Author: Associazione Giovanni Testori

Gianni Dessì, TRE PER TE (A GIOVANNI)

Stanza 9

Oggi il luogo dell’arte, la sua immagine, è qualcosa che bisogna strappare con i denti.
Gianni Dessì

Non c’è mai l’improvvisato, ma sempre un tempo di deposito dell’esperienza, una ricerca un po’ zen del luogo mentale più disponibile al formarsi e al permanere dell’immagine. […] Un mondo, il suo, sempre alla ricerca di un punto di equilibrio, di una messa a fuoco, da raggiungere a partire dal caos degli elementi, dalla dispersione dei segni: che è uno stato dell’essere dove gli argomenti individuali trovano perfetta concordanza con quelli di una generazione chiamata, storicamente, a ridare forma ai concetti e corpo alle forme.
Federico De Melis

Armin Linke, CHIESA DI VETRO

Stanza 10

Fotografate una cosa e poi fotografatela nuovamente facendo qualche passo indietro, così potrete scoprire se il suo contesto può farci capire qualcosa in più di quella cosa.
Armin Linke

Nelle sue perlustrazioni globali Armin Linke è stato calamitato dall’architettura di luce della Chiesa di vetro di Baranzate. La parrocchia di Nostra Signora della Misericordia venne progettata da Angelo Mangiarotti e da Bruno Morassutti nel 1957, ma grande importanza ebbero i calcoli strutturali di Bruno Favini che permisero di realizzare una struttura completamente libera nel suo perimetro. Un capannone industriale virato a edificio sacro. La chiesa fece allora l’effetto di un satellite uscito da un film di fantascienza ad anticipare i tempi. La chiesa faceva cadere le cesure rispetto al mondo. La fatica del tempo segna quelle strutture fatte solo di luce e bisognose di restauri. La vita concreta le ha ormai felicemente metabolizzate. Linke coglie questa transizione avvenuta. Un senso di attesa pacificata pervade le immagini, come se il tempo invece di consumarlo desse sempre più corpo a questo spazio.
Giuseppe Frangi

Armin Linke è nato nel 1966 a Milano, vive e lavora a Berlino.

Alessandro Verdi, CAREZZE

Stanza 11

Il rosa è un colore che mi appartiene da sempre. È il colore della tenerezza che si contrappone ai colori della brutalità. Il mio lavoro si muove sempre tra questi due poli: la delicatezza e la violenza. Ma mentre la violenza l’ho sentita subito come una mia cifra espressiva, la delicatezza è invece affiorata con la maturità. Anche da giovane avvertivo che il rosa era un colore che mi apparteneva profondamente, ma in quegli anni quando mi capitava di usarlo alla fine distruggevo sempre i lavori, perché sentivo di non essere ancora pronto. Non mi sembrava di avere la sufficiente lucidità per usarlo. Oggi invece lo sento come un modo compiuto di lavorare sul corpo.
Alessandro Verdi

I suoi lavori squarciano il velo sul palpito della vita e sugli abissi della disperazione, fanno affiorare le tracce di una memoria lontanissima, archetipica e trasversale alle generazioni, registrano i sussulti della carne il suo fiorire, il suo degenerare, ascoltano il mormorio del ciclo della natura e partecipano al potente spettacolo dell’universo, tra la perdita del Paradiso e il riconoscimento dell’umano.
Gianluca Ranzi

Alessandro Verdi è nato nel 1960 a Bergamo dove vive e lavora. È stato scoperto da Giovanni Testori che ha curato il catalogo della sua prima mostra personale nel 1987 alla Galleria Compagnia del Disegno di Milano, dov’è tornato a esporre nel 1999 e nel 2005. Ha esposto nel 1993 alla Galleria Bellinzona di Milano, nel 1998 alla Galerie der KVD di Dachau e alla Casa dei Carraresi di Treviso, nel 2000 all’Art’s Events Centro d’Arte Contemporanea di Torrecuso, nel 2001 alla Fondazione Mudina di Milano, nel 2003 a Villa Pomini di Castellana, nel 2004 all’Officina arte di Magliaro, nel 2005 e nel 2007 alla Mudimadrie Galerie Gianluca Ranzi di Anversa. Nel 2008 sono state realizzate le mostre Alessandro Verdi. Il Paradiso Perduto alla Galleria dell’Artistico di Treviso e Alessandro Verdi. Corpo senza Corpo alla Galleria Blu di Milano che attualmente lo rappresenta. Nel 2009 ha partecipato alla 53a edizione della Biennale di Venezia con la mostra Alessandro Verdi: navigare l’incertezza che si è tenuta presso Campo della Tana.

