Mostre Passate

I CAPPOTTI. THE COATS

Jannis Kounellis
Casa Testori
21 Settembre – 10 Novembre 2019

KOUNELLIS A CASA TESTORI
Giuseppe Frangi

È una grande emozione accogliere tra le stanze di Casa Testori questo ciclo di incisioni di Jannis Kounellis, quasi un solenne inno d’addio di uno dei maggiori maestri del nostro tempo. Le 12 incisioni, su lastre di ben due metri per uno, che compongono la serie sono state realizzate nel 2014 nello studio dell’artista ad Umbertide, dove Corrado e Gianluca Albicocco, titolari di una delle più prestigiose stamperie d’arte italiane, avevano “traslocato” per l’occasione il loro laboratorio […].

Le incisioni hanno un soggetto unico: il cappotto. Sono state realizzate con la tecnica del carborundum su lastre di zinco. Il carborundum è una tecnica calcografica non molto comune, grazie alla quale non si ricorre alla morsura dell’acido o a strumenti di taglio per incidere la superficie metallica. Si utilizza invece una resina epossidica combinata con polvere di silicio, ma anche con sabbia o limatura di ferro, un’amalgama che essiccando si trasforma in materia ceramica molto dura e resistente: una materia capace di trattenere in gran parte l’impasto oleoso dell’inchiostro e trasferire quindi, con la pressione del torchio, le forme sulla superficie della carta. L’effetto finale, ben visibile in questi lavori di Kounellis, è di una granulosità intensa e drammatica, di una matericità che deflagra sul piano bianco del supporto cartaceo. Come ha scritto Roberto Budassi nel volume dedicato al ciclo di incisioni (a+mbookstore edizioni): «Kounellis sceglie consapevolmente la tecnica calcografica del carborundum perché questa gli permette di agire sull’opera senza la mediazione di alcuno strumento, di alcun altro artificio che non sia di natura fisica, di uno strumento che sia diverso dalle proprie mani, da quella forza lavoro necessaria per la genesi stessa dell’opera, al suo divenire oggetto e testimonianza attraverso l’azione generata dalla fora creativa».

Testimonianza è la parola chiave che racchiude il valore di questo ciclo del maestro greco: sulla carta troviamo impronte che condensano fisicamente non solo l’oggetto-cappotto, ma il vissuto di cui quell’oggetto è carico, di cui è portatore. Sono immagini “sindoniche”, che nella loro frammentazione, nel loro apparire e insieme lacerarsi, diventano testimonianza quasi tattile, oltre che visibile, del dolore di una stagione storica. Una testimonianza che nella dilatazione delle misure e nella libertà con cui occupa lo spazio bianco, assume una dimensione ascensionale e “gloriosa”. Una dimensione che non sarebbe certo sfuggita a Giovanni Testori. Di qui la scommessa di questa mostra: provare a tessere un dialogo postumo tra due grandi protagonisti che a diverso titolo hanno lasciato un sego profondo nella cultura e nella vita italiana del secondo ‘900. Un dialogo che avviene tra immagini e parole.
[…]

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LA MOSTRA

Cappotti sono una delle ultime opere del maestro dell’arte povera: 12 incisioni al carborundum realizzate con la collaborazione della Stamperia d’arte Albicocco di Udine. 
Dopo essere state esposte a Roma nel 2017 a Palazzo Poli, sede dell’Istituto centrale per la Grafica, e a Parigi alla Galleria Lelong, la serie completa delle incisioni è arrivata a Casa Testori in un dialogo postumo con i versi di Giovanni Testori, che hanno fatto da accompagnamento alle opere. Un incontro che è mai avvenuto e che è stato così proposto, nella convinzione che queste immagini “sindoniche” di Kounellis avrebbero certamente affascinato Testori.

Kounellis
AML
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NOW NOW. QUANDO NASCE UN’OPERA D’ARTE

Un progetto di Casa Tesori
A cura di Davide Dall’Ombra, Luca Fiore, Giuseppe Frangi e Francesca Radaelli
Meeting di Rimini
20-26 Agosto 2019

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E TRE: QUANDO NASCE UN’OPERA D’ARTE
Davide Dall’Ombra

