Author: Associazione Giovanni Testori

Gianni Dessì, TRE PER TE (A GIOVANNI)

Stanza 9

Oggi il luogo dell’arte, la sua immagine, è qualcosa che bisogna strappare con i denti.
Gianni Dessì

Non c’è mai l’improvvisato, ma sempre un tempo di deposito dell’esperienza, una ricerca un po’ zen del luogo mentale più disponibile al formarsi e al permanere dell’immagine. […] Un mondo, il suo, sempre alla ricerca di un punto di equilibrio, di una messa a fuoco, da raggiungere a partire dal caos degli elementi, dalla dispersione dei segni: che è uno stato dell’essere dove gli argomenti individuali trovano perfetta concordanza con quelli di una generazione chiamata, storicamente, a ridare forma ai concetti e corpo alle forme.
Federico De Melis

Armin Linke, CHIESA DI VETRO

Stanza 10

Fotografate una cosa e poi fotografatela nuovamente facendo qualche passo indietro, così potrete scoprire se il suo contesto può farci capire qualcosa in più di quella cosa.
Armin Linke

Nelle sue perlustrazioni globali Armin Linke è stato calamitato dall’architettura di luce della Chiesa di vetro di Baranzate. La parrocchia di Nostra Signora della Misericordia venne progettata da Angelo Mangiarotti e da Bruno Morassutti nel 1957, ma grande importanza ebbero i calcoli strutturali di Bruno Favini che permisero di realizzare una struttura completamente libera nel suo perimetro. Un capannone industriale virato a edificio sacro. La chiesa fece allora l’effetto di un satellite uscito da un film di fantascienza ad anticipare i tempi. La chiesa faceva cadere le cesure rispetto al mondo. La fatica del tempo segna quelle strutture fatte solo di luce e bisognose di restauri. La vita concreta le ha ormai felicemente metabolizzate. Linke coglie questa transizione avvenuta. Un senso di attesa pacificata pervade le immagini, come se il tempo invece di consumarlo desse sempre più corpo a questo spazio.
Giuseppe Frangi

Armin Linke è nato nel 1966 a Milano, vive e lavora a Berlino.

Alessandro Verdi, CAREZZE

Stanza 11

Il rosa è un colore che mi appartiene da sempre. È il colore della tenerezza che si contrappone ai colori della brutalità. Il mio lavoro si muove sempre tra questi due poli: la delicatezza e la violenza. Ma mentre la violenza l’ho sentita subito come una mia cifra espressiva, la delicatezza è invece affiorata con la maturità. Anche da giovane avvertivo che il rosa era un colore che mi apparteneva profondamente, ma in quegli anni quando mi capitava di usarlo alla fine distruggevo sempre i lavori, perché sentivo di non essere ancora pronto. Non mi sembrava di avere la sufficiente lucidità per usarlo. Oggi invece lo sento come un modo compiuto di lavorare sul corpo.
Alessandro Verdi

I suoi lavori squarciano il velo sul palpito della vita e sugli abissi della disperazione, fanno affiorare le tracce di una memoria lontanissima, archetipica e trasversale alle generazioni, registrano i sussulti della carne il suo fiorire, il suo degenerare, ascoltano il mormorio del ciclo della natura e partecipano al potente spettacolo dell’universo, tra la perdita del Paradiso e il riconoscimento dell’umano.
Gianluca Ranzi

Alessandro Verdi è nato nel 1960 a Bergamo dove vive e lavora. È stato scoperto da Giovanni Testori che ha curato il catalogo della sua prima mostra personale nel 1987 alla Galleria Compagnia del Disegno di Milano, dov’è tornato a esporre nel 1999 e nel 2005. Ha esposto nel 1993 alla Galleria Bellinzona di Milano, nel 1998 alla Galerie der KVD di Dachau e alla Casa dei Carraresi di Treviso, nel 2000 all’Art’s Events Centro d’Arte Contemporanea di Torrecuso, nel 2001 alla Fondazione Mudina di Milano, nel 2003 a Villa Pomini di Castellana, nel 2004 all’Officina arte di Magliaro, nel 2005 e nel 2007 alla Mudimadrie Galerie Gianluca Ranzi di Anversa. Nel 2008 sono state realizzate le mostre Alessandro Verdi. Il Paradiso Perduto alla Galleria dell’Artistico di Treviso e Alessandro Verdi. Corpo senza Corpo alla Galleria Blu di Milano che attualmente lo rappresenta. Nel 2009 ha partecipato alla 53a edizione della Biennale di Venezia con la mostra Alessandro Verdi: navigare l’incertezza che si è tenuta presso Campo della Tana.