Arianna Scommegna, …ÀS

Stanza 16

Per una nata e cresciuta a Milano come me, Testori è quello che ho assaporato fin da bambina. Il suo è un meraviglioso dialetto, un brianzolo misto a latino, francesismi, onomatopee, una lingua che è corpo, terra, profumi. Tridimensionale, non piatta come l’italiano della dizione perfetta.
Arianna Scommegna

Sconvolgente dichiarazione d’amore, di morte e di vita “Cleopatras”, è uno dei “Tre Lai” i lamenti per l’amato ucciso, scritti da Giovanni Testori negli ultimi mesi di vita. È il pianto della regina d’Egitto, qui con la lombarda desinenza «as» segno dialettale di enormità, disprezzo ed equivalente al nome in dialetto di Asso in quella Brianza cara all’autore, per il suo «Gran Tugnàs», Antonio. Una donna che si esprime in quella lingua testoriana più che mai estrema, artificiale, nata da più lingue, vive e morte, da dialetti, da varianti fonetiche, impervia, oscura ma paradossalmente «naturale» e «chiara» nell’evocare la violenza delle passioni. Guidata dalla regia attenta di Gigi Dall’Aglio la bravissima Arianna Scommegna ben riesce a dare voce a questa lingua materica e alle emozioni che la pervadono, a renderla carne e sangue, e sul suo bianco costume con colori blu, verde, rosso disegnerà il luogo geografico in cui Testori la fa vivere.
Magda Poli

Arianna Scommegna è nata nel 1973 a Milano, dove vive e lavora. Si è diplomata alla Civica Scuola Arte Drammatica “Paolo Grassi” nel 1996 e nello stesso anno ha fondato, con un gruppo di compagni di accademia, l’Associazione teatrale indipendente A.T.I.R. con la quale realizza la sua attività teatrale organizzando spettacoli, laboratori, festival. Il nucleo stabile e continuativo dell’Associazione è composto da quattordici persone tra attori, regista, scenografa, costumista, organizzatrice e staff tecnico. La direzione artistica è di Serena Sinigaglia. L’associazione gestisce dal 2007 il teatro Ringhiera, uno spazio nella periferia Sud di Milano, al Gratosoglio. Tra le tante produzioni che l’hanno vista coinvolta, spiccano i tre monologhi interpretati nell’ultima stagione: Qui città di M di Piero Colaprico, La Molli (divertimento alle spalle di Joyce) e Cleopatràs di Giovanni Testori. Il 5 giugno 2010 l’Associazione Nazionale dei critici di teatro le ha assegnato il Premio Critica.

Mario Dellavedova, QUASI PURO ESERCIZIO FORMALE

Stanza 19

Per Giorni Felici si è scelto di entrare subito nei dettagli: tele che si richiamano a motivi tradizionali del sud ovest messicano tinte naturalmente e tessute su telai a mano… Che fanno da sfondo a scritte al neon (luminosità glacialmente calda)… Del genere aporie… Testi di canzoni… Frasi fatte poliglotte. Come “refined roughness” (rugosità raffinata). Una congiunzione o coniugazione tra regionale, locale, ancestrale e modernità globalizzata… Come “quasi-puro esercizio formale”.
Mario Dellavedova