Questa mostra compie una terna di progetti espositivi che Casa Testori ha curato per il Meeting di Rimini, con l’intento di avvicinarne il pubblico all’Arte Contemporanea. L’obbiettivo era quello di condividere con un bacino allargato di persone di ogni età e provenienza la bellezza e necessità dell’espressione artistica di oggi. Rispetto a quella del passato, l’Arte Contemporanea richiede probabilmente maggior disponibilità d’ascolto da parte del visitatore e abbisogna di oneste chiavi d’accesso, che il curatore ha il dovere di offrire. Sta di fatto che le prime due mostre si sono dimostrate in grado di regalare al pubblico importanti occasioni di conoscenza del proprio presente, spesso grazie a un’inaspettata empatia del desiderio. 
Nel 2015 andò in scena il racconto dell’opera di alcuni grandi maestri viventi, probabilmente i più celebri, chiacchierati e pagati artisti internazionali: dallo squalo di Damien Hirst, alle cere di Anish Kapoor, passando per la performance di Marina Abramovic al MoMA di New York. La mostra Tenere vivo il fuoco. Sorprese dell’arte contemporanea spiazzò i visitatori con immagini e video chiamati a documentare opere dai linguaggi inaspettati. Il viatico alla mostra era un articolato video introduttivo a 360 gradi, cui prestò generosamente la voce Giacomo Poretti, protagonista con Aldo e Giovanni della celebre scena del Garpez in Tre uomini e una gamba (1997), posta proprio ad apertura del video. Non c’erano percorsi obbligatori o istruzioni per l’uso: il visitatore era chiamato a scegliere cosa e quanto vedere di ciò che gli veniva raccontato, ma per qualsiasi domanda su artisti, opere e dinamiche dell’Arte Contemporanea, guide e curatori erano a disposizione h12/12, 7 giorni su 7. Un diluvio di domande, incessanti, interessate, ostinate o curiose, spesso dalle evidenti implicazioni personali, a volte perfino drammatiche. Accadde qualcosa e fu chiaro che un velo si era rotto. 
Due anni dopo, un nuovo video introduttivo e una nuova scelta di artisti di oggi si mettevano alla prova con un tema preciso, che in qualche modo declinava quello scelto dal Meeting di quell’anno: Quello che tu erediti dai tuoi padri, riguadagnatelo, per possederlo. Il rapporto dell’Arte Contemporanea con i maestri del passato, tema cardine dell’arte di ogni tempo, venne presentato in mostra non attraverso il semplice racconto ma, finalmente, con le opere vere. Il passaggio di Enea. Artisti di oggi alle prese con il passato (2017) mise in scena una raccolta di pittura, scultura, installazione, video e fotografia probabilmente irripetibile. Varcata l’opera di Julia Krahn dedicata al rapporto con la propria madre, il visitatore era chiamato a prendere le misure con due maestri del Novecento in stretto dialogo con i propri “padri”, grazie a una Last Supper di Andy Warhol, derivata dal Cenacolo di Leonardo, e all’ultimo film di Michelangelo Antonioni, dedicato al Mosè di Michelangelo. Intorno all’imponente mano con lanterna di Gianni Dessì, posta al centro della piazza, la scala si faceva monumentale e le sei stanze che la delimitavano accoglievano: il vasto ciclo dedicato ai Promessi Sposi cancellati da Emilio Isgrò, la Madonna a temperatura corporea di Alberto Garutti, un ciclo di litorali di Giovanni Frangi, la Via Crucis realizzata da Adrian Paci, il ciclo dedicato da Wim Wenders all’11 settembre prestato da Villa Panza e l’imponente processione di anime su carta oleata, disegnato da Andrea Mastrovito. L’impressione di aver vinto la scommessa non la diedero solo i numeri, bissando e superando le 22.000 presenze in una settimana registrate alla prima mostra. I visitatori colsero perfettamente la straordinaria potenzialità che ha l’arte di illuminare un tema cardine come il rapporto con la tradizione e con chi ci ha generato, a livello storico e sociale, come nei più intimi rapporti famigliari. A trent’anni di distanza dalla gloriosa stagione in cui il Meeting di Rimini, grazie a Giuseppe Panza di Biumo e a Giovanni Testori, aveva potuto presentare opere di artisti del calibro di Richard Long, Luigi Ghirri, Graham Sutherland, Francis Bacon, Henri Moore, James Turrell, Robert Irwin, Carl Andre e Renato Guttuso, la grande Arte Contemporanea era tornata in Fiera e “chiedeva” di rimanerci. 
Nell’immaginare un terzo appuntamento al Meeting di Rimini, rotto il ghiaccio e sperimentato il rapporto senza mediazioni con l’opera d’arte, non ci sembrava percorribile la strada di un semplice cambio di scuderia, che presentasse una rinnovata selezione di opere e artisti, magari intorno a un nuovo tema. Occorreva un passo all’altezza di quel percorso sperimentale di conoscenza che una manifestazione come questa consente e, in un certo senso, chiede. È nata così l’idea di permettere al pubblico un affondo finale nell’Arte Contemporanea, sfruttandone la caratteristica prima, quella di nascere ORA. Il visitatore della mostra del 2019NOW NOW. Quando nasce un’opera d’arte, ha la possibilità di vedere sette artisti al lavoro, intenti a creare un’opera caratterizzata da un compimento finale, al termine della settimana, e da raggiungimenti intermedi, visibili giorno dopo giorno. Non si tratta di semplici Studio Visit – consueta pratica curatoriale che vede l’artista nell’atto di presentare le proprie opere, dove le ha create, al critico interessato – ma di lasciare entrare il visitatore comune nel processo creativo. Lo scopo è quello di focalizzare l’attenzione sulle componenti generative dell’opera, sugli elementi e le energie che l’artista mette in campo, se stesso e l’ispirazione, ma anche i materiali usati nel processo di elaborazione e realizzazione dell’opera, il fattore tempo e la gestione del lavoro quotidiano. Conoscere il processo è un modo con cui lo spettatore, non solo è chiamato ad andare oltre al pregiudizio del “questo lo facevo anch’io”, ma ha la possibilità di cogliere tutto l’aspetto entusiasmante e drammatico che sta dietro un’opera, partecipando al momento creativo, conoscendo le dinamiche, la ricerca e gli accadimenti di un artista al lavoro: tra frustrazioni ed entusiasmi. 
Sette giovani artisti, dalle tecniche e linguaggi molto diversi tra loro, hanno trasferito in fiera il proprio studio, mettendosi a nudo, a disposizione dei visitatori, dei loro sguardi ma anche delle loro domande e osservazioni. Si tratta, a quanto ne sappiamo, di un esperimento mai tentato prima, almeno con questi numeri e intensità performativa, che va oltre il concetto di arte partecipata, superando il rischio del voyeurismo, o dell’effetto Grande Fratello, grazie a una componente di interazione che non mancherà certamente, non solo grazie a momenti di dialogo, ma anche in conversazioni pubbliche giornaliere, cui è dedicata un’apposita area. 
È così che Elena Canavese monta i suoi set fotografici tratti dal quotidiano, perché i piccoli oggetti domestici arrivino a raccontarci luoghi e immagini dell’universale: dall’universo in una cucina alla cucina dell’universo. Danilo Sciorilli pone l’accento sul senso dell’esistenza in rapporto con la sua inevitabile fine: la racconta con gli strumenti dell’animazione video che lo caratterizzano e con l’inedita trasformazione di alcuni giochi seri della nostra giovinezza. Alberto Gianfreda presenta le sue sculture di ceramica frantumata e ricomposta per diventare mutabile e in movimento: alla storia umana che ha sempre animato la sua opera, si aggiunge ora la lotta metaforica del regno animale. A Elisa Muliere spetta portare in mostra la pittura, con la sua energia informale e poetica, intenta a tradurre in colori e forme le note di un’ossessiva musica contemporanea. Alberto Montorfano declina il proprio tratto a grafite, in una sovrapposizione continua di volti, presi dagli scatti fotografici diretti: una registrazione dei flussi del “popolo” di Rimini che si interroga su immagine multipla e identità. bn+ brinanovara (al secolo Giorgio Brina e Simone Novara), con le mappe di gommapiuma, tessuto e marmo bianco di carrara, stese di giorno in giorno dietro a un paio di idoli di ghiaccio in scioglimento, raccontano la storia verosimile di un Iceberg che punta la latitudine di Rimini, esemplificando al visitatore quanto può essere difficile raggiungere la semplicità. A completare la squadra non poteva mancare il linguaggio video, grazie a Stefano Cozzi, che realizza un cortometraggio artistico della mostra stessa, documentandola in un video che crescerà di giorno in giorno, dall’arrivo degli artisti alla conclusione delle opere. 
Come due anni fa, non manca in mostra un “padre” per questi giovani al lavoro e per i visitatori chiamati a partecipare a questa sorta di performance corale. Introdotto da un video che ne racconti genesi, contesto e storia, è posto al centro dell’esposizione probabilmente il più grande quadro mai realizzato dal pittore Mario Schifano (1934-1998): La Chimera, qui presentato in mostra proprio perché esempio straordinario di un’opera realizzata davanti al pubblico, che si è nutrita della presenza di oltre seimila persone, in quella notte irripetibile del 1985 […].
Porsi il tema del processo creativo, di “quando nasce un’opera d’arte”, naturalmente fa affacciare alla mente infinite problematiche e distinguo sull’ispirazione artistica, sul grado di rapporto che tale ispirazione e, con essa, tutto l’atto creativo, hanno con la realtà vissuta o percepita dall’artista. È in gioco la necessità dell’individuo di compiere un gesto artistico, tra mezzi espressivi e contesti comunicativi in grado di veicolare ‘l’idea’. Ma non è questo il luogo, introducendo una mostra che non si è posta l’obbiettivo di essere esemplificativa, tantomeno esaustiva, per porre un tema necessario, quanto imprendibile, come l’accadimento artistico. Ci basterà assestarci su questo NOW NOW, dell’arte come della vita: prima, durante e dopo la mostra. 

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WHERE ARE WE GOING?