Arianna Scommegna, …ÀS

Stanza 16

Per una nata e cresciuta a Milano come me, Testori è quello che ho assaporato fin da bambina. Il suo è un meraviglioso dialetto, un brianzolo misto a latino, francesismi, onomatopee, una lingua che è corpo, terra, profumi. Tridimensionale, non piatta come l’italiano della dizione perfetta.
Arianna Scommegna

Sconvolgente dichiarazione d’amore, di morte e di vita “Cleopatras”, è uno dei “Tre Lai” i lamenti per l’amato ucciso, scritti da Giovanni Testori negli ultimi mesi di vita. È il pianto della regina d’Egitto, qui con la lombarda desinenza «as» segno dialettale di enormità, disprezzo ed equivalente al nome in dialetto di Asso in quella Brianza cara all’autore, per il suo «Gran Tugnàs», Antonio. Una donna che si esprime in quella lingua testoriana più che mai estrema, artificiale, nata da più lingue, vive e morte, da dialetti, da varianti fonetiche, impervia, oscura ma paradossalmente «naturale» e «chiara» nell’evocare la violenza delle passioni. Guidata dalla regia attenta di Gigi Dall’Aglio la bravissima Arianna Scommegna ben riesce a dare voce a questa lingua materica e alle emozioni che la pervadono, a renderla carne e sangue, e sul suo bianco costume con colori blu, verde, rosso disegnerà il luogo geografico in cui Testori la fa vivere.
Magda Poli

Arianna Scommegna è nata nel 1973 a Milano, dove vive e lavora. Si è diplomata alla Civica Scuola Arte Drammatica “Paolo Grassi” nel 1996 e nello stesso anno ha fondato, con un gruppo di compagni di accademia, l’Associazione teatrale indipendente A.T.I.R. con la quale realizza la sua attività teatrale organizzando spettacoli, laboratori, festival. Il nucleo stabile e continuativo dell’Associazione è composto da quattordici persone tra attori, regista, scenografa, costumista, organizzatrice e staff tecnico. La direzione artistica è di Serena Sinigaglia. L’associazione gestisce dal 2007 il teatro Ringhiera, uno spazio nella periferia Sud di Milano, al Gratosoglio. Tra le tante produzioni che l’hanno vista coinvolta, spiccano i tre monologhi interpretati nell’ultima stagione: Qui città di M di Piero Colaprico, La Molli (divertimento alle spalle di Joyce) e Cleopatràs di Giovanni Testori. Il 5 giugno 2010 l’Associazione Nazionale dei critici di teatro le ha assegnato il Premio Critica.

Mario Dellavedova, QUASI PURO ESERCIZIO FORMALE

Stanza 19

Per Giorni Felici si è scelto di entrare subito nei dettagli: tele che si richiamano a motivi tradizionali del sud ovest messicano tinte naturalmente e tessute su telai a mano… Che fanno da sfondo a scritte al neon (luminosità glacialmente calda)… Del genere aporie… Testi di canzoni… Frasi fatte poliglotte. Come “refined roughness” (rugosità raffinata). Una congiunzione o coniugazione tra regionale, locale, ancestrale e modernità globalizzata… Come “quasi-puro esercizio formale”.
Mario Dellavedova

Lo stile dell’artista non è facilmente identificabile, dal momento che questo è intenzionalmente “decostruito” a favore di plurime e costruttive chiavi di lettura. Le sue opere, che spaziano in diversi campi, giungono alla pittura, alla scultura, alle installazioni, ma anche ad altri mezzi, rifacendosi ad oggetti, materiali e linguaggi provenienti dalle culture passate e contemporanee. Questi elementi vengono scomposti e ricomposti azzerati e rielaborati in modo che acquistino un senso logico o una semplice e palese giustificazione a prima vista non così evidente, soprattutto se accomunati tra loro e non accumulati. La parola scritta, spesso utilizzata dall’artista, è tolta dal suo ambito culturale per essere formalizzata attraverso oggetti improbabili ma che allo stesso tempo ne caratterizzano lo stato, proponendo allo spettatore una riflessione sul ruolo dell’artista e sul linguaggio dell’arte eludendone i privilegi. Il gioco di parole, la metafora, l’ironia sottile riportano ad un ambito concettuale che di proposito contrasta con l’aspetto a volte artigianale dei manufatti prodotti o utilizzati e con la semplicità del metterli assieme.
Carlotta Testori

Mario Dellavedova è nato a Legnano nel 1958. Si è laureato in architettura e ora vive tra Taxco in Messico e Villastanza, in provincia di Milano. Le sue opere sono state esposte in molti musei e gallerie in Italia e all’estero: in Giappone, Stati Uniti, Cina, Messico Germania, Austria e Spagna. Ha tenuto la sua prima mostra personale nel 1984 alla Rocca d’Angera. Nel 1987 ha esposto allo studio Corrado Levi di Milano e alla Guido Carbone Gallery di Torino, nel 1987 a Le Case d’Arte Gallery di Cologne e nel 1990 a Le Case d’Arte di Milano, nel 1991 alla Galleria in Arco di Torino, nel 1992 e nel 1995 alla Sperone Gallery di Roma e nel 1993 nella sede newyorkese della stessa galleria. Nel 1996 ha tenuto una mostra alla Stadtpark Gallery di Krems, nel 1997 alla Galleria 1000eventi di Milano e nel 2000 la Galleria Mazzoli di Modena ha ospitato due sue personali. Nello stesso anno ha tenuto una personale al Museo de las Artes di Guadalajara in Messico, nel 2003 si è svolta la mostra And all that remains is founded by poets alla Sperone – Westwater Gallery di New York e nel 2004 Domestic lights, domestic flights, domestic delights alla Galleria Sprovieri di Londra. Nel 2009 alcuni dei suoi ultimi lavori sono stati presentati alla Galleria Mazzoli di Modena in occasione della mostra ABCD…Benvenuto, Chucchi, Dellavedova.

Youssef Nabil, INCANTESIMI

Stanza 14

A me i vecchi film egiziani piacciono perché mi ricordano com’era l’Egitto allora e mi fanno riflettere su ciò che è diventato oggi. E mi diverto a leggere i titoli di coda tanto quanto a vedere il film! Da quelli si capisce che mescolanza di nazionalità e religioni esisteva in Egitto. Sono la dimostrazione della ricchezza culturale del paese in quell’epoca, la gente si amava di più. Si leggeva il nome di un musulmano accanto a quello di un ebreo, un greco accanto a un armeno. La nostra società era molto ricca e più tollerante.
Youssef Nabil

La sua base di partenza è un territorio di grande storia, una storia perduta di cui restano tracce grandiose, quella degli antichi Egizi, e una storia, quella islamica, che sollecita un modello differente da quello, ormai vincente, dell’Occidente: un contesto alla fine marginale rispetto al Grande Mondo, ma centrale nel proprio ambito geo politico, cosmopolita nella propria molteplicità razziale religiosa e culturale, ombreggiata da nuance orientalistiche quanto mai seducenti. La fascinazione del cinema, come quella delle grandi mitologie del nostro tempo, lo stardom, il glamour, come la credenza nel potere perpetuante dell’immagine, producono nella sua arte quel senso di nostalgia per quel tipo di mondo e di esistenza che sembra vertiginosamente allontanarsi nello spazio e nel tempo, fino al punto di apparire di non essere mai stato e di non poter essere. L’esperienza si converte nella sua arte in vagheggiamento desiderante, in sogno arabescato, in memoria destinata a sbiadirsi nel tempo. Proprio la memoria appare allora come tratto fondamentale di tutto il suo lavoro, una memoria che sembra funzionare come quei vetri colorati che filtrano la luce dalle finestre o dalle lampade nelle moschee e tinteggiano i loro interni di un’irrealtà fantasmagorica.
Pier Luigi Tazzi

Youssef Nabil è nato al Cairo nel 1972, da padre cristiano greco-libanese e madre di famiglia musulmana. Da cristiano si è convertito all’Islam all’età di trent’anni. Ha studiato Letteratura Francese alla Ain Shams University, ma la grande passione per il cinema lo ha spinto giovanissimo alla fotografia. Tra il 1993 e il 1994 ha lavorato con David La Chapelle a New York e tra il 1997 e il 1998 con Mario Testino a Parigi. Nel 2003 ha lasciato il Cairo per Parigi e attualmente vive e lavora a New York. Le sue opere sono state esposte in molti musei e gallerie: tra le sedi più note vanno ricordati il British Museum di Londra, il Centro de la Imagen di Città  del Messico, il North Carolina Museum of Art, il Baltic Centre for Contemporary Art di Newcastle, la Galleria Leme di San Paolo del Brasile, la FotoFest di Houston in Texas, il Centre de Cultura Contemporanea di Barcellona, l’Istitut du Monde Arabe di Parigi, il Kunstmuseum di Bonn, il Centro Andaluz de Arte Contemporaneo di Siviglia, l’Aperture Foundation di New York e la 53a Biennale di Venezia. Ha tenuto tre mostre personali al Cairo nel 1999, 2001 e 2005. Nel 2005 e 2007 ha realizzato due mostre alla Third Line Gallery di Dubai. Nel 2007 e nel 2008 ha esposto alla Michael Stevenson Gallery di Cape Town in Sud Africa. Nel 2009 ha realizzato cinque mostre personali: a Roma a Villa Medici, a Firenze alla Galleria Poggiali e Forconi, a Berlino presso la Volker Diehl Gallery, a Dubai alla The Third Line Gallery e ad Atlanta al Savannah College of Art and Design.

Andrea Mastrovito, SETTE GIORNI

Stanza 21

L’opera che presenterò a Giorni Felici è un immediato rimando al titolo della mostra. Entrando in casa, ho avvertito una sensazione familiare. “Familiare” sia nell’accezione freudiana di opposto e, al contempo, sinonimo di “perturbante” (heimlich, ovvero “familiare” in tedesco, ha un secondo significato più letterale ovvero “tenuto in casa, nascosto”), sia nel suo significato più comune, di qualcosa vi già conosciuto, vissuto, come di un passato, recente e magari, appunto, sereno, “felice”. Il contrasto fra queste due sensazioni, simili ed opposte, mi ha condotto a concepire questo lavoro, Sette Giorni. “Sette Giorni” sono una settimana, l’emblema del ciclo della vita e della natura che inizia e finisce e ricomincia ininterrottamente, nascendo dalle proprie ceneri ogni volta. “Sette Giorni” è anche la frase che Samara Morgan, nel The Ring di Gore Verbinski, pronuncia sussurrando al telefono preannunciando la fine per sua mano. Anche lì si tratta di ciclo, di “anello”, appunto. E così ecco nascere questi sette collage neri. Quadri neri che fasciano la stanza portando ognuno il nome di uno dei giorni della settimana e dove i ricordi, i volti sereni del passato e del presente, scavati nel bianco della carta sottostante, si lasciano avvolgere e carezzare dal nero del futuro e dell’oblio.
Andrea Mastrovito

Una ricerca rivolta alla meraviglia, in realtà un’antenna inquieta sul mondo e il nostro bagaglio culturale, diluita secondo modalità e materiali fragili votati allo stupore percettivo. Sensibilità verso il contingente, il dato cartaceo e la luce quali strumenti ineffabili per evidenziare una pratica sempre concettuale: l’apposizione di lacerti colorati, la perizia certosina di assemblare frammenti che si svelano parti di un tutto nel piano compositivo d’insieme, in cui ogni dettaglio ricostruisce deontologicamente e fisicamente una nuova realtà, immaginifica ma non per questo meno vera. L’artista varca la soglia del dato bidimensionale, servendosene. L’esito è pittorico ma per suggestione e non certo per l’impiego di tela e pennello: vi è interesse alla parte procedurale, all’attivazione di una forma e alla costruzione della stessa secondo una logica semplice ma non facile, infantile nel rimando gioioso e bricoleur. L’Homo Ludens quale possibile risposta propedeutica alle nostre fratture esistenziali? Una prospettiva a volo d’uccello quella di Mastrovito, in moto perpetuo fra estrema perizia artigianale e l’attualizzazione di problematiche urgenti, sempre condotta secondo modalità lievi. Come afferma Derrida, filosofo prossimo alle istanze fin qui osservate, “Resta ancora da intaccare uno spazio che possa dar luogo alla verità in pittura. Né interno né esterno, questo spazio si allarga senza lasciarsi mai incorniciare, ma non sta mai fuori-quadro. […] Il tratto vi si attrae e si ritrae da sé, vi si attrae e vi fa a meno, da se stesso. Si situa.”
Andrea Bruciati

Andrea Mastrovito è nato a Bergamo nel 1978. Ora vive tra Bergamo e New York. Ha esposto la prima volta nel 2003 al The Flath di Milano. Ha tenuto tre mostre personali presso la Analix Forever di Ginevra nel 2005, nel 2007 e nel 2009. Nel 2006 e nel 2008 ha esposto alla Galleria 1000eventi e Antonio Colombo Arte Contemporanea di Milano, nel 2007 al Palais des Exposition di Bruxelles, nel 2008 alla Jerome Ladiray Gallery di Roue, al Dior Centre di Parigi e all’Italian Academy della Columbia University. La Foley Gallery di New York ha ospitato nel 2008 Black Bag – American Philosophy of Composition e nel 2009 Love is a four-letter word. Nello stesso anno ha tenuto le mostre Enciclopedia dei fiori da giardino all’ Assab One – Ex GEA di Milano, La Bonne Nouvelle al Centre d’Art Contemporain di Lacoux, e Climat Poetique all’Hotel de Ville di Ginevra. Ha partecipato alla II Biennale di Praga nel 2005 e alla 15a Quadriennale di Roma nel 2008. Nel 2005 ha esposto nella mostra Beauty is not difficult presso la Fondazione Stelline di Milano e trasferita poi a Berlino. Nel 2009 si è tenuta Italian Artists New York all’Istituto Italiano di Cultura di New York e, nello stesso spazio, ha realizzato nel 2010 l’istallazione Velocità  d’automobile + fiori. Il 5 giugno 2010 ha allestito The Island of Dr. Mastrovito in una stanza del Governor’s Island di New York.

Julia Krahn, MUTTER UND TOCHTER

Stanza 4

L’opera Mutter rappresenta una maternità senza figlio e nasce come minuscolo porta foto che si sviluppa sul lato opposto in un’affissione di 4 x 3 m. Nella veranda di Casa Testori Mutter und Tochter più che un’affissione è una carta da parati che ci guarda direttamente dal muro. Le due immagini sono appese nella veranda, che nella sua architettura rotonda ed ambigua, racchiude perfettamente il lavoro in un ciclo. Da una parte si accede alla zona della vita quotidiana; dall’altra invece all’esterno, al giardino. Le due grandi foto sono appese in mezzo al muro, una di fronte all’altra. Nella prima una ragazza porta in spalla sua madre. L’autoscatto, tenuto ancora in mano, guida il nostro sguardo verso una foto a terra che rappresenta la neonata tra le braccia della madre. Nella seconda la figlia si gira. L’autoscatto si è liberato dalla mano e si trova sotto il piede a contatto con il suolo. Nude, le due figure guardano avanti, poi dentro se stesse. I due corpi si fondono in un insieme di pezzi di carne. I loro piedi poggiano sul pavimento di legno di una casa vera, la carta da parati invece induce ad una messa in scena. E così la stanza ripete l’istallazione stessa, sottolineando il passaggio tra passato e presente.
Julia Krahn