Lo stile dell’artista non è facilmente identificabile, dal momento che questo è intenzionalmente “decostruito” a favore di plurime e costruttive chiavi di lettura. Le sue opere, che spaziano in diversi campi, giungono alla pittura, alla scultura, alle installazioni, ma anche ad altri mezzi, rifacendosi ad oggetti, materiali e linguaggi provenienti dalle culture passate e contemporanee. Questi elementi vengono scomposti e ricomposti azzerati e rielaborati in modo che acquistino un senso logico o una semplice e palese giustificazione a prima vista non così evidente, soprattutto se accomunati tra loro e non accumulati. La parola scritta, spesso utilizzata dall’artista, è tolta dal suo ambito culturale per essere formalizzata attraverso oggetti improbabili ma che allo stesso tempo ne caratterizzano lo stato, proponendo allo spettatore una riflessione sul ruolo dell’artista e sul linguaggio dell’arte eludendone i privilegi. Il gioco di parole, la metafora, l’ironia sottile riportano ad un ambito concettuale che di proposito contrasta con l’aspetto a volte artigianale dei manufatti prodotti o utilizzati e con la semplicità del metterli assieme.
Carlotta Testori

Mario Dellavedova è nato a Legnano nel 1958. Si è laureato in architettura e ora vive tra Taxco in Messico e Villastanza, in provincia di Milano. Le sue opere sono state esposte in molti musei e gallerie in Italia e all’estero: in Giappone, Stati Uniti, Cina, Messico Germania, Austria e Spagna. Ha tenuto la sua prima mostra personale nel 1984 alla Rocca d’Angera. Nel 1987 ha esposto allo studio Corrado Levi di Milano e alla Guido Carbone Gallery di Torino, nel 1987 a Le Case d’Arte Gallery di Cologne e nel 1990 a Le Case d’Arte di Milano, nel 1991 alla Galleria in Arco di Torino, nel 1992 e nel 1995 alla Sperone Gallery di Roma e nel 1993 nella sede newyorkese della stessa galleria. Nel 1996 ha tenuto una mostra alla Stadtpark Gallery di Krems, nel 1997 alla Galleria 1000eventi di Milano e nel 2000 la Galleria Mazzoli di Modena ha ospitato due sue personali. Nello stesso anno ha tenuto una personale al Museo de las Artes di Guadalajara in Messico, nel 2003 si è svolta la mostra And all that remains is founded by poets alla Sperone – Westwater Gallery di New York e nel 2004 Domestic lights, domestic flights, domestic delights alla Galleria Sprovieri di Londra. Nel 2009 alcuni dei suoi ultimi lavori sono stati presentati alla Galleria Mazzoli di Modena in occasione della mostra ABCD…Benvenuto, Chucchi, Dellavedova.

Youssef Nabil, INCANTESIMI

Stanza 14

A me i vecchi film egiziani piacciono perché mi ricordano com’era l’Egitto allora e mi fanno riflettere su ciò che è diventato oggi. E mi diverto a leggere i titoli di coda tanto quanto a vedere il film! Da quelli si capisce che mescolanza di nazionalità e religioni esisteva in Egitto. Sono la dimostrazione della ricchezza culturale del paese in quell’epoca, la gente si amava di più. Si leggeva il nome di un musulmano accanto a quello di un ebreo, un greco accanto a un armeno. La nostra società era molto ricca e più tollerante.
Youssef Nabil

La sua base di partenza è un territorio di grande storia, una storia perduta di cui restano tracce grandiose, quella degli antichi Egizi, e una storia, quella islamica, che sollecita un modello differente da quello, ormai vincente, dell’Occidente: un contesto alla fine marginale rispetto al Grande Mondo, ma centrale nel proprio ambito geo politico, cosmopolita nella propria molteplicità razziale religiosa e culturale, ombreggiata da nuance orientalistiche quanto mai seducenti. La fascinazione del cinema, come quella delle grandi mitologie del nostro tempo, lo stardom, il glamour, come la credenza nel potere perpetuante dell’immagine, producono nella sua arte quel senso di nostalgia per quel tipo di mondo e di esistenza che sembra vertiginosamente allontanarsi nello spazio e nel tempo, fino al punto di apparire di non essere mai stato e di non poter essere. L’esperienza si converte nella sua arte in vagheggiamento desiderante, in sogno arabescato, in memoria destinata a sbiadirsi nel tempo. Proprio la memoria appare allora come tratto fondamentale di tutto il suo lavoro, una memoria che sembra funzionare come quei vetri colorati che filtrano la luce dalle finestre o dalle lampade nelle moschee e tinteggiano i loro interni di un’irrealtà fantasmagorica.
Pier Luigi Tazzi