A cura di Giuseppe Frangi
Studio 4×4, Pietrasanta

WHERE ARE WE GOING?
Giuseppe Frangi

 Quali sono le radici che s’afferrano, 
quali i rami che crescono 
da queste macerie di pietra?
T. S. Eliot

Questa è una mostra che nasce attorno a un punto interrogativo che è come una sfida.
È possibile oggi avventurarsi dentro una delle domande che più assillano il presente di ciascuno ma che nascondiamo sotto il tappeto per il timore di restare senza una risposta dignitosa?
La sfida è doppia, perché ad uscire allo scoperto in questo faccia a faccia con quel punto interrogativo sono quattro artisti giovani, capaci di rompere gli indugi e anche di mettersi in gioco: c’è sempre un rischio di inadeguatezza davanti alla radicalità e ampiezza di quella domanda. Tuttavia l’arte oggi ha bisogno anche della spavalderia di chi tenta di misurarsi su orizzonti più audaci. 
In questo spazio che non a caso abbiamo voluto ribattezzare “Studio” il tentativo è quello di fare spazio alla categoria, grande e ingombrante, della “storia”.
Non è un caso: perché per avventurarsi nella domanda posta dal titolo è necessario darsi una coscienza, seppur fragile e frammentata, rispetto a quello che si sta vivendo. L’unica cosa certa è che l’intimismo davanti a questa domanda è fuori gioco.
I quattro protagonisti hanno approcci e sensibilità diversi l’uno dall’altro, ma hanno un fattore che li unisce in questo tentativo: è il desiderio di lasciarsi implicare, di misurarsi su un orizzonte che non è più solo personale; di tentare quello che potrebbe essere definito un discorso “pubblico”.
È quanto accade ad esempio nel caso di Stefano Cozzi: nel suo video, “A Song for the Wide Nation”, la storia entra in campo con un effetto di spiazzamento. La purezza felice dei bambini impegnati in una partita di pallone infatti fa da controcanto visivo alla narrazione “epica” della storia d’Europa (il testo è stato scritto di Mariadonata Villa, scritto in occasione della partecipazione dell’artista ai lavori di Eurolab, ed è letto da Christopher Knowles). La storia documentata liricamente dalle parole, attraverso le immagini ristabilisce un nesso necessario per quanto imprevisto con il presente. Ritroviamo un accento epico anche nell’opera di un’altra artista presente: è la grande tela di Elisa Carutti, immagine monumentale di un volto sdraiato che fissa un cielo sulfureo nel quale sembra specchiarsi e specchiare il proprio destino. Di chi è quel volto? È quello di un Tiresia contemporaneo, che insegue tracce di nuove profezie? È quello di uno dei corpi-calco pompeiani, che sino all’ultimo non ha sottratto lo sguardo dal cielo di fuoco e di zolfo? Certamente è un volto in attesa di un disvelamento di senso, è uno sguardo assetato di un qualcosa che lo ricolmi.
È pienamente e caparbiamente politico il lavoro di Giovanni Vitali. Lui ha indagato in questi anni sulle reliquie di un mondo finito, quello del comunismo nell’Europa dell’Est. Ha lavorato da incursore nei sotterranei della storia, e ne ha tratto una sorta di simbolo che assomma tutti i simboli. “Red on!” è un’installazione performativa, una stella coperta di resina durissima, su cui è colata la cera rossa della transitorietà di ogni pretesa umana sul mondo.
Matteo Negri, del gruppo è quello con maggiore background. Qui si presenta con un lavoro nuovo
e coraggioso. Il titolo allude alla transitorietà del tempo (“Meanwhile at 19.35 of the 28 May ‘19”), evocata dall’incombere della nebulosa nera che plana sul fragoroso splendore del mondo vegetale. La preziosità formale dell’opera realizzata con pellicola adesiva, colori per vetro e resina rende ancora più acuta quella dimensione di minaccia, che Negri rafforza con la presenza nel centro del cortile di una delle sue prime opere, che ne hanno decretato il successo: una delle mine marine in ceramica, slabbrate dall’esplosione e che imprevedibilmente, a prima vista, scambiamo per un fiore.

Studio 4×4 Pietrasanta
Via Garibaldi 34
55045 Pietrasanta
Lucca, Italia

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ALTISSIMI COLORI. LA MONTAGNA DIPINTA

Giovanni Testori e i suoi artisti, da Courbet a Guttuso
Un progetto di Casa Testori
A cura di Davide dall’Ombra
Castello Gamba – Museo d’arte moderna e contemporanea
Châtillon, Valle d’Aosta
12 Luglio – 29 Settembre 2019

DA COURBET A ZIMMER. CON GLI OCCHI DELLA PITTURA
Davide Dall’Ombra

Cosa vuol dire per un artista vivere e raccontarci la montagna?
Giovanni Testori (1923-1993) è stato uno dei più fertili intellettuali italiani del Novecento, impegnato su tanti fronti della cultura, essendo stato pittore, scrittore, poeta, drammaturgo, giornalista e critico d’arte. Del resto, Testori è anche uno degli autori presenti nella raccolta del Castello Gamba, che ne conserva lo splendido Tramonto (Actus tragicus) del 1967. L’invito è quello di lasciarsi accompagnare dalla sua opera e dalle sue parole alla scoperta delle cime: quelle dipinte in una raccolta entusiasmante di quadri, quelle protagoniste della vita di chi le abita e quelle da lui vissute e ritratte in prima persona. Il rapporto di Testori con la montagna, del resto, non solo ne trapunta la produzione pittorica, critica e poetica lungo tutta la vita, ma ne ha segnato l’esordio. Il suo primo articolo, pubblicato su “Via Consolare” a soli 17 anni nel 1941, chiama in causa proprio un quadro di montagna: il capolavoro di Giovanni SegantiniAlpe di maggio (1891), di cui Testori pubblicò un inedito quadro preparatorio. E non stupisce che questo intimo sguardo di predilezione condizioni anche le sue scelte come critico d’arte, attento a valorizzare con le sue parole, i dipinti di alcuni grandi pittori dell’Ottocento e del Novecento, amati e collezionati.
L’esordio non poteva spettare che a Gustave Courbet, l’artista rivoluzionario che Testori riteneva il padre dell’Informale, capace, come nessun altro, di restituirci la “mater-materia” della natura. È una sorta di artista manifesto per Testori e per l’intera mostra, non solo perché cronologicamente all’inizio di questo viaggio, ma perché ritenuto dal critico il padre di tutta la pittura moderna. Courbet ha insegnato a tutti i pittori dopo di lui che era la materia, non il mondo delle idee, il terreno sui cui si giocava la verità della pittura.
In stretto dialogo con Courbet è Paolo Vallorz, artista trentino, parigino d’adozione, che conserva nella trama della sua pittura l’insegnamento dell’artista francese, declinato nel suo amore incondizionato per la Val di Sole (TN). È proprio la straordinaria unità di Vallorz con il sentimento e la vita della montagna e della sua gente a calamitare Testori.
I tramonti infuocati di Renato Guttuso accendono irrimediabilmente le cromie della mostra. Guttuso è un siciliano che, stregato dalla vista del Rosa, fece della casa di Velate, a Varese, uno studio dove realizzare molte delle sue opere più celebri. E Guttuso a Varese fu il tema di una mostra fortemente voluta da Testori, che si apriva proprio con questo pastello: “uno di quei divampanti, innamoratissimi addii; gettato giù, su d’un foglio, con abbacinante libertà (e la materia, ne è, quella immediata, franante e delicata dei pastelli)”. Testori sigillava così, nel 1984, un’amicizia e collaborazione con Guttuso di oltre 40 anni, tra articoli, recensioni e presentazioni in catalogo. Molte le pagine di Testori dedicate al pittore che, pur nella diversità ideologica, fu un interlocutore importante, fin dagli anni appassionati del Realismo italiano, durante la Guerra e la ricostruzione. 
Varlin, il geniale artista zurighese che scelse di andare a vivere tra le montagne della Val Bondasca, nei Grigioni svizzeri, a pochi passi dalla Stampa di Giacometti, è l’autore di alcune tra le più straordinarie nevicate della storia dell’arte europea. Opere che stregarono Testori, decisive anche per il suo personale impegno nella pittura. Insieme a Friedrich Dürrenmatt, Testori fu il più grande interprete del pittore, in cui ritrovava tutto ciò che andava ricercando nell’arte: la drammaticità – anche nel senso teatrale del termine – e la verità delle trame domestiche. Una pittura senza sconti, in cui il quotidiano è raccontato sempre ai vertici dell’universale. 
Il saluto finale spetta a Bernd Zimmer, pittore tedesco “scoperto” da Testori, che si era innamorato della sua natura, delle sue montagne infiammate e visionarie. Zimmer è tra i maggiori esponenti dei cosiddetti “Nuovi selvaggi”, artisti berlinesi che negli anni Ottanta cercarono fortuna in Italia e trovarono in Testori uno dei loro più importanti interpreti. L’energia della pittura sprigionata da questi artisti diede una carica decisiva al Testori critico militante, impegnato in quegli anni alla promozione della giovane pittura non solo italiana, curando diverse mostre o recensendole sul “Corriere della Sera”, per il quale fu responsabile della pagina artistica, dal 1977 fino alla morte. 

