Author: Alessandro Frangi

“In Exitu” con Roberto Latini alla Biennale Teatro

“In Exitu” alla Biennale Teatro 2021. Lo spettacolo prodotto dalla Compagnia Lombardi Tiezzi con Roberto Latini protagonista e regista andrà in scena al Teatro Piccolo Arsenale il prossimo 7 luglio.
Ripubblichiamo la recensione di Rodolfo Di Giammarco uscita su Repubblica in occasione della prima a Napoli.

Roberto Latini ha risposto all’invito della compagnia Lombardi/ Tiezzi di incarnare In exitu, schegge della vita ai margini di Gino Riboldi, marchettaro eroinomane in limite di genere, lingua, umanità che col dj queer del precedente Cantico dei Cantici condivide una carnalità tenera, sovversiva, incomprensibile ai più. In proscenio, oltre una rete da tennis, un binario di legno evoca lo scenario di una stazione ferroviaria, non luogo di svendita del corpo e di violenza. La scena, immersa in un bianco opaco, è una distesa di materassi su cui Latini si muove senza sosta: sbanda, