Author: Associazione Giovanni Testori

Andrea Mastrovito, SETTE GIORNI

Stanza 21

L’opera che presenterò a Giorni Felici è un immediato rimando al titolo della mostra. Entrando in casa, ho avvertito una sensazione familiare. “Familiare” sia nell’accezione freudiana di opposto e, al contempo, sinonimo di “perturbante” (heimlich, ovvero “familiare” in tedesco, ha un secondo significato più letterale ovvero “tenuto in casa, nascosto”), sia nel suo significato più comune, di qualcosa vi già conosciuto, vissuto, come di un passato, recente e magari, appunto, sereno, “felice”. Il contrasto fra queste due sensazioni, simili ed opposte, mi ha condotto a concepire questo lavoro, Sette Giorni. “Sette Giorni” sono una settimana, l’emblema del ciclo della vita e della natura che inizia e finisce e ricomincia ininterrottamente, nascendo dalle proprie ceneri ogni volta. “Sette Giorni” è anche la frase che Samara Morgan, nel The Ring di Gore Verbinski, pronuncia sussurrando al telefono preannunciando la fine per sua mano. Anche lì si tratta di ciclo, di “anello”, appunto. E così ecco nascere questi sette collage neri. Quadri neri che fasciano la stanza portando ognuno il nome di uno dei giorni della settimana e dove i ricordi, i volti sereni del passato e del presente, scavati nel bianco della carta sottostante, si lasciano avvolgere e carezzare dal nero del futuro e dell’oblio.
Andrea Mastrovito

Una ricerca rivolta alla meraviglia, in realtà un’antenna inquieta sul mondo e il nostro bagaglio culturale, diluita secondo modalità e materiali fragili votati allo stupore percettivo. Sensibilità verso il contingente, il dato cartaceo e la luce quali strumenti ineffabili per evidenziare una pratica sempre concettuale: l’apposizione di lacerti colorati, la perizia certosina di assemblare frammenti che si svelano parti di un tutto nel piano compositivo d’insieme, in cui ogni dettaglio ricostruisce deontologicamente e fisicamente una nuova realtà, immaginifica ma non per questo meno vera. L’artista varca la soglia del dato bidimensionale, servendosene. L’esito è pittorico ma per suggestione e non certo per l’impiego di tela e pennello: vi è interesse alla parte procedurale, all’attivazione di una forma e alla costruzione della stessa secondo una logica semplice ma non facile, infantile nel rimando gioioso e bricoleur. L’Homo Ludens quale possibile risposta propedeutica alle nostre fratture esistenziali? Una prospettiva a volo d’uccello quella di Mastrovito, in moto perpetuo fra estrema perizia artigianale e l’attualizzazione di problematiche urgenti, sempre condotta secondo modalità lievi. Come afferma Derrida, filosofo prossimo alle istanze fin qui osservate, “Resta ancora da intaccare uno spazio che possa dar luogo alla verità in pittura. Né interno né esterno, questo spazio si allarga senza lasciarsi mai incorniciare, ma non sta mai fuori-quadro. […] Il tratto vi si attrae e si ritrae da sé, vi si attrae e vi fa a meno, da se stesso. Si situa.”
Andrea Bruciati

Andrea Mastrovito è nato a Bergamo nel 1978. Ora vive tra Bergamo e New York. Ha esposto la prima volta nel 2003 al The Flath di Milano. Ha tenuto tre mostre personali presso la Analix Forever di Ginevra nel 2005, nel 2007 e nel 2009. Nel 2006 e nel 2008 ha esposto alla Galleria 1000eventi e Antonio Colombo Arte Contemporanea di Milano, nel 2007 al Palais des Exposition di Bruxelles, nel 2008 alla Jerome Ladiray Gallery di Roue, al Dior Centre di Parigi e all’Italian Academy della Columbia University. La Foley Gallery di New York ha ospitato nel 2008 Black Bag – American Philosophy of Composition e nel 2009 Love is a four-letter word. Nello stesso anno ha tenuto le mostre Enciclopedia dei fiori da giardino all’ Assab One – Ex GEA di Milano, La Bonne Nouvelle al Centre d’Art Contemporain di Lacoux, e Climat Poetique all’Hotel de Ville di Ginevra. Ha partecipato alla II Biennale di Praga nel 2005 e alla 15a Quadriennale di Roma nel 2008. Nel 2005 ha esposto nella mostra Beauty is not difficult presso la Fondazione Stelline di Milano e trasferita poi a Berlino. Nel 2009 si è tenuta Italian Artists New York all’Istituto Italiano di Cultura di New York e, nello stesso spazio, ha realizzato nel 2010 l’istallazione Velocità  d’automobile + fiori. Il 5 giugno 2010 ha allestito The Island of Dr. Mastrovito in una stanza del Governor’s Island di New York.

Julia Krahn, MUTTER UND TOCHTER

Stanza 4

L’opera Mutter rappresenta una maternità senza figlio e nasce come minuscolo porta foto che si sviluppa sul lato opposto in un’affissione di 4 x 3 m. Nella veranda di Casa Testori Mutter und Tochter più che un’affissione è una carta da parati che ci guarda direttamente dal muro. Le due immagini sono appese nella veranda, che nella sua architettura rotonda ed ambigua, racchiude perfettamente il lavoro in un ciclo. Da una parte si accede alla zona della vita quotidiana; dall’altra invece all’esterno, al giardino. Le due grandi foto sono appese in mezzo al muro, una di fronte all’altra. Nella prima una ragazza porta in spalla sua madre. L’autoscatto, tenuto ancora in mano, guida il nostro sguardo verso una foto a terra che rappresenta la neonata tra le braccia della madre. Nella seconda la figlia si gira. L’autoscatto si è liberato dalla mano e si trova sotto il piede a contatto con il suolo. Nude, le due figure guardano avanti, poi dentro se stesse. I due corpi si fondono in un insieme di pezzi di carne. I loro piedi poggiano sul pavimento di legno di una casa vera, la carta da parati invece induce ad una messa in scena. E così la stanza ripete l’istallazione stessa, sottolineando il passaggio tra passato e presente.
Julia Krahn

Dal momento che il lavoro di Julia Krahn si interroga sulla permeabilità dello sguardo tra l’identità di artista e spettatore, esso ha costantemente a che vedere con la questione della memoria. Gli oggetti quotidiani, i simboli, le tracce del passato sono così, volta per volta, ridefiniti attraverso l’immagine fotografica. Ma più che il racconto dello scorrere del tempo o la costruzione di una storia, a Julia Krahn interessa cristallizzare, cioè trasformare da stato liquido a solido, i frammenti di un reale privato e segreto. Le opere di Julia si caratterizzano in questo senso per una fluidità ambigua: immagini esteticamente attraenti, in ultima istanza segnate da un contenuto pressoché ermetico […] Mutter è infatti un progetto in cui la drammaticità dell’immagine è in qualche modo intensificata dalla paura di dimenticare e perdere un contatto con il racconto scelto e costruito dall’artista. I corpi nudi, l’abbraccio tra madre e figlia, il riferimento a simbologie sacre manifestano non solo il tentativo di sopravvivenza, ma anche di risignificazione, dunque di rigenerazione, che è affidato alla pratica artistica.
Alessandro Castiglioni

Julia Krahn è nata ad Acquisgrana in Germania nel 1978 e nel 2000 si è trasferita a Milano abbandonando gli studi di medicina per dedicarsi esclusivamente alla fotografia. Dal 2001 ha iniziato a collaborare con la Galleria Magrorocca di Milano e a partire da quell’anno ha esposto in Italia e all’estero, in particolare in Spagna, Inghilterra e Germania. Nel 2001 ha tenuto la sua prima mostra personale dal titolo Intallation presso lo spazio Schoking di Milano. Nel 2004 ha partecipato al progetto Whant you Yokeandzoom, London -Tokyo e ha realizzato tre personali a Milano, tra cui eiapopaia_ninnananna alla Galleria Openmind. Nel 2007 si è tenuta la mostra The creation of Memory presso la Galleria Magrorocca e Denied Childhood al Museum Ludwigforum di Aachen. Nel 2008 si è qualificata seconda al Premio Arti Visive San Fedele di Milano e ha esposto tra i vincitori del Premio de Fotografia de CCM, 5th di Barcellona. Nello stesso anno è stata selezionata per la Biennale di Tehran ed è stata segnalata come miglior fotografa di bambini in Italia dalla Tau Visual. Nel 2009 ha esposto Engelstueck alla Galleria Magrorocca di Milano, ha partecipato a MACO Messico a Messico City e a PaxBank ad Aachen. Nel 2010 ha partecipato ad Art Scope a Basilea rappresentata dalla Galleria Magrorocca e nel 2012 ha presentato una personale presso lo studio Zircumflex di Berlino.

Pippa Bacca, BOULES DE BROUILLARD

Stanza 5

A Milano un tempo c’era tanta nebbia e dentro la nebbia si poteva giocare, lo dice anche la canzone (ma poi lei gridava e allora il gioco non era valido e forse bisognava rifare, forse no, non si capisce). Ora a Milano la nebbia non c’è quasi più, ma io, che non sono mica tanto giovane, me la ricordo bene e mi ricordo anche di tante persone che ho incontrato e che ogni tanto sono sbucate dalla nebbia di questa città portandone dentro di loro il senso. Ma non sono l’unica a ricordare, e voglio quindi dare una forma anche a quelle persone verissime, anche se forse inventate che ci racconta il Testori ne Il ponte della Ghisolfa. Non si tratta di un’illustrazione del libro, ma di un’interpretazione dei personaggi data da persone che oggi potrebbero essere la loro versione moderna. Così accostati i ritratti veri a quelli anche più veri, tratti del romanzo, sono tutti chiusi in barattoli, per conservarsi meglio, messi sotto grappa ed immersi nella nebbia.
Pippa Bacca

Uno dei problemi su cui l’uomo si è sempre arrovellato è quello dell’essere e dell’apparire di una cosa, reale o mentale, e del suo rapporto con la parola che la definisce: che cosa è vero e reale? Ciò che noi vediamo o un qualcosa che l’occhio non percepisce? Eraclito diceva che un fiume non è mai lo stesso perché l’acqua che scorre ne fa un’entità sempre diversa, eppure il “nome” è sempre lo stesso. Gli idealisti estremi affermavano che la realtà di una cosa è data dal pensiero che la pensa, salvo poi farsi male sbattendo, nel buio di una stanza, una gamba su una sedia che, non pensata, non esisteva! Gertrude Stein, la grande amica di Picasso, diceva che “una rosa è una rosa, una rosa, una rosa”. Ma non è vero, e Pippa ce lo dimostra, evidenziando quale complessità si cela dietro alle cose semplici e quante possibilità esistono per stabilire definizioni stabili la cui riduzione, il famoso rasoio di Occam, rischia di complicare ancor più le cose. E allora, un’arte apparentemente disinvolta, ironica, “leggera”, ci induce a riflessioni “alte” che oltrepassano il piacere dell’occhio e ci ricordano che l’uomo, se è tale, è stato fatto per “seguir virtute e conoscenza”.
Giorgio Bonomi

Pippa Bacca (1974- 2008)

Michael S. Lee, LA CITTÀ CHE NON C’È

Stanza 6

La mia opera d’arte digerisce l’idea della città in un tema. Il disegno è auto-generato, prendendo un momento della memoria e dall’immaginazione e producendo un sistema dalle esperienze. In questa maniera, io quantifico le interazioni di una serie di strutture in uno schema. Il lavoro non ha un obiettivo. Comincia da un balcone semplice o una struttura e si ripete, per ricostruirsi, e inventarsi. Io mi siedo con una penna in mano ed iscrivo i ricordi più commoventi, per poi creare un contesto dove loro possono proliferare. Io domando alla città come vuole crescere, come vuole funzionare, e come si vuole far mostrare. Il disegno è auto-generato. Come i frammenti di Venezia di Italo Calvino in Città Invisibili, queste costruzioni prendono un punto di interesse per elaborarlo verso l’esterno e verso l’interno. Verso l’esterno, come un dettaglio, che diventa un punto di partenza. Verso l’interno, come questi nuovi temi preparano il terreno per nuove interazioni umane negli ambienti insoliti. In questo modo io divento la mia memoria. Io vedo e immagino, e quindi vedo un’altra volta. Il palcoscenico è fatto per uno sviluppo tematico per lo spettatore. Io faccio un livello alto dei dettagli per un’esperienza intensa, però copro e taglio alcune parti delle formazioni. L’idea delle città supera il mezzo, gli spettatori possono interpretare e immaginare di continuare il lavoro attraverso la profondità del nero.
Michael S. Lee

La consapevolezza etica del valore del lavoro “artigianale” conferisce alla ricerca artistica di Michael S. Lee un’attenzione al dettaglio nella quale il fare e il pensare si integrano con pari dignità. Da un elemento minimo, scaturito dalla memoria, si auto-generano i suoi disegni di città, attraverso una sorta di scrittura automatica. L’elaborazione dell’elemento di partenza avviene contestualmente verso l’esterno e l’interno in una ricerca estetica e intellettuale che lo porta alla creazione di disegni complessi e installazioni.
Loris Schermi

Michael S. Lee è nato nel 1988 a New York dove frequenta il corso di architettura presso l’Università di Cornell. Ha lavorato in Sud America nell’estate del 2008 e ora vive a Brooklyn, alternando viaggi a Roma e a Seoul. Si è specializzato in disegno e istallazioni. Ha esposto a Palazzo Lazzaroni a Roma nel 2009, alla Festa dell’Architettura nel 2010 e nello stesso anno alla Galleria Hartell Gallery Ithaca di New York.

12. GIOVANNI VITALI, Rock’n roll High School

Stanza 12
Sì, va bene, ho capito, non ho studiato. Però dai, quel film era più bello che i vasi micenei. Cosa? Stavo dormendo? Sì  sono tornato tardi, ero al concerto, ma se lei mi è stata tutta notte su Facebook? E allora? E allora eccoci qui, anche a questo giro mi hanno mandato fuori dalla classe e mi hanno detto di stare fermo in corridoio. Ma perchè poi? Perchè ho giocato ai videogame anzichè fare i compiti? Oppure perchè ho mangiato un panino mentre c’era la spiegazione? Mmm…. quella scritta sul muro non possono sapere che l’ho fatta io, però ho lo stesso simbolo sul giubbotto… che siano così acuti? Ah, ecco il bidello, so che gli piacciono i miei stessi fumetti, così ci raccontiamo due storie. E poi gira la leggenda che da giovane cantasse in un gruppo. Vabbè adesso devo rientrare che c’è l’ora di diritto. Ma tanto sabato si va a Genova…
Giovanni Vitali

Nel 2009 la svolta, nel giorno in cui capisce che la bellezza non deve essere per forza nel quadro, ma nelle cose della vita. Cambia studio, vita e modo di dipingere. Cerca la bellezza in sè e disegna al computer visioni rabbiose e ironiche che poi stampa e colora su tela, quasi a ricreare il mondo pop del web, fatti di immagini senza profondità , nè gerarchia.
Marina Mojana

Giovanni Vitali è nato a Melzo in provincia di Milano nel 1981. Si è diplomato in pittura all’Accademia di Belle Arti di Brera e ora vive e lavora a Milano. Nel 2005 ha esposto al Castello Borromeo di Corneliano Bertario, nel 2006 al Centro Culturale di Milano e nello stesso anno a Trento presso lo Spazio 27. Nel 2008 ha esposto al Collegio Cairoli di Pavia e alla Galleria Obraz di Milano. Nel 2008 si è tenuta la mostra Disegnare Sui Muri presso la Fabbrica del Vapore di Milano.

J&PEG, LA NOTTE CADE SU DI NOI

Stanza 13

Una camera da letto, la stanza più segreta della casa, dove nemmeno l’ospite viene invitato ad entrare, diventa, nel percorso di questi quadri e di questa installazione, l’emblema di un mondo universale, nel quale si indaga sulla libertà e sul suo rapporto col potere. In questo ambiente l’uomo rimane solo con se stesso, finalmente libero da ogni imposizione esterna, abbandonato alla sua intimità, ma destinato comunque a soccombere davanti alle sue necessità fisiche e all’esigenza del riposo. L’essere umano, concepito con il limite del sonno, è qui già pronto ad evadere e a riscattarsi con l’immaginazione e la speranza del sogno. Una stanza, illuminata in modo da ricordare al visitatore le luci e le ombre della società contemporanea.
J&PEG

La coppia J&PEG si mette al lavoro con serena cleptomania e illustra atteggiamenti, posture, comportamenti e metamorfosi di figure che sembrano voler rappresentare un inedito teatro della vita. Pittura, scultura, fotografia ed istallazione si mettono al servizio di una messa in scena capace di spostare la contemplazione del pubblico fuori da un’esclusiva condizione di intelligenza diurna. Qui la scena invece amplifica gli spazi intermedi della fruizione estetica e determina la possibilità di affermare con Baudelaire che il Bello è sempre una promessa di felicità. Naturalmente qui il bello è volutamente costruito. Rinvia sempre ad un altrove reso possibile dalla riproduzione tecnologica, ma anche corretto dalla manualità artigianale. La convivenza dei diversi media tra loro permette una iconografia che vive ai confini tra enigma e senso esplicito. Qui l’arte sembra confermare un’inedita vocazione, quella di essere una sorta di Bocca della verità che non ci parla con sentenze ambigue e oscure, ma piuttosto illustra il bisogno dell’uomo di marcar i limiti psicologici e sociali. Per farlo J&PEG utilizza sul piano della comunicazione la famigliarità furtiva che proviene al gran pubblico dal cinema, la fotografia, il teatro e la virtualità dei giochi interattivi.
Achille Bonito Oliva

J&PEG sono Antonio Managò e Simone Zecubi; lavorano da sempre in coppia. Antonio è nato nel 1978 a Busto Arsizio e Simone nel 1979 a Gallarate. Entrambi si sono diplomati presso l’Accademia di Belle Arti di Brera: Antonio in Scultura e Simone in Scenografia. Vivono e lavorano a Milano. Nel 2006 e nel 2007 hanno esposto alla Galleria Obraz di Milano in occasione delle collettive Take Five Lo stato dell’arte. Nel 2007 e nel 2008 hanno partecipato ad Artfirst di Bologna e al Miart di Milano, nel 2008 ad Art Paris e a Roma – The road of contemporary Art. Nello stesso anno hanno tenuto la prima mostra personale Working Mates + Project Room. Ten second to midnight presso la Galleria Poggiali e Forconi di Firenze, presentati da Achille Bonito Oliva. Nel 2010 hanno partecipato all’evento (Con)Temporary Art presso Superstudiopiù di via Tortona a Milano, con una stanza dal titolo Natura Naturans.

Umberto Chiodi, STANZA DEI VARCHI

Stanza 7

31 Marzo 2010. L’asimmetria delle pareti, la pavimentazione originale in terracotta e la grande finestra che dà sul giardino interno danno all’ambiente un distacco temporale e una luce che mi rimandano ai silenzi dell’infanzia. Questa sala, che Testori adibì a biblioteca e che ora vedo inquietantemente vuota, mi sembra contenere un segreto, è come sospesa e velata. La stanza stessa mi sembra una soglia, un sipario da scostare. Mentre cammino credo di compiere una metaforica invasione nell’organismo, nell’interiorità e nell’anteriorità della casa. Maggio 2010. Ho pensato ad un grande sipario di velluto rosso fissato al muro, leggermente aperto per far intravedere la mancanza di un reale passaggio. Intorno sulla parete, come sospese in un dialogo fra bidimensione e tridimensione, disegno delle figure antropomorfe che rappresentano le tensioni di un disordine pulsionale. Le figure sono come sfingi ai lati di un teatrale varco illusorio. Al centro della composizione nelle opere su carta e nell’assemblaggio, il varco è uno stemma svuotato, privato del simbolo di un ordine politico-sociale o dal contrassegno di una Nobiltà. Una nobiltà intesa soprattutto come Bellezza ed elevatezza. La mancanza effettiva o illusoria di qualcosa di centrale all’interno dell’opera è un’esperienza del vuoto per l’osservatore. L’opera si nega, la visione indotta si nega. Quel varco – foglio bianco o reale sfondamento – equivale ad uno specchio, è il cuore della morte, trascende l’opera stessa.
Umberto Chiodi

L’infanzia come scenario, l’inconscio come orizzonte, assumono nell’opera di Chiodi una temperatura altamente drammatica perché servono all’artista per intavolare un discorso sul viscerale. La visceralità è un modo primario di affacciarsi sul mondo, un sistema di relazioni prerazionali, irrelate e non necessariamente motivate, a diretto contatto con l’immaginario e forte a sufficienza per costruire il discorso. Non necessarie, gratuite, le relazioni di senso che l’immaginario crea hanno a che fare col mondo dell’infanzia una volta assurta quest’ultima a emblema del disordine pulsionale contro l’ordine razionale. Dunque, emblema di uno scontro, di una contraddizione, di una tensione. L’immaginario si oppone, almeno nelle strategie estetiche, ai discorsi dell’ordine, e il lavoro recente di Umberto Chiodi assume l’infanzia facendola diventare da tema implicito intenzione, tensione, che sovrintende alla messa in forma dell’opera stessa.
Giorgio Verzotti

Umberto Chiodi è nato a Bentivoglio nel 1981. Vive e lavora a Milano. Ha esposto per la prima volta nel 2003 all’Accademia d’Arte di Bologna. Nel 2006 ha tenuto la personale dal titolo Asfodelo presso Studio d’Arte Cannaviello di Milano. Nel 2007 ha partecipato alle collettive Arte Italiana, 1968-2007 a Palazzo Reale di Milano, a Dopamine presso Studio d’Arte Cannaviello e ha realizzato la mostra Semplicitas, Duplicitas presso la Galleria Schultz Contemporary di Berlino. Nel 2008 la Galleria Nazionale di Belle Arti di Sofia gli ha dedicato la personale Umberto Chiodi. Nel 2009 si è tenuta Milano la mostra Superfetazione presso Studio d’Arte Cannaviello.