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LA CASA INTORNO AL VASO

Anna Caruso
A cura di Davide Dall’Ombra
Casa Testori
21 Giugno – 10 Novembre 2019

I PIANI FORTI
Davide Dall’Ombra

“I miei dipinti si basano su una distinzione tra spazio illustrato e spazio pittorico astratto. Il primo è mimetico e referenziale, il secondo è trasformativo, completamente incarnato dalle dinamiche pittoriche, perché l’astrazione formalista non si sforza di raggiungere un soggetto rappresentato e rivendica lo spazio che vorrebbe abitare. Lo so. È la più autoreferenziale delle forme pittoriche possibili, ma è (anche) la mia”. 

La mostra allestita da Anna Caruso al primo piano di Casa Testori è articolata in una serie di carte e installazioni, wall drawings immersivi, dipinti inediti, quasi totalmente realizzati per l’occasione, sperimentando tecniche nuove e lasciandosi interrogare dall’idea di appartenenza e strappo, caratteristiche di una figura come Giovanni Testori e così ben rintracciabili tra le pareti della sua casa, oggi un hub culturale giunto al decimo anno di sperimentazioni, anche nell’ambito della giovane arte contemporanea.

Nella sua personale alla Thomas Masters Gallery di Chicago dello scorso gennaio, Anna aveva aggiunto un tassello alla sua ricerca sulla percezione umana della realtà, interrogandosi sulla visione soggettiva del tempo e sulla sinestesia che condizionano la nostra memoria. 

La realtà filtrata e, in un certo senso cancellata, sconvolta e ricomposta, dalla nostra memoria è, infatti, al centro della sua ricerca, visibile in dipinti segnati dalla striatura geometrica che crea piani e spazi che si moltiplicano all’infinito. In un ritmo che fonde elementi di flora, fauna e architettura naturale e artificiale, l’artista ci obbliga a planare su questi piani, in un moto che, dagli occhi della percezione, non può che portare all’inseguimento di emozioni e ricordi. 
I nostri. 

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LA MOSTRA

Salendo i gradini dello scalone, ci accoglie l’opera che dà il titolo alla mostra, La casa intorno al vaso, un vaso evocato e non rappresentato, quale simbolo della casa stessa, che è capace di abbracciare il vuoto dell’esistenza, anzi, proprio come il vaso, trae la propria natura e funzione dal circondare un’assenza.
Nella grande stanza da letto, una tela di oltre quattro metri apre la parete di fondo verso le montagne rocciose e tre piani sovrapposti di PVC trasparente dilatano i piani inclinati della prospettiva immaginaria dell’artista e dell’osservatore. Sulle pareti della camera successiva si fronteggiano la celebre Crocifissione del 1949, dipinta da Testori, e il personale omaggio dell’artista: un’opera di pari formato e, probabilmente, soggetto, per quanto possibile alla sincerità e alle contaminazioni, personali e del nostro tempo che siano.

Di fronte alla grande libreria si schierano quattro ritratti di pari formato. Sono Giovanni Testori e sua madre, l’artista e suo padre. Affetti e tensioni, inevitabilmente costruttive e distruttive insieme, si intrecciano in un profondo dialogo dell’imprevisto, tra storia culturale e degli affetti. 
Nella camera di Testori da ragazzo, il tema del nudo presente alle pareti – un tempo per le tele attribuite a Géricault e Courbet, oggi nel lavoro a esse dedicato da Andrea Mastrovito (2011) – ispira alla Caruso un lavoro intimo, figlio dell’installazione presentata al Teatro Elfo Puccini lo scorso anno, in cui una nuvola di centinaia di disegni accarezza il visitatore. 

La piccola stanza finale accoglie mondi che si allargano ancora una volta. Anna dipinge tutte le pareti con un grande wall drawing e il pavimento coperto da una tela, ma la pittura non si dà confini, scalando i gradini che portano al solaio e interagendo con la grande conifera del giardino, che si staglia oltre la finestra.

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L’ARTISTA

Anna Caruso nasce a Cernusco sul Naviglio (MI) nel 1980. Nel 2004 si diploma in pittura all’Accademia di Belle Arti di Bergamo. Vive e lavora a Milano. Lavora con gallerie italiane ed estere, tra cui lo Studio d’Arte Cannaviello di Milano, Anna Marra Contemporanea di Roma e la Thomas Masters Gallery di Chicago (USA).

COME COSTRUIRE UNA DIREZIONE

Andrea Bianconi
A cura di Giuseppe Frangi
Casa Circondariale “Francesco Di Cataldo”
San Vittore, Milano
3 Aprile e 9 Maggio 2019

ANDREA BIANCONI A SAN VITTORE
Giuseppe Frangi

L’artista è presente: il segno distintivo di quella forma artistica che è la performance è innanzitutto questo. L’artista entra in gioco con il suo corpo per ritrovare un’intensità di rapporto con il mondo che lo circonda, che l’opera in sé sembra non riuscire più a garantire. La performance insomma è quella forma semplice ed estrema attraverso la quale l’artista dice al mondo: “io ci sono”. Il senso di questo “esserci” è quello di essere sempre elemento destabilizzante, perché introduce altre logiche e altri punti di vista. Con la performance l’artista si mette in gioco, senza mediazioni; soprattutto è chiamato a prove di una sincerità radicale, che scuote e crea corti circuiti.
La sincerità è proprio una delle qualità che contraddistinguono Andrea Bianconi; un artista che gioca sempre allo scoperto anche quando lavora su medium tradizionali ma che trova nella performance il suo terreno d’espressione più congeniale. Di performance Bianconi, vicentino, nato nel 1974, ne ha fatte in ogni angolo del mondo, da Mosca a Shanghai, da Venezia a New York. Ogni volta realizza incursioni da vero corsaro, seguendo dei copioni imprevedibili, che divertono, a volte commuovono ma che prendono sempre in contropiede. Nelle performance Bianconi si trasforma ogni colta in un personaggio da fiaba, in un eroe puro e scapestrato che ci incanta con i suoi strani riti e i suoi bizzarri tormentoni.
Da tempo Andrea sognava di poter fare una performance in un luogo sensibile come il carcere. Credo che la ragione sia da trovare in un dato molto semplice: la performance per Bianconi è innanzitutto un’esperienza di libertà, perché è uno spazio di azione che non obbedisce ad una logica e tanto meno ad una regola. Uno spazio in cui l’artista non è chiamato alla resa dei conti con un “perché”. La libertà poi è garantita dal fatto che la performance è una volta per sempre; una volta accaduta si smaterializza e vive solo nella documentazione di ciò che è accaduto. Questo significa che non c’è un oggetto da vendere e quindi la performance è anche libera dalle regole imposte dal mercato. Portare quindi un’esperienza di così profonda libertà in un luogo come il Panopticon da cui si dipartono i raggi di San Vittore, com’è facile intuire è un fatto significativo in sé. È una verifica portata in prima persona della libertà come fattore irriducibile della natura umana. Bianconi poi aggiunge altri elementi che rafforzano questa dimensione. Ci sono le gabbie attorno alle quali la performance avviene: di per sé sono un simbolo oppressivo. La gabbia è evidentemente emblema di una condizione di reclusione e anche sintomo di una fragilità esistenziale. La gabbia da una parte ci separa al mondo, ma dall’altra anche ci protegge dal mondo. Bianconi con il suo intervento produce un corto circuito e rimette in discussione queste istintive certezze. Le sue gabbie che volano appese nello spazio, con gli sportelli regolarmente aperti, non solo vengono svuotate di tutto il loro portato di negatività, ma sono chiamate a partecipare ad un rituale imprevisto e bizzarro, che le trasforma in creature allegramente fuori posto e fuori funzione. Tant’è vero che al centro del Panopticon, sul podio dove la domenica sta il sacerdote per la messa, Bianconi ha voluto posizionare una scultura che altro non è che una gabbia sventrata e “aperta” come se si fosse trasformata nella corolla di un fiore. La gabbia, sotto l’azione del mago Bianconi, cambia in ogni senso la propria natura. La performance così, con i suoi tormentoni verbali, diventa la festa, il rito di ringraziamento per questa trasfigurazione.
L’altro motivo che contraddistingue la presenza di Bianconi a San Vittore è perfettamente connesso con quanto sin qui abbiamo descritto. La freccia è segno tautologico: non occorre assegnarle un significato. Il senso della freccia è tutto racchiuso nei semplici tratti che la costituiscono e che esprimono un andare, un muoversi, un uscire. La freccia è l’antitesi dello status quo. È un istinto che guarda oltre. È espressione franca di un’aspettativa. È voglia di cambiamento. È tentativo di darsi una direzione. Le frecce di Bianconi, che punteggiano le pareti colorate di Marco Casentini, nel corridoio d’ingresso, portano con sé tutti questi possibili messaggi.
La presenza di Andrea Bianconi a San Vittore è frutto di un progetto messo a punto con Casa Testori. È cosa che mi pare importante sottolineare perché in questo modo si rinnova una sensibilità che aveva contraddistinto Giovanni Testori, come persone e come intellettuale. Più volte Testori era venuto a San Vittore e aveva sollecitato un’attenzione diversa da parte della città. Essere qui, portando un gesto artistico che parla di libertà e di desiderio di cambiamento, è un modo per rinnovare quella sua convinzione che la cultura per essere vera deve sempre mischiarsi con la vita.

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LA PERFORMANCE

Come costruire una direzione, elaborata da Andrea Bianconi con la produzione di Casa Testori, è una performance messa in scena durante l’ArtWeek milanese del 2019 nel carcere di San Vittore, all’interno del celebre Panopticon da cui si dipartono i sei raggi della struttura penitenziaria milanese. 
Andrea Bianconi ha allestito 24 gabbie – uno dei simboli della poetica dell’artista – che sono state posizionate davanti ai cancelli dei sei raggi. Le gabbie, ovviamente, sono un riflesso speculare della condizione carceraria, ma l’azione di Bianconi ha voluto ribaltarne il segno e dare loro un connotato liberatorio: erano le gabbie dei nostri desideri, le cui porte sono dunque sempre aperte. 
Sul podio centrale del Panopticon, dove la domenica si celebra la Santa Messa, Bianconi aveva posizionato una grande scultura realizzata per l’occasione: una gabbia le cui pareti sono state aperte quasi a formare un fiore e, simbolicamente, le ali, altro simbolo dell’arte di Bianconi. Alla performance ha partecipato la compagnia del CETEC Dentro/Fuori San Vittore, di cui fanno parte alcune detenute. Con loro Bianconi ha intonato un motivo incalzante, ossessivo e insieme utopico, ripetendo centinaia di volte le parole “Fantastic Planet” seguendo uno spartito stabilito dall’artista. “Fantastic Planet”, perché, come l’artista spiega, è figlio dell’immaginazione di ciascuno. E l’immaginazione è un fattore intrinsecamente libero, non “carcerabile”. 

Quella a San Vittore è stata una performance profondamente vissuta dall’artista perché – diversamente da quanto accaduto in precedenza – non era da solo. Al suo fianco 10 detenute, attrici speciali che hanno canato e ripetuto con lui, in modo quasi ossessivo, il claim “Fantastic Planet”, perché ogni persona può sempre immaginare il suo mondo fantastico. 

Se la gabbia è il luogo di un desiderio da liberare, la freccia diventa il simbolo di questo desiderio che prende il volo. Per questo la performance si è conclusa con il canto di una filastrocca scritta da Bianconi sul motivo di una popolare canzone per bambini e intitolata proprio La Freccia. La filastrocca è stata prima cantata dall’artista, da solo, poi ripetuta insieme alle detenute.

«Sono entusiasta di fare questa esperienza, San Vittore è un luogo particolare, delicato e la mia performance vuole affermare il messaggio che per tutti c’è una possibilità, una prospettiva, un varco attraverso il quale liberare i desideri» ha affermato Andrea Bianconi.

«L’arte portata dentro le mura di un carcere può essere esperienza di grande valore, se, attraverso la bellezza e l’imprevedibilità delle proposte, riesce a stimolare percorsi positivi di consapevolezza e di cambiamento». Queste le parole di Giacinto Siciliano, direttore del carcere di San Vittore, che racchiudono il senso profondo della performance alla quale, non a caso, Andrea Bianconi ha voluto dare il titolo quasi programmatico di Come costruire una direzione.

Il progetto includeva anche una mostra di 50 disegni esposti per un mese nel lungo corridoio che porta alla rotonda del Panopticon, aventi come motivo dominante proprio la freccia. 
La freccia, nella grammatica di Bianconi, è una sorta di felice ossessione, che dà forma all’insopprimibile bisogno di desiderare. La freccia è energia liberante, ma è anche direzione: quindi indica un percorso possibile, che è unico e irripetibile per ciascuno, un segno positivo portato dentro un ambiente segnato per sua natura da dinamiche opposte. Ma come spiega Bianconi «l’arte ha in sé sempre un’apertura al futuro anche quando veicola messaggi drammatici. Per quello che mi concerne, il titolo della mostra dà un’indicazione chiara, che sento istintivamente mia: tendo a guardare al bene e non al male. Per me l’arte è un fatto di coraggio che stimola altro coraggio nelle persone».

Rassegna Stampa
web:
“La Repubblica”
“La Stampa”

Cartacea

EMILIO ISGRÒ. I 35 LIBRI DEI PROMESSI SPOSI CANCELLATI

Emilio Isgrò
A cura di Davide Dall’Ombra
Castello Gamba – Museo d’arte moderna e contemporanea
Châtillon, Valle d’Aosta
6 Aprile – 16 Giugno 2019

EMILIO ISGRÒ. I 35 LIBRI DEI PROMESSI SPOSI CANCELLATI
Davide Dall’Ombra

«Cancellandola, mi sono accorto di come la scrittura manzoniana sia quanto di più potente e sorgivo abbia offerto la nostra letteratura dopo Dante. Giacché in Manzoni anche la cultura si fa natura».

Al centro dell’esposizione è posta l’opera più imponente realizzata da Emilio Isgrò: i 35 libri cancellati dedicati alle pagine più celebri de I Promessi Sposi di Alessandro Manzoni. I Promessi Sposi cancellati per venticinque lettori e dieci appestati è un’opera realizzata nel 2016 appositamente per essere esposta a Casa Manzoni, a Milano. È qui presentata, non solo per la sua imponente bellezza e perché esemplificativa della poetica dell’artista e delle sue celebri cancellature, ma perché utile a comprendere la portata creativa che ha avuto nell’artista l’intuizione sulla centralità della parola, ben espressa nell’opera di Isgrò conservata al Castello Gamba e visibile nel percorso del Museo.
L’opera è composta da 35 copie del romanzo, aperte su pagine emblematiche, e presentate in altrettante teche di plexiglass. I volumi utilizzati sono la ristampa anastatica della prima edizione del romanzo nella sua versione definitiva (la cosiddetta Quarantana), edizione che Manzoni aveva fatto illustrare da Alessandro Gonin, fornendogli precise indicazioni. Isgrò, artista siciliano trapiantato a Milano, è intervenuto sulle 70 pagine con un’operazione a lui consueta: ha cancellato quasi tutto il testo con inchiostro nero o tempera bianca, facendo sopravvivere solo alcune parole chiave, perché salvate o lasciate emergere dalla trasparenza del segno. Sono proprio queste parole salvate a ricreare un nuovo testo o, meglio, a darci una sintetica e poetica chiave di lettura del passaggio scelto. Quello che sembrerebbe oltraggio si scopre così un atto d’amore.
L’intervento di Isgrò ci fa precipitare nel cuore del testo e ci fa capire la grandezza della scrittura manzoniana.
È così che, quando il silenzio si fa necessario, nulla si può dire, o aggiungere di nuovo, rimangono solo le virgole, a segnare il passaggio del tempo e a rassicurarci che qualcosa di indescrivibile sta accadendo. Più spesso si salvano poche parole sufficienti ad evocare l’intero capitolo, come la conversione dell’Innominato: “dio, lo, Dio”. Talvolta l’intervento è più pittorico: è così che compaiono le due anime della Monaca di Monza, contemporaneamente bianca e nera. Del resto, la bellezza pittorica delle pagine ricreate non viene mai meno ed è una componente essenziale dell’armonia che trasmette l’opera. Le cancellature danno un ritmo musicale alle pagine e l’alternanza dei bianchi e dei neri è poetica in sé.
Ma sono certamente le parole di Manzoni, sfrondate e levigate come pietre piccole e preziose, a brillare tra i solchi creati dall’artista, restituendoci la potenza evocativa maggiore. Tre semplici “e”, superstiti nel vuoto della pagina, dilatano l’aspettativa di un lieto fine insita nel romanzo, mentre frasi completamente nuove, come quella nata dalle indicazioni di Fra Cristoforo, “direte barca rispondete amore”, sciolgono il confine tra scrittura e arti figurative.
Perché è in questa sinestesia tra i linguaggi che sta la grandezza di quest’opera. Il romanzo in generale e, come sottolineava Giovanni Testori, Manzoni in particolare, conduce il lettore, parola dopo parola, fino al culmine del sentimento, della commozione, rabbia o pietà che è in grado di suscitare, con i tempi della lingua e della narrazione.
L’opera d’arte accade, al contrario, in un istante, di fronte allo spettatore: è come se potessimo leggere in un sol colpo un intero romanzo, diceva Testori. Scrittura e arte figurativa hanno tempi lontanissimi di fruizione: l’una ci può far correre o passeggiare, l’altra ci costringe a un immediato tuffo olimpionico. Ecco, con le sue cancellature, Isgrò imprime alla letteratura i tempi vertiginosi dell’arte, permettendoci di cogliere l’essenza di un intero capitolo in un colpo d’occhio, ma, al contempo, con un’opera come questa, ci riporta, libro dopo libro, un personaggio o fotogramma via l’altro, ai tempi tipici della lettura, fatti di comprensione, apprezzamento, stupore e profonda immedesimazione.

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LA MOSTRA

Una nuova mostra per un nuovo progetto di Casa Testori, voluti e sostenuti dalla Regione Autonoma Valle d’Aosta. Un progetto che ha visto Casa Testori curare uno studio della collezione del Museo del Castello Gamba, il Museo che raccoglie la collezione del Novecento della Valle d’Aosta, individuando alcune opere e maestri capaci di fungere da perno per future iniziative di valorizzazione, affinché il Castello Gamba, guadagni definitivamente il posto che gli spetta, quale meta imprescindibile per i turisti dei Castelli in Valle d’Aosta e approdo prediletto dagli abitanti della Regione.
Il primo frutto di questa collaborazione è la mostra Emilio Isgrò. I 35 libri dei Promessi Sposi cancellati, che espone un’opera importante e articolata di uno dei più importanti artisti concettuali italiani, in dialogo con il suo dipinto conservato al Castello Gamba: Quel che è scritto (1991), presentato per l’occasione con nuove efficaci chiavi di lettura. È la quinta “puntata” della fortunata rassegna di mostre Détails, con cui Castello Gamba valorizza il proprio patrimonio, ponendo l’attenzione del pubblico su uno degli autori presenti in collezione. 

Scarica qui la guidina della mostra

GRAFFIARE IL PRESENTE

A cura di Daniele Capra e Giuseppe Frangi
Casa Testori
1 Dicembre 2018 – 20 Gennaio 2019

NON SMETTERE DI COMBATTERE
Daniele Capra e Giuseppe Frangi

Graffiare il presente muove dalla convinzione che vi siano opere realizzate oggi che hanno nelle loro ragioni programmatiche più profonde il desiderio di dare degli strumenti interpretativi, di carattere critico, poetico o anche militante, per interpretare la realtà che ci circonda; strumenti per arginarla o agire in essa, in opposizione all’idea rassicurante, ma sterile, di suggerire allo spettatore un luogo defilato al riparo dalle contaminazioni del mondo. A partire da questa necessità di insinuarsi attivamente nel nostro tempo, Graffiare il presente propone una selezione di opere realizzate nel corso del 2018 da ventuno artisti, tutti italiani, e tutti nati tra gli anni Settanta e gli Ottanta. Si tratta di opere che mirano ad essere mattoni in grado di reggere il proprio e l’altrui peso, capaci di lottare per non scivolare nell’indistinto che fagocita ogni cosa in un tempo brevissimo. Tali lavori si offrono al fruitore come strumenti di pensiero, tesi e teoremi – sia visivi che ideali – in grado di sostenere la suggestione dell’utopia, l’ambizione a significare e il proposito di resistere alle tensioni e alle insidie del futuro. Che è il tempo più infido, pronto a dissolvere le nostre ambizioni come le onde che si frangono sulla spiaggia. 
La mostra ha avuto tra i suoi intenti quello di verificare come la scelta e la pratica del medium pittorico vada ben oltre la sua supposta autoreferenzialità, le cure rivolte esclusivamente agli aspetti linguistico-stilistici o un’improduttiva forma di intimismo espressivo. La scelta della pittura non è casuale in un luogo come questo che nella sua storia è stato il teatro dell’avventura collezionistica di Giovanni Testori, appassionatamente orientata proprio in direzione della pittura. I lavori di particolare intensità di Graffiare il presente mirano a dimostrare come, per una generazione di artisti, la pratica pittorica nasca da esigenze di perseguimento di obbiettivi intellettuali significativi, come missione estetica, esistenziale o politica. Rifuggendo in ogni modo l’assertiva e rappacificante ripetizione della propria identità, il rassicurante ed inconcludente esercizio dell’arte come decorazione o didascalica addizione al mondo, la mostra rappresenta un tentativo anarchico di cogliere i più rilevanti tentativi di resistere e non dissolversi nella rapida mollezza della contemporaneità.
Come curatori del progetto ci preme sottolineare la risposta convinta e generosa da parte degli artisti all’invito a loro rivolto: la qualità, il desiderio frequente di partecipare alla mostra con opere di dimensioni impegnative, ma anche la viva partecipazione al processo ideativo e al confronto pubblico sono lì a confermarlo. Questo è un segno di quanto il medium pittorico venga vissuto come un linguaggio ricco di potenzialità ancora inespresse, la cui significatività è stata frequentemente ignorata dai luoghi espositivi istituzionali del nostro Paese: è una percezione testimoniata dalla forza sperimentale, a volte audace, ma sempre metodologicamente rigorosa, che caratterizza tanti dei lavori esposti. Del resto lo sperimentalismo è anche l’esito quasi obbligato di quella spiccata tendenza interrogativa che caratterizza gli artisti in mostra e di quella sentita necessità interiore di incidere il presente, per sua intrinseca natura informe, liquido e impenetrabile. Infine Graffiare il presente conferma il senso del fare una mostra collettiva, se costruita attorno a precisi criteri, come opportunità di confronti vis-à-vis con le opere di altri artisti e anche come possibilità di impreviste contaminazioni. […]

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GLI ARTISTI

Paola Angelini, Mirko Baricchi, Paolo Bini, Lorenza Boisi, Thomas Braida, Alessandro Calabrese, Linda Carrara, Nebojša Despotović, Matteo Fato, Agostino Iacurci, Andrea Kvas, Francesca Longhini, Tiziano Martini, Isabella Nazzarri, Marco Pariani, Nazzarena Poli Maramotti, Alessandro Roma, Nicola Samorì, Alessandro Scarabello, Caterina Silva, Aleksander Velišček.

Salone_no luci
Maramotti_Silva
Baricchi_Iacurci
Calabrese_Nazzarri
Despotovic
Fato_Bini
Kvas2
Roma_Scarabello
Samori
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Il progetto è stato realizzato grazie ai fondi ottenuti tramite la destinazione del 2×1000 alle Associazioni Culturali.

À REBOURS di Alex Urso

Prorogata fino al 20 gennaio
orari natalizi:
6 gennaio apertura straordinaria 
chiusa dal 23 dicembre al 1 gennaio 

Mostra personale di Alex Urso
a cura di Davide Dall’Ombra
Casa Testori
14 ottobre – 21 dicembre 2018

À REBOURS (alla rovescia) Casa Testori dedica una mostra all’artista italiano residente a Varsavia Alex Urso (1987).
Un progetto appositamente pensato per la casa natale di Giovanni Testori, curato da Davide Dall’Ombra. Tra vetro, legno e collage, Urso dà vita a un grande omaggio agli artisti del Novecento e non solo: con ironia e poesia entra nella raffigurazione delle dinamiche dell’arte in senso ampio, dal riconoscimento personale alla consacrazione museale, o alla riduzione a feticcio ad usum del pubblico, tipiche del mercato.
Urso si riappropria dell’arte del passato in un processo che ha qualcosa di delicato e carnivoro insieme. Usa i ritagli d’immagini dell’arte e della natura, avvicinandoli o sovrapponendoli su diversi piani, in una compenetrazione che punta alla valorizzazione reciproca della rispettiva temperie emotiva, più che alla giustapposizione di significati.
Questa mostra è l’occasione per fare il punto sulla sua ricerca e presentare in Italia opere inedite e un percorso articolato in una sede pubblica.


Il percorso

Una scala per Memling

L’opera di Urso è installata in stretto dialogo con la Biblioteca d’Arte di Giovanni Testori, giunta al termine del suo riordino. La grande libreria posta alla base della scala raccoglie le monografie degli artisti medioevali e moderni fino al Settecento. L’intervento di Urso fiorisce tra i volumi e s’inerpica lungo la salita al primo piano, rendendo il grande scalone un omaggio al pittore tedesco Hans Memling (1430-1494) e al suo celebre Giudizio Universale, il cosiddetto Trittico di Danzica (1470 circa). Disposti tra i libri, nove diorami restituiscono la composizione: dal Cristo giudice – potente tanto da non trattenere la propria forza entro il vetro – alle anime salvate, purganti e dannate. In questi teatrini magici (Stations of the Cross, 2016) le immagini del Trittico acquisiscono la terza dimensione grazie ad elementi apparentemente estranei, che li riportano a una temperie domestica. Nella serie lungo le scale (A study on The Last Judgment of Hans Memling, 2015/2016) la natura si fa matrigna e, sostituendosi alle fiamme in una funzione tutt’altro che decorativa, non rallenta i tormenti dei dannati ma partecipa alle pene soggettive.

