strumento di relazione non pianificata con gli uomini di questo tempo. È un linguaggio che arriva a toccare corde profonde, con modi e tempi non preventivabili. Quando dal suo studio in Cina Ai Weiwei ha concepito l’installazione per il carcere ora in disuso di Alcatraz ha realizzato un’opera che si è rivelata un gesto risarcitorio, altamente poetico e quindi molto umano: l’aver riempito di delicatissimi fiori di ceramica bianca lavabi, vasche e anche water del carcere, suona come un omaggio a tutto l’umano che lì è stato profondamente umiliato. Quando Ron Mueck, scultore australiano di straordinaria abilità, monumentalizza le figure di due anziani bagnanti, compie un gesto profondamente spiazzante proprio perché carica di emotività e di commozione una situazione esteticamente non appetibile, e perché rimette al centro del fare arte l’eterno tema del corpo. È il tema su cui ha ossessivamente ed esplosivamente lavorato in tutti questi anni Jenny Saville, artista inglese. Lei che ha rovesciato sulle tele masse di fisicità strabordanti, una volta attraversata l’esperienza della maternità ha saputo raccogliere questa energia nella narrazione di una relazione: quella tra il suo corpo e i corpi dei suoi figli. 
Il corpo entra in campo, per metafora, anche nella potente installazione di Anish Kapoor, artista indiano naturalizzato inglese. Con Shooting into the Corner (2008-2009) un cannone spara palle di cera rossa, materia quasi organica e grumo di sangue, contro un angolo della stanza, con una ritmicità implacabile, con violenza sorda e calcolata. L’effetto è impressionante, senza essere affatto teatrale. Un altro tipo di violenza è quella proposta da Alberto Garutti: una violenza luminosa, che abbaglia per far scattare una dimensione di meraviglia. Le 200 lampade che s’accendono ad ogni caduta di fulmine sul territorio italiano sono invito ad aprire una breccia nelle nostre menti, troppo urbanizzate e troppo calcolatrici. 
Damien Hirst, Marina Abramović, Ai Weiwei, Ron Mueck e Jenny Saville, Anish Kapoor e Alberto Garutti sono i personaggi qui chiamati a proporre uno sguardo diverso sull’arte contemporanea. Uno sguardo curioso e aperto per non restare ostaggi dei soliti luoghi comuni. L’arte di oggi è certamente un abnorme fatto di mercato (al punto che uno dei più grandi e seri artisti di oggi, Gerhard Richter, si è pubblicamente detto imbarazzato delle valutazioni che le sue opere hanno raggiunto); l’arte è anche spesso stata ridotta a un idiota esercizio di nichilismo. Ma in mezzo a questa fanghiglia – come sempre nella storia dell’uomo – si possono scoprire dei “fili d’oro” che è un peccato non seguire, non guardare, non conoscere. Sono “fili d’oro” che raccontano un’imprevista, a volte spiazzante, commozione per l’umano. E che la raccontano in forme altrettanto impreviste, a volte molto diverse da quelle a cui la tradizione ci ha abituati. Ma l’arte non è obbligata da nessuna forma, anzi è nella sua natura uscire dalle forme anche del passato recentissimo e inoltrarsi su terreni nuovi, rispondendo alle sollecitazioni di tutto ciò che di nuovo la vita degli uomini mette in campo. «L’arte è una porta aperta alla possibiltà», ricorda uno dei più importanti curatori di oggi, Hans Ulrich Obrist, citando l’artista Leon Golub. 
«Sono sempre stato interessato al momento creativo in cui ogni cosa è possibile e niente è ancora accaduto. Il vuoto è quel momento di tempo che precede la creazione, in cui tutto è possibile» risponde Anish Kapoor in un’intervista, incalzato dalle molte domande sulle sue forme concave e convesse e sulle opere di cera rossa che «si creano da sole». Questa mostra cerca proprio di seguire alcuni di questi “fili d’oro”, non attraverso le opere, ma la narrazione, anche spettacolare, di queste opere. Non vuole essere una scelta che cerca consenso, ma che sollecita curiosità. Prospetta situazioni che contengono anche un’audacia, con cui è affascinante fare i conti. Un’audacia di linguaggi o di approcci che porta gli artisti a inoltrarsi nelle fibre della realtà molto più di quanto a noi sia dato. A volte l’audacia è indotta dai mezzi che un artista si trova a disposizione: come è accaduto a David Hockney, grande artista inglese, che con l’arrivo dell’iPad ha capito di doversi arrischiare a dipingere sulla tavoletta, perché era una sollecitazione che gli avrebbe riservato sorprese. E, infatti, la bellezza delle sue immagini “artificiali” prodotte con i pennelli elettronici racconta di uno sguardo reso più acuto, più eccitato, più penetrato nella realtà. 
È il modo con cui l’artista David Hockney (ma la cosa vale anche per tutti gli altri qui presentati) oggi tenta di continuare a stupire Dio.

LA MOSTRA

Uno sguardo curioso e aperto per non restare ostaggi dei soliti luoghi comuni. L’arte di oggi è certamente anche un fatto di mercato, spesso ridotta a puro esercizio di nichilismo. Ma in mezzo a questa fanghiglia – come sempre nella storia dell’uomo – si possono scoprire dei fili d’oro che è un peccato non seguire. Sono fili d’oro che raccontano un’imprevista, a volte spiazzante, commozione per l’umano. E la raccontano in forme altrettanto impreviste, a volte molto diverse da quelle a cui la tradizione ci ha abituati. Ma l’arte non è obbligata da nessuna forma. La mostra segue alcuni di questi “fili d’oro”, attraverso la narrazione, anche spettacolare, di queste opere. Lo spettatore era accolto da un video che introduceva, non senza ironia, il tema dell’arte di oggi, tratteggiandone alcune caratteristiche che la differenziano da quella dei secoli scorsi.

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William Congdon, PIANURA

A cura di Davide Dall’Ombra e Francesco Gesti
Casa Testori
11 Ottobre 2015 – 14 Febbraio 2016

OREFICE DEL NOSTRO TEMPO
Giovanni Testori
Como, Marzo 1983

Credo che quanti abbiano visitato una mostra di Congdon saranno stati subito colpiti — e poi su questo, penso, avranno soprattutto meditato — da una verità globale, che fa come da basso continuo, da ron ron, a tutta la grande carriera di questo maestro. Ed è una verità di base esemplare, è la verità di base — o dovrebbe esserlo — di ogni uomo. In quanto ciò che emerge per primo, come una tenebrosa e luminosa realtà, è che William Congdon è sì cittadino americano, perché è nato in America, ma in realtà è cittadino del mondo. La sua storia avviene, si svolge non in una città, non in una nazione, non in una sola cultura, ma ha come suo proprio sangue — come sua propria pulsione, come sua propria avventura e destino — di visitare, conoscere, amare e, direi, di impattarsi ogni volta, di abbracciare ogni volta città, nazioni, culture diverse. Ogni volta l’incontro con una nazione, con una cultura, con una città, con un paese, con l’ansa di un golfo, con un pezzo di mare, ovvero con la sterminata dolcezza della pianura lombarda, ogni volta l’incontro ha un aspetto di una definitiva assunzione e, nello stesso tempo, di una definitiva caduta del pittore dentro la verità di questi diversi luoghi, di queste diverse culture, di queste diverse città, paesi, frammenti di mare, o di campagna. 
Non che Congdon cambi, Congdon resta sempre se stesso, naturalmente, nel procedere della sua avventura. Ma direi che il destino da cui è chiamato è quello di, ogni volta, stringersi, farsi mangiare, farsi stringere, con un rapporto che è quasi eucaristico (e magari un po’ cannibalesco, se vogliamo) con le realtà che di volta in volta la sua sete, il suo bisogno di conoscere città, nazioni, culture, paesi (quindi di conoscere la creazione, di conoscere la terra) lo spinge a incontrare. E allora si parte da New York per procedere in una sequela di immagini che non hanno paragone nella storia della pittura moderna. Alcuni pittori ci hanno dato immagini certo sorprendenti, memorabili, patetiche, gloriose, drammatiche di alcuni frammenti del mondo. Nessun pittore ci ha dato una catena, direi un’epopea, un poema, in cui le città più diverse del mondo abbiano trovato, come in lui, un cantore sconfitto e, dunque, vittorioso.

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LA MOSTRA

Pianura” è la mostra che nel 2016 Casa Testori ha dedicato al pittore William Congdon (1912-1998): artista internazionale dell’Action Painting amato da Giovanni Testori che, dalla New York degli amici Jackson Pollock e Mark Rothko, dopo aver viaggiato in tutto il mondo, decide di radicarsi a sud di Milano e dedicare la sua ultima produzione al ritratto intimo di campi coltivati, risaie e frutti della terra lombarda.
La mostra, realizzata in collaborazione con The William Congdon Foundation, puntava a indagare il ventennio lombardo del maestro americano. I circa 50 dipinti e i 20 pastelli selezionati descrivevano una parabola di conoscenza sempre più intima e profonda del sud-ovest milanese, che costituisce l’apice del suo percorso.
Le stanze tematiche presentavano i diversi nuclei intorno ai quali si articola la sua produzione: riemergevano, in una chiave nuova, i nodi affrontati a fianco degli action painters, frutto di un’osservazione solo apparentemente stanziale. 
Dopo le New York degli anni Quaranta, i Sahara e Santorini degli anni Cinquanta, la ricerca da spaziale si fa temporale. Protagoniste diventano la potenza della terra, delle sue trasformazioni e la mutabilità inesauribile del ciclo stagionale, delle colture e dei fenomeni atmosferici. È così che i campi sono chiamati per nome e il passaggio del tempo è fissato con la spatola tra i lunghi i solchi della pittura a olio.
Ricostruita per l’occasione, una sorta di quadreria immaginifica immergeva il visitatore tra le visioni notturne del colore dei campi ubertosi, in una relazione intima, lirica, quando non mistica e simbolista, con la terra, l’orzo, la soia, il mais, i glicini e le violette.
Non si trattava tuttavia di visioni idilliache, perché lo sguardo di Congdon lo portava a sconvolgere l’orizzonte sui campi, che da una disposizione lineare che ricorda ancora le città, muta in un disassamento dei piani, quasi a seguire le trasformazioni telluriche dell’origine. Un tormento, anche materico, che si risolve e trova pace nelle straordinarie Nebbie che aprono la via ai monocromi, introducendo una profonda trasformazione nella percezione e rappresentazione dello spazio, del rapporto tra i suoi elementi strutturali (cielo, terra e orizzonte) secondo un’ottica sempre meno naturalistica.
Riemergevano così le meditazioni sull’opera di Braque e De Staël, ma soprattutto, i confronti e dialoghi pittorici intessuti in presa diretta con la Scuola di New York di Betty Parson e Peggy Guggenheim, che hanno portato opere di Congdon nei più importanti musei di New York e alla Peggy Guggenheim Collection di Venezia.

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GIARDINI SQUISITI

Massimo Kaufmann e Maria Morganti
Un progetto di Associazione Giovanni Testori
Casa Testori
4 Aprile – 11 Maggio 2014

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QUELL’ABBRACCIO DI COLORI
Davide Dall’Ombra

Ed è pur vero che le due camelie in giardino fioriscono quando i termosifoni sono ancora accesi.
Dire primavera a Casa Testori significa riaprire porte mai chiuse, allestire una nuova mostra intorno al cuore pulsante delle due associazioni che la animano.
Mentre si lavora a future esposizioni, visite guidate ed eventi, si avvicendano con sempre maggior frequenza artisti intenti a sbirciare le proprie stanze per un nuovo Giorni Felici ormai alle porte. E sorprende che, ancora una volta, alcuni di loro si contendano la scrivania con il tesista o dottorando di turno, per consultare l’archivio di fotografie e scritti su Giovanni Testori.
Aprire questa Casa al contemporaneo si sta rivelando anche il modo più efficace per mandare in circolo l’opera di Testori, portandolo dove pulsa la vita artistica che lo scopre o riscopre con entusiasmo, dando vita ad una schiera di inaspettati testoriani. Tutto avviene in modo naturale, senza bisogno di committenze o suggerimenti, basta lasciare camminare gli artisti tra queste venti stanze, solo apparentemente vuote.
Questa mostra è l’esito di un’elaborazione condotta in diversi anni di lavoro da due artisti uniti da una profonda sintonia visiva che hanno dato vita a un progetto tenacemente voluto, nato per queste stanze. Massimo Kaufman, autore tra l’altro di un’importante intervista a Testori già nel 1986 e protagonista di Giorni Felici nella sua prima edizione, ha chiamato a raccolta artisti di primo piano nello scenario figurativo italiano, per una stanza destinata a sorprendere e ammaliare. Maria Morgantiha indagato uno dei più importanti libri testoriani, Il gran teatro montano, scoprendo con il critico una sintonia profonda che va ben oltre le apparenze – Testori è stato uno dei più feroci difensori della pittura figurativa – attingendo cioè a quel livello profondo dei “colori oggetti” rintracciati da Testori nell’opera di Gaudenzio Ferrari e Tanzio da Varallo, in cui parole e colore, scrittura e pittura si abbracciano indissolubilmente.

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LA MOSTRA

Il progetto, ideato appositamente per la dimora di Giovanni Testori, ha visto i due artisti occupare il pian terreno con progetti distinti, che si compenetravano in alcuni momenti di contatto e di confronto.
Massimo Kaufmann ha scelto di ricreare un giardino d’inverno, un’opera corale site-specific realizzata grazie alla collaborazione di Stefano ArientiMarco CingolaniGiovanni FrangiAndrea MastrovitoFulvia MendiniKatja NoppesMichela Pomaro e Massimo Uberti, chiamati a dipingere le pareti di una delle stanze. Gli artisti, seguendo le linee guida indicate da Kaufmann, hanno disegnato ognuno una striscia di muro senza conoscere quelle accanto, secondo l’esempio del cadavre exquis, il celebre gioco surrealista.
Maria Morganti ha tratto spunto da Il gran teatro montano di Giovanni Testori e dalle descrizioni delle opere di Tanzio da Varallo e di Gaudenzio Ferrari al Sacro Monte di Varallo. Partendo da questi punti di riferimento, l’artista ha lavorato sul confronto tra colore scritto e colore dipinto, tra parola e opera, attraverso un’analisi attenta del testo che ha dato origine a una stratificazione intensa, in cui diventa difficile definire se il testo abbia preceduto il quadro o viceversa. Il risultato di questo processo è stato una sedimentazione di veli di olio su tele, carte e sculture in rodocrosite e travertino, che occupavano il salone principale e la veranda della casa.

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Giovanni Frangi, HOMENAJE A TESTORI

Casa Testori
21-22 Settembre 2013

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Homenaje a Testori ha presentato al pubblico di Casa Testori un ciclo di opere che l’artista Giovanni Frangiha dedicato al padrone di casa, Giovanni Testori: 80 fotografie ridipinte a cui si aggiungevano tre grandi quadri, realizzati a olio ed emulsione su tela.
Per volontà dell’artista, tutta le opere esposte erano in vendita, al fine di sostenere la missione e le attività dell’Associazione Giovanni Testori.
Le due giornate di esposizione sono state accompagnate da due eventi speciali: un incontro di presentazione, tenutosi il 21 settembre con la partecipazione di Giovanni Agosti dell’artista Giovanni Frangi; una proiezione, nella giornata del 22 settembre, di due video ritrovati di recente, la prima edizione de Interrogatorio a Maria(1981) e un documentario sulla collezione della Ca’ Granda di Milano realizzato da Giovanni testori.

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