Dal momento che il lavoro di Julia Krahn si interroga sulla permeabilità dello sguardo tra l’identità di artista e spettatore, esso ha costantemente a che vedere con la questione della memoria. Gli oggetti quotidiani, i simboli, le tracce del passato sono così, volta per volta, ridefiniti attraverso l’immagine fotografica. Ma più che il racconto dello scorrere del tempo o la costruzione di una storia, a Julia Krahn interessa cristallizzare, cioè trasformare da stato liquido a solido, i frammenti di un reale privato e segreto. Le opere di Julia si caratterizzano in questo senso per una fluidità ambigua: immagini esteticamente attraenti, in ultima istanza segnate da un contenuto pressoché ermetico […] Mutter è infatti un progetto in cui la drammaticità dell’immagine è in qualche modo intensificata dalla paura di dimenticare e perdere un contatto con il racconto scelto e costruito dall’artista. I corpi nudi, l’abbraccio tra madre e figlia, il riferimento a simbologie sacre manifestano non solo il tentativo di sopravvivenza, ma anche di risignificazione, dunque di rigenerazione, che è affidato alla pratica artistica.
Alessandro Castiglioni

Julia Krahn è nata ad Acquisgrana in Germania nel 1978 e nel 2000 si è trasferita a Milano abbandonando gli studi di medicina per dedicarsi esclusivamente alla fotografia. Dal 2001 ha iniziato a collaborare con la Galleria Magrorocca di Milano e a partire da quell’anno ha esposto in Italia e all’estero, in particolare in Spagna, Inghilterra e Germania. Nel 2001 ha tenuto la sua prima mostra personale dal titolo Intallation presso lo spazio Schoking di Milano. Nel 2004 ha partecipato al progetto Whant you Yokeandzoom, London -Tokyo e ha realizzato tre personali a Milano, tra cui eiapopaia_ninnananna alla Galleria Openmind. Nel 2007 si è tenuta la mostra The creation of Memory presso la Galleria Magrorocca e Denied Childhood al Museum Ludwigforum di Aachen. Nel 2008 si è qualificata seconda al Premio Arti Visive San Fedele di Milano e ha esposto tra i vincitori del Premio de Fotografia de CCM, 5th di Barcellona. Nello stesso anno è stata selezionata per la Biennale di Tehran ed è stata segnalata come miglior fotografa di bambini in Italia dalla Tau Visual. Nel 2009 ha esposto Engelstueck alla Galleria Magrorocca di Milano, ha partecipato a MACO Messico a Messico City e a PaxBank ad Aachen. Nel 2010 ha partecipato ad Art Scope a Basilea rappresentata dalla Galleria Magrorocca e nel 2012 ha presentato una personale presso lo studio Zircumflex di Berlino.

Pippa Bacca, BOULES DE BROUILLARD

Stanza 5

A Milano un tempo c’era tanta nebbia e dentro la nebbia si poteva giocare, lo dice anche la canzone (ma poi lei gridava e allora il gioco non era valido e forse bisognava rifare, forse no, non si capisce). Ora a Milano la nebbia non c’è quasi più, ma io, che non sono mica tanto giovane, me la ricordo bene e mi ricordo anche di tante persone che ho incontrato e che ogni tanto sono sbucate dalla nebbia di questa città portandone dentro di loro il senso. Ma non sono l’unica a ricordare, e voglio quindi dare una forma anche a quelle persone verissime, anche se forse inventate che ci racconta il Testori ne Il ponte della Ghisolfa. Non si tratta di un’illustrazione del libro, ma di un’interpretazione dei personaggi data da persone che oggi potrebbero essere la loro versione moderna. Così accostati i ritratti veri a quelli anche più veri, tratti del romanzo, sono tutti chiusi in barattoli, per conservarsi meglio, messi sotto grappa ed immersi nella nebbia.
Pippa Bacca