Yi Zhou, SPAZIO DI CONFINE

Stanza 2

I suoi lavori esplorano le radici dell’iperrealismo e del neo-realismo: da una parte trae forme visibili e tangibili dai sogni e dall’immaginazione, dall’altra prende alcuni aspetti surreali dalla natura stessa. Le sue opere rappresentano una complessa sintesi di immaginazione, letteratura, mitologia, filosofia e nuova tecnologia, impregnate di cultura cinese e mediterranea. Video, istallazioni, disegni, tutti i suoi lavori introducono la magia inquietante dei caratteri virtuali in paesaggi soprannaturali così come la realtà effimera della vita, dell’amore e della morte, attraverso il linguaggio simbolico dell’inconscio. Yi Zhou presenta una visione della vita che trascende da tempo e spazio, con ironia e leggerezza.
Carlotta Testori

Il mio lavoro è nato nell’epoca virtuale. Trascorriamo gran parte del nostro tempo al computer, al cellulare o davanti ad uno schermo. Sempre meno in relazione con il reale, con il fisico. Le mie opere sono situate in un punto in movimento nel tempo e nello spazio, dove passato e futuro si mescolano nel presente. Come creature, strutture con una vita parallela, dove tutto e niente è possibile senza il tempo, in uno spazio di confine e senza vincoli. Luoghi, paesaggi, scene, e creature che rappresento potrebbero apparire familiari a un primo sguardo. Ma immediatamente ci si domanda se queste cose sono già esistite o semplicemente generate al computer. Se si basano su riferimenti precedenti o puramente generati dall’immaginazione; se il lavoro potrebbe venire da tempi antichi o da futuristici mondi esterni, creazioni di un vertiginoso, inaspettato e inesperto sentimento. E alcuni pezzi scultorei ci fanno fuggire dal presente virtuale. Ma sono pochi, così noi continuiamo a vivere in un mondo nel quale troppa realtà, troppe cose fisiche potrebbero risvegliarci dal sogno del presente virtuale.
Yi Zhou

Yi Zhou è nata in Cina e ha vissuto a Roma dall’età di 10 anni. Ha studiato tra Londra e Parigi, si è diplomata in Scienze Politiche e ora vive tra Parigi e Shanghai. Nel 2002 ha tenuto la sua prima mostra personale Y Game al Noirmont Prospect di Parigi. Nel 2004 ha realizzato la performance Mountaintank al Deitch Projects di New York. Nel 2005 le sue opere sono state esposte alla Galerie Jerome de Noirmount di Parigi e nel 2006 ha realizzato il progetto Three Cantos, Prefiguration: Inferno, Purgatorio, Paradiso a Palazzo Vecchio di Firenze, con una performance in Piazza della Signoria. Nel 2007 ha tenuto la mostra Il passato è remoto anzi sarà sempre presente. Una scultura, un video, un anello alla Galleria Nicola Ricci di Petrasanta e nello stesso anno ha presentato il video Avatar al Festival Internazionale del Cinema di Venezia. Nel 2008 ha realizzato la mostra My Heart Laid Bare alla Ooi Botos Gallery di Hong Kong e Hear, Earth, Heart alla Galerie Jerome de Noirmount di Parigi. Nello stesso anno il video Paradise è stato selezionato per la competizione ufficiale al Sundance film Festival. Nel 2009 le sue opere sono state esposte a Basel Art Fair, a Basel Miami Art Fair e al SuZhou Trou Color Museum of Contemporary Art.

Davide Nido, CROMATOLOGIA CONCENTRICA

Stanza 22

Finalmente siamo a giugno. Con l’estate tutto appare splendente. I miei occhi sono lenti d’ingrandimento; luce, colori, fiori, profumi, cose, persone, amici, mi fanno stare bene. Questo progetto raccoglie tutte queste emozioni in una “semina e costellazione” di colore. Evviva!
Davide Nido

Nessun compiacimento, nessuna concessione all’abilità, nessuna rilassatezza. I nodi non sono quelli raffinatissimi e numerosi della seta, i toni non sono carezzevoli e selezionati, ma il risultato è efficace. E il lavoro di Nido è proprio all’insegna dell’efficacia. La questione da cui muove è semplice e definitiva: dato un numero esiguo di elementi, che consentono un calcolo combinatorio limitato, ottenere risultati che contrastino i successi dell’immagine digitale, tecnologica, pubblicitaria, splatter. Ancora: a partire dal minimo, in termini di materia prima, raggiungere il massimo, nel senso di impatto estetico ed emotivo. È una questione definitiva perché, dalla soluzione o meno, dipende il senso stesso dell’arte nell’epoca della riproducibilità e simulazione tecnica di ogni cosa, perfino della vita. L’opera di Nido è una speranza. Anche perché dipinge senza dipingere. Davide Nido spicca nel panorama contemporaneo per il suo isolamento, per l’unicità della ricerca. A voler catalogare il suo lavoro, si deve procedere necessariamente per esclusioni. Non è astrattismo classico […]perché l’interesse per il colore è secondario e conseguente rispetto a quello per la materia, perché il “corpo” dell’opera è troppo presente per lasciar spazio a un discorso sulla monocromia, sulla campitura, sulla sfumatura; non è informale […] perché non c’è mai il compiacimento della gestualità, e la costruzione è seriale e ordinata invece che libera e irruenta, anche quando sceglie di agire velocemente e sotto l’influsso della casualità; non è optical, dato che l’artista non vuole confondere le percezioni ma concentrarsi sulla texture dell’opera, e usa i fili intrecciati e le sbavature per inchiodare l’immagine al supporto, e non per creare un movimento perenne; non è nuova figurazione perché non prova la curiosità  per il corpo, e preferisce procedere nascondendo e cancellando la figura piuttosto che cercandola. L’artista usa sempre lo stesso elemento, la colla a caldo, sparata sulle tavole o sulle tele dalle apposite pistole termiche, per ripensare le conquiste formali della ricerca contemporanea, per sperimentare se siano compatibili o meno con l’utilizzo di una materia diversa, alternativa, industriale, futuribile. Non lo fa scientificamente, non si tratta di un’indagine propositiva e indirizzata. Agisce d’istinto, dove vede possibilità di movimento, spinto dal desiderio d’esplorazione, dalla voglia di sfidare un limite. Anzi, due: quello dello strumento, la colla, mai prima considerata medium espressivo, e quello della pittura. Perché Nido, paradossalmente, è un pittore, e di quelli più conservatori. Non usa l’olio, l’acrilico o la tempera, se non per i fondi, ma le sue ossessioni sono quelle di chi dipinge: conquistare spazio, simulare un volume, creare uno spessore, interpretare un colore, condensare un racconto in un’immagine, in un flash.
Maurizio Sciaccaluga

Davide Nido (Milano, 1966 – 2014). Nel 1993 ha tenuto la sua prima personale alla Galleria Eos di Milano. Nel 1994 ha esposto alla Mellauer Werkstatt Gallerie di Vienna, nel 1995 e nel 1998 a Genova: alla Galleria Leopardi V Idea e alla Galleria Andrea Ciani. Nel 2001 gli sono state dedicate tre mostre personali: Sognareallo Spazio Obraz di Milano, Folle in una notte di Primavera (con Federico Guida) alla Galleria Roberta Lietti di Como e Roarangiaroncelindavio alla galleria Paolo Majorana di Brescia. Nel 2003 ha esposto nel Palazzo del Broletto di Como, nel 2004 alla Galleria Bonelli Arte Contemporanea di Mantova e nel 2005 alla Galleria Carloni Spazioarte di Francoforte. Nel 2006 ha tenuto una personale alla Galleria Blu di Milano e alla Galleria Bonanno Arte Contemporanea di Trento. Nel 2007 la Galleria Gianna Sistu di Parigi ha ospitato la mostra Davide Nido e nel 2008 la Galleria Bonelli Arte Contemporanea di Los Angeles ha presentato Spider Man. Ha esposto al Palazzo Reale di Milano nel 2007, al Palazzo delle Esposizioni di Roma nel 2008. Nel 2009 ha partecipato alla 53a edizione della Biennale di Venezia esponendo tre opere nel Padiglione Italia. Nel 2009 si è tenuta Davide Nido – Onda Frattale alla Galleria Roberta Lietti di Como e A Campus Point al Politecnico di Lecco.