Youssef Nabil è nato al Cairo nel 1972, da padre cristiano greco-libanese e madre di famiglia musulmana. Da cristiano si è convertito all’Islam all’età di trent’anni. Ha studiato Letteratura Francese alla Ain Shams University, ma la grande passione per il cinema lo ha spinto giovanissimo alla fotografia. Tra il 1993 e il 1994 ha lavorato con David La Chapelle a New York e tra il 1997 e il 1998 con Mario Testino a Parigi. Nel 2003 ha lasciato il Cairo per Parigi e attualmente vive e lavora a New York. Le sue opere sono state esposte in molti musei e gallerie: tra le sedi più note vanno ricordati il British Museum di Londra, il Centro de la Imagen di Città  del Messico, il North Carolina Museum of Art, il Baltic Centre for Contemporary Art di Newcastle, la Galleria Leme di San Paolo del Brasile, la FotoFest di Houston in Texas, il Centre de Cultura Contemporanea di Barcellona, l’Istitut du Monde Arabe di Parigi, il Kunstmuseum di Bonn, il Centro Andaluz de Arte Contemporaneo di Siviglia, l’Aperture Foundation di New York e la 53a Biennale di Venezia. Ha tenuto tre mostre personali al Cairo nel 1999, 2001 e 2005. Nel 2005 e 2007 ha realizzato due mostre alla Third Line Gallery di Dubai. Nel 2007 e nel 2008 ha esposto alla Michael Stevenson Gallery di Cape Town in Sud Africa. Nel 2009 ha realizzato cinque mostre personali: a Roma a Villa Medici, a Firenze alla Galleria Poggiali e Forconi, a Berlino presso la Volker Diehl Gallery, a Dubai alla The Third Line Gallery e ad Atlanta al Savannah College of Art and Design.

Pippa Bacca, BOULES DE BROUILLARD

Stanza 5

A Milano un tempo c’era tanta nebbia e dentro la nebbia si poteva giocare, lo dice anche la canzone (ma poi lei gridava e allora il gioco non era valido e forse bisognava rifare, forse no, non si capisce). Ora a Milano la nebbia non c’è quasi più, ma io, che non sono mica tanto giovane, me la ricordo bene e mi ricordo anche di tante persone che ho incontrato e che ogni tanto sono sbucate dalla nebbia di questa città portandone dentro di loro il senso. Ma non sono l’unica a ricordare, e voglio quindi dare una forma anche a quelle persone verissime, anche se forse inventate che ci racconta il Testori ne Il ponte della Ghisolfa. Non si tratta di un’illustrazione del libro, ma di un’interpretazione dei personaggi data da persone che oggi potrebbero essere la loro versione moderna. Così accostati i ritratti veri a quelli anche più veri, tratti del romanzo, sono tutti chiusi in barattoli, per conservarsi meglio, messi sotto grappa ed immersi nella nebbia.
Pippa Bacca

Uno dei problemi su cui l’uomo si è sempre arrovellato è quello dell’essere e dell’apparire di una cosa, reale o mentale, e del suo rapporto con la parola che la definisce: che cosa è vero e reale? Ciò che noi vediamo o un qualcosa che l’occhio non percepisce? Eraclito diceva che un fiume non è mai lo stesso perché l’acqua che scorre ne fa un’entità sempre diversa, eppure il “nome” è sempre lo stesso. Gli idealisti estremi affermavano che la realtà di una cosa è data dal pensiero che la pensa, salvo poi farsi male sbattendo, nel buio di una stanza, una gamba su una sedia che, non pensata, non esisteva! Gertrude Stein, la grande amica di Picasso, diceva che “una rosa è una rosa, una rosa, una rosa”. Ma non è vero, e Pippa ce lo dimostra, evidenziando quale complessità si cela dietro alle cose semplici e quante possibilità esistono per stabilire definizioni stabili la cui riduzione, il famoso rasoio di Occam, rischia di complicare ancor più le cose. E allora, un’arte apparentemente disinvolta, ironica, “leggera”, ci induce a riflessioni “alte” che oltrepassano il piacere dell’occhio e ci ricordano che l’uomo, se è tale, è stato fatto per “seguir virtute e conoscenza”.
Giorgio Bonomi