 Tre stanze per una giungla
Giunti al primo piano, la mostra prosegue nelle cinque stanze della parte destra della casa. Attraversando il corridoio, le tre camere che si aprono a sinistra sono unite da un tema comune: Welcome to the Jungle, è declinato dall’artista in altrettante opere, realizzate tra il 2016 e il 2018.

Nella prima stanza
Una serie di 15 box, diorami o teatrini magici, creano una linea continua lungo le pareti. Il visitatore è chiamato a immergersi in questi microcosmi realizzati unicamente con la carta. Ormai non servono più altri oggetti per mettere in scena questa selva artistica: ce n’è abbastanza tra protagonisti, musei e splendidi cortocircuiti emotivo-celebrali, nati da accostamenti impensabili. Non si tratta solo di un omaggio ai propri maestri, ma di una serie di ex-voto, con i quali Urso chiede un aiuto agli artisti che, tra le belve del mondo dell’arte – e della vita – sono riusciti a esprimere la propria poetica, sopravvivendovi. Il filo dei diorami è interrotto su una parete da uno dei quadri più importanti di Giovanni Testori (Crocifissione, 1949), inaspettatamente a suo agio, tra le opere di Urso, non solo perché ne condivide l’affollamento formale e l’antropomorfizzazione della natura, ma soprattutto perché anch’essa esito della metabolizzazione dei propri maestri, da Cézanne a Picasso.

Nella seconda stanza
Un dittico rappresenta un dialogo tra Urso e alcuni tra gli artisti più rilevanti della tradizione
polacca. Si tratta di un omaggio personale da parte dell’autore ad alcune figure chiave della cultura locale, conosciute e studiate da Urso durante gli anni del suo soggiorno a Varsavia.

Nella terza stanza
Untitled (dalla serieWelcome to the Jungle), 2017
La serie comprende tre collages di dimensioni 40 x 60 cm ciascuno. I lavori mirano a rappresentare il sistema dell’arte come “giungla”, nel quale l’artista è chiamato a districarsi, con particolare attenzione al luogo istituzionale, al museo, quale tempio artistico che simboleggia tutta la fame e il desiderio di successo di un giovane autore, rappresentandone la massima ambizione. Nei tre collages sono rappresentati rispettivamente Guggenheim (New York), National Gallery (Londra) e Maxxi (Roma), immersi in uno scenario naturale. Tutt’intorno sono presenti ritagli di persone estratte da foto raffiguranti il pubblico di un museo. L’idea è quella di riflettere, non senza ironia, sul ruolo dell’istituzione museale, sul suo fascino e sulla sua potenza seduttiva.

La camera (privata) di Testori
Attraversato il corridoio, si entra nella stanza di Testori da ragazzo. Una camera destinata a contenere le opere che la madre non avrebbe accettato in giro per la casa, tappezzata di dipinti frutto degli studi, del mercato e del collezionismo di Testori. I nudi accademici da Testori attribuiti a Géricault e Courbet, documentati da una serie di scatti di Giacomo Pozzi Bellini come quello esposto a parete, hanno ispirato l’opera di Andrea Mastrovito (1978) realizzata esclusivamente scolpendo il muro e facendo emergere gli strati di intonaco e pittura accumulati negli anni.

Non poteva esserci collocazione più pertinente per questo lavoro di Alex Urso, Musée de l’Oubli – Eight collages by Monsieur G.(2014), nato dal ritrovamento in un mercatino di Varsavia di questo nucleo di collage, firmati e datati 1979 da un misterioso artista francese, restaurate e incorniciate dall’artista. Una sorta di ready-made archeologico, conseguente all’incredibile scoperta di un antenato del collage e del rapporto necessario con l’arte del passato.

L’ultimo avvertimento
Nell’ultima stanza, conclude la mostra un’opera inedita (Don’t believe the hype, 2018), articolata in quattro diorami, posti sulle basi e alle pareti. Questa volta i piani prospettici sono affidati ad altrettante lastre di vetro, sovrapposte e scorrevoli a mutare gli assetti possibili. Ciascun teatrino è dedicato a un’opera di celebri artisti contemporanei (Wim Delvoy, Damien Hirst, Maurizio Cattelan e Katarzyna Kozera) esemplificativi non solo della loro poetica personale, ma anche del variegato mondo che inevitabilmente è chiamato a tesserne il contesto sociale, oltre che culturale. Urso ci mette in guardia, non dalle contaminazioni, così strutturali per il suo stesso lavoro, ma dall’accontentarsi di un mondo bidimensionale e di un approccio timido all’arte. Occorre sporcarsi le mani. Astenersi perditempo.

DORFLES – TESTORI. MATTI

A 40 anni dalla Legge “180”. Un omaggio a Franco Basaglia
A cura di Davide Dall’Ombra e Fabio Francione
Casa Testori
20 Maggio – 1 Luglio 2018

In occasione dei 40 anni di una delle più celebri leggi italiane, la “180” del 13 maggio 1978, nota anche come “Legge Basaglia” dal nome del suo creatore, Casa Testori ha reso omaggio a Franco Basaglia, personaggio che, per primo in Italia, decise con gesto contraddittoriamente intriso di senso civico e passione intellettuale di abbattere i cancelli e aprire le porte dei manicomi. 
Casa Testori, dando voce all’importante ricorrenza in modo inedito e traversale, ha inteso omaggiare sia la legge sia il suo fautore allestendo una mostra che, solo in apparenza, può sembrare lontana dall’epicentro della battaglia politico-istituzionale di allora, ma che in realtà cerca, attraverso il doppio confronto Gillo Dorfles – Giovanni Testori, di comprendere il pensiero basagliano e le ragioni che lo mossero a intraprendere una delle più grandi rivoluzioni del Novecento.
In tal senso, Dorfles – Testori. Matti. A 40 anni dalla Legge “180”. Un omaggio a Franco Basaglia, a cura di Fabio Francione e Davide Dall’Ombra, cortocircuita le generose utopie di Franco Basaglia utilizzando le esperienze di vita e di arte sia di Gillo Dorfles sia di Giovanni Testori, che, a distanza di circa un quarantennio l’uno dall’altro, volsero la loro attenzione alla follia, andando a dipingere uomini e donne che la malattia mentale aveva reso vulnerabili e sofferenti. 
Dorfles, negli anni della sua specializzazione in psichiatria alla fine degli anni Trenta, disegna e tratteggia la malattia mentale dopo aver subito il fascino diretto degli abitanti dei manicomi.
Testori, a seguito della perdita della madre, alla quale era profondamente legato, avvenuta nel 1977, rinnova il proprio modo di intere il teatro e dipinge Matterelle, lasciandosi influenzare da Gericault, dai Nuovi Selvaggi e da Varlin.
Dorfles e Testori, due artisti a loro modo “irregolari” (o interdisciplinari), hanno saputo sondare prima di altri l’esigenza di allargare a tutti il diritto di vivere una vita dignitosa e pienamente compresa nella società.

Il percorso espositivo era completato da una selezione di articoli sul rapporto arte e follia pubblicati da Gillo Dorfles sul Corriere della Sera tra il 1975 e il 2013 e da una ricognizione sui libri pubblicati da Franco Basaglia (da Cos’è la psichiatria L’istituzione negataMorire di classeCrimini di pace e tutti i maggiori libri).

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