Sergio Fermariello, GUARDIANI DEL SOGNO

Giardino

L’installazione è composta da una serie di strutture d’acciaio marino, ruote deformate a guisa di palette di fico d’India, che si contrappongono ad una struttura portante realizzata in acciaio corten, a rappresentare il tronco della pianta stessa del fico. Il tronco a sua volta è formato da una serie di maschere dai tratti deformati. L’impressione che si presenta alla vista dell’osservatore è molteplice: di volta in volta si osservano le ruote nel loro impossibile movimento, costrette nei loro telai irregolari, a guisa d’orecchie d’asino, oppure risaltano alla vista le maschere rugginose, ed infine nel complesso, si osserva l’intera struttura vegetale della pianta. Caratteristica della pianta del fico d’India è quella di potersi riprodurre non solo per via sessuale ma anche per gemmazione, ossia di potersi moltiplicare per semplice divisione spontanea, tramite le foglie, per clonazione delle sue stesse cellule. E così, come il mio lavoro è sempre stato una ricerca sulla moltiplicazione spasmodica ed ossessiva dell’identico, così ritrovo nel modo di riprodursi della pianta del fico d’India il simile meccanismo parossistico e persecutorio che contraddistingue i miei lavori. L’opera sembra ricordarci come, da una parte le ruote della storia si siano fermate, non girino più, essendo esaurito lo spazio che le possa contenere, e come ognuno di noi, come criceto nella ruota, s’inventi di volta in volta, nel destino della propria pratica di esistere, una traiettoria più o meno circolare che trattenga la propria inerzia e, d’altra parte constatiamo come la pianta continui nonostante tutto a crescere, a riprodursi moltiplicando le sue foglie, questa volta per scollamento, nell’orizzonte globalizzato di tutti i sistemi metastatici, dove tutto si riproduce senza ordine e freno. La radice brunita del tronco, coagulata nella smorfia di tanti ancestrali antenati, come tante maglie di una catena spezzata, resiste nello sforzo di reggere il peso del senso e si dispone a monito e a guardiano della nostra già avvenuta sparizione.
Sergio Fermariello

Nelle mani dell’artista simboli e ideogrammi s’infittiscono e moltiplicano fino a sembrare un brulicante formicaio di concetti e di rimandi, s’ingigantiscono fino a farsi memento mori per un intero popolo, s’incidono e stampano nel metallo più duro fino a diventare imponenti come vessilli, e sempre sottintendono la capacità di catturare, convincere, trasportare. Ma convincere di cosa? Trasportare verso dove? Non è chiaro, perché l’autore ha fatto dell’ambiguità – tra fondo e primo piano, tra tela e rilievo, tra ombreggiatura e ombra, tra senso storico dell’immagine e nuove possibili interpretazioni – un suo cavallo di battaglia, ma risulta comunque evidente che ciò che conta per lui, più del messaggio, più della comprensione, è il veicolo del senso. Quasi che la scrittura non fosse un mezzo ma un fine, quasi che icone e segni non dovessero essere interpretati ma potessero vivere di vita propria. Quasi che, sulle tele, nelle sculture e nelle installazioni, non si dovesse trovare un racconto riassunto e tramandato da una serie di simboli ma piuttosto grafie e disegni che, di volta in volta, inscenano una storia diversa, tutta ancora da vedere e raccontare.
Maurizio Sciaccaluga

Sergio Fermaniello è nato a Napoli nel 1961. Nel 1989 ha esposto per la prima volta alla Galleria Lucio Amelio di Napoli, con la quale ha intrapreso una lunga collaborazione. Nello stesso anno ha ottenuto il Premio Internazionale Saatchi & Saatchi per giovani artisti al Palazzo delle Stelline di Milano. Nel 1990 ha esposto alla Galleria Il Capricorno di Venezia e nel 1992 alla Galerie Yvon Lambert di Parigi. Ha partecipato ad alcuni appuntamenti internazionali quali la mostra Metropolis alla International Kunstausstellung di Berlino e la mostra Les pictographes al Musèe de l’Abbaye Sainte-Croix di Les Sables-d’Olonne nel 1991. Nel 1993 ha partecipato alla 45a edizione della Biennale di Venezia con una sala personale nel Padiglione Italia. Nel 1995 ha esposto Opus Alchemico alla Galleria In Arco di Torino, nel 1996 ContemporaneaComo 2 a Villa Olmo a Como e Homo necans alla Galleria Lucio Amelio di Napoli. Nel 1997 si è tenuta la mostra Sergio Fermariello. Lavori 1990-1997 presso l’Istituto Italiano di Cultura di Colonia e nel 1999 ha realizzato l’istallazione Avviso ai Naviganti a Castel dell’Ovo di Napoli. Nello stesso anno ha esposto alla Galleria Jan Wagner di Berlino, nel 2000 alla Galleria Ronchini di Terni e alla Galleria Scognamiglio & Teano di Napoli. Nel 2004 gli è stata dedicata una retrospettiva a Castel Sant’Elmo a Napoli e nel 2005 ha realizzato un’istallazione nella darsena “pier17” a New York. Nello stesso anno ha tenuto una personale alla Galleria Scognamiglio di Napoli e alla Galleria Ronchino Arte Contemporanea di Terni, nel 2006 alla Galleria Buonanno di Milano e alla Galleria Erica Fiorentini di Roma; nel 2007 alla Galleria Fioretto di Padova e nel 2008 alla Galleria Ronchino di Terni. Nel 2009 gli sono state dedicate due personali al MAC di Niteroi in Brasile e al PAN di Napoli.

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