Pippa Bacca (1974- 2008)

Michael S. Lee, LA CITTÀ CHE NON C’È

Stanza 6

La mia opera d’arte digerisce l’idea della città in un tema. Il disegno è auto-generato, prendendo un momento della memoria e dall’immaginazione e producendo un sistema dalle esperienze. In questa maniera, io quantifico le interazioni di una serie di strutture in uno schema. Il lavoro non ha un obiettivo. Comincia da un balcone semplice o una struttura e si ripete, per ricostruirsi, e inventarsi. Io mi siedo con una penna in mano ed iscrivo i ricordi più commoventi, per poi creare un contesto dove loro possono proliferare. Io domando alla città come vuole crescere, come vuole funzionare, e come si vuole far mostrare. Il disegno è auto-generato. Come i frammenti di Venezia di Italo Calvino in Città Invisibili, queste costruzioni prendono un punto di interesse per elaborarlo verso l’esterno e verso l’interno. Verso l’esterno, come un dettaglio, che diventa un punto di partenza. Verso l’interno, come questi nuovi temi preparano il terreno per nuove interazioni umane negli ambienti insoliti. In questo modo io divento la mia memoria. Io vedo e immagino, e quindi vedo un’altra volta. Il palcoscenico è fatto per uno sviluppo tematico per lo spettatore. Io faccio un livello alto dei dettagli per un’esperienza intensa, però copro e taglio alcune parti delle formazioni. L’idea delle città supera il mezzo, gli spettatori possono interpretare e immaginare di continuare il lavoro attraverso la profondità del nero.
Michael S. Lee

La consapevolezza etica del valore del lavoro “artigianale” conferisce alla ricerca artistica di Michael S. Lee un’attenzione al dettaglio nella quale il fare e il pensare si integrano con pari dignità. Da un elemento minimo, scaturito dalla memoria, si auto-generano i suoi disegni di città, attraverso una sorta di scrittura automatica. L’elaborazione dell’elemento di partenza avviene contestualmente verso l’esterno e l’interno in una ricerca estetica e intellettuale che lo porta alla creazione di disegni complessi e installazioni.
Loris Schermi

Michael S. Lee è nato nel 1988 a New York dove frequenta il corso di architettura presso l’Università di Cornell. Ha lavorato in Sud America nell’estate del 2008 e ora vive a Brooklyn, alternando viaggi a Roma e a Seoul. Si è specializzato in disegno e istallazioni. Ha esposto a Palazzo Lazzaroni a Roma nel 2009, alla Festa dell’Architettura nel 2010 e nello stesso anno alla Galleria Hartell Gallery Ithaca di New York.

12. GIOVANNI VITALI, Rock’n roll High School

Stanza 12
Sì, va bene, ho capito, non ho studiato. Però dai, quel film era più bello che i vasi micenei. Cosa? Stavo dormendo? Sì  sono tornato tardi, ero al concerto, ma se lei mi è stata tutta notte su Facebook? E allora? E allora eccoci qui, anche a questo giro mi hanno mandato fuori dalla classe e mi hanno detto di stare fermo in corridoio. Ma perchè poi? Perchè ho giocato ai videogame anzichè fare i compiti? Oppure perchè ho mangiato un panino mentre c’era la spiegazione? Mmm…. quella scritta sul muro non possono sapere che l’ho fatta io, però ho lo stesso simbolo sul giubbotto… che siano così acuti? Ah, ecco il bidello, so che gli piacciono i miei stessi fumetti, così ci raccontiamo due storie. E poi gira la leggenda che da giovane cantasse in un gruppo. Vabbè adesso devo rientrare che c’è l’ora di diritto. Ma tanto sabato si va a Genova…
Giovanni Vitali

Nel 2009 la svolta, nel giorno in cui capisce che la bellezza non deve essere per forza nel quadro, ma nelle cose della vita. Cambia studio, vita e modo di dipingere. Cerca la bellezza in sè e disegna al computer visioni rabbiose e ironiche che poi stampa e colora su tela, quasi a ricreare il mondo pop del web, fatti di immagini senza profondità , nè gerarchia.
Marina Mojana

Giovanni Vitali è nato a Melzo in provincia di Milano nel 1981. Si è diplomato in pittura all’Accademia di Belle Arti di Brera e ora vive e lavora a Milano. Nel 2005 ha esposto al Castello Borromeo di Corneliano Bertario, nel 2006 al Centro Culturale di Milano e nello stesso anno a Trento presso lo Spazio 27. Nel 2008 ha esposto al Collegio Cairoli di Pavia e alla Galleria Obraz di Milano. Nel 2008 si è tenuta la mostra Disegnare Sui Muri presso la Fabbrica del Vapore di Milano.

J&PEG, LA NOTTE CADE SU DI NOI

Stanza 13

Una camera da letto, la stanza più segreta della casa, dove nemmeno l’ospite viene invitato ad entrare, diventa, nel percorso di questi quadri e di questa installazione, l’emblema di un mondo universale, nel quale si indaga sulla libertà e sul suo rapporto col potere. In questo ambiente l’uomo rimane solo con se stesso, finalmente libero da ogni imposizione esterna, abbandonato alla sua intimità, ma destinato comunque a soccombere davanti alle sue necessità fisiche e all’esigenza del riposo. L’essere umano, concepito con il limite del sonno, è qui già pronto ad evadere e a riscattarsi con l’immaginazione e la speranza del sogno. Una stanza, illuminata in modo da ricordare al visitatore le luci e le ombre della società contemporanea.
J&PEG

La coppia J&PEG si mette al lavoro con serena cleptomania e illustra atteggiamenti, posture, comportamenti e metamorfosi di figure che sembrano voler rappresentare un inedito teatro della vita. Pittura, scultura, fotografia ed istallazione si mettono al servizio di una messa in scena capace di spostare la contemplazione del pubblico fuori da un’esclusiva condizione di intelligenza diurna. Qui la scena invece amplifica gli spazi intermedi della fruizione estetica e determina la possibilità di affermare con Baudelaire che il Bello è sempre una promessa di felicità. Naturalmente qui il bello è volutamente costruito. Rinvia sempre ad un altrove reso possibile dalla riproduzione tecnologica, ma anche corretto dalla manualità artigianale. La convivenza dei diversi media tra loro permette una iconografia che vive ai confini tra enigma e senso esplicito. Qui l’arte sembra confermare un’inedita vocazione, quella di essere una sorta di Bocca della verità che non ci parla con sentenze ambigue e oscure, ma piuttosto illustra il bisogno dell’uomo di marcar i limiti psicologici e sociali. Per farlo J&PEG utilizza sul piano della comunicazione la famigliarità furtiva che proviene al gran pubblico dal cinema, la fotografia, il teatro e la virtualità dei giochi interattivi.
Achille Bonito Oliva

J&PEG sono Antonio Managò e Simone Zecubi; lavorano da sempre in coppia. Antonio è nato nel 1978 a Busto Arsizio e Simone nel 1979 a Gallarate. Entrambi si sono diplomati presso l’Accademia di Belle Arti di Brera: Antonio in Scultura e Simone in Scenografia. Vivono e lavorano a Milano. Nel 2006 e nel 2007 hanno esposto alla Galleria Obraz di Milano in occasione delle collettive Take Five Lo stato dell’arte. Nel 2007 e nel 2008 hanno partecipato ad Artfirst di Bologna e al Miart di Milano, nel 2008 ad Art Paris e a Roma – The road of contemporary Art. Nello stesso anno hanno tenuto la prima mostra personale Working Mates + Project Room. Ten second to midnight presso la Galleria Poggiali e Forconi di Firenze, presentati da Achille Bonito Oliva. Nel 2010 hanno partecipato all’evento (Con)Temporary Art presso Superstudiopiù di via Tortona a Milano, con una stanza dal titolo Natura Naturans.

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