Uno dei problemi su cui l’uomo si è sempre arrovellato è quello dell’essere e dell’apparire di una cosa, reale o mentale, e del suo rapporto con la parola che la definisce: che cosa è vero e reale? Ciò che noi vediamo o un qualcosa che l’occhio non percepisce? Eraclito diceva che un fiume non è mai lo stesso perché l’acqua che scorre ne fa un’entità sempre diversa, eppure il “nome” è sempre lo stesso. Gli idealisti estremi affermavano che la realtà di una cosa è data dal pensiero che la pensa, salvo poi farsi male sbattendo, nel buio di una stanza, una gamba su una sedia che, non pensata, non esisteva! Gertrude Stein, la grande amica di Picasso, diceva che “una rosa è una rosa, una rosa, una rosa”. Ma non è vero, e Pippa ce lo dimostra, evidenziando quale complessità si cela dietro alle cose semplici e quante possibilità esistono per stabilire definizioni stabili la cui riduzione, il famoso rasoio di Occam, rischia di complicare ancor più le cose. E allora, un’arte apparentemente disinvolta, ironica, “leggera”, ci induce a riflessioni “alte” che oltrepassano il piacere dell’occhio e ci ricordano che l’uomo, se è tale, è stato fatto per “seguir virtute e conoscenza”.
Giorgio Bonomi

Pippa Bacca (1974- 2008)

Michael S. Lee, LA CITTÀ CHE NON C’È

Stanza 6

La mia opera d’arte digerisce l’idea della città in un tema. Il disegno è auto-generato, prendendo un momento della memoria e dall’immaginazione e producendo un sistema dalle esperienze. In questa maniera, io quantifico le interazioni di una serie di strutture in uno schema. Il lavoro non ha un obiettivo. Comincia da un balcone semplice o una struttura e si ripete, per ricostruirsi, e inventarsi. Io mi siedo con una penna in mano ed iscrivo i ricordi più commoventi, per poi creare un contesto dove loro possono proliferare. Io domando alla città come vuole crescere, come vuole funzionare, e come si vuole far mostrare. Il disegno è auto-generato. Come i frammenti di Venezia di Italo Calvino in Città Invisibili, queste costruzioni prendono un punto di interesse per elaborarlo verso l’esterno e verso l’interno. Verso l’esterno, come un dettaglio, che diventa un punto di partenza. Verso l’interno, come questi nuovi temi preparano il terreno per nuove interazioni umane negli ambienti insoliti. In questo modo io divento la mia memoria. Io vedo e immagino, e quindi vedo un’altra volta. Il palcoscenico è fatto per uno sviluppo tematico per lo spettatore. Io faccio un livello alto dei dettagli per un’esperienza intensa, però copro e taglio alcune parti delle formazioni. L’idea delle città supera il mezzo, gli spettatori possono interpretare e immaginare di continuare il lavoro attraverso la profondità del nero.
Michael S. Lee

La consapevolezza etica del valore del lavoro “artigianale” conferisce alla ricerca artistica di Michael S. Lee un’attenzione al dettaglio nella quale il fare e il pensare si integrano con pari dignità. Da un elemento minimo, scaturito dalla memoria, si auto-generano i suoi disegni di città, attraverso una sorta di scrittura automatica. L’elaborazione dell’elemento di partenza avviene contestualmente verso l’esterno e l’interno in una ricerca estetica e intellettuale che lo porta alla creazione di disegni complessi e installazioni.
Loris Schermi

Michael S. Lee è nato nel 1988 a New York dove frequenta il corso di architettura presso l’Università di Cornell. Ha lavorato in Sud America nell’estate del 2008 e ora vive a Brooklyn, alternando viaggi a Roma e a Seoul. Si è specializzato in disegno e istallazioni. Ha esposto a Palazzo Lazzaroni a Roma nel 2009, alla Festa dell’Architettura nel 2010 e nello stesso anno alla Galleria Hartell Gallery Ithaca di New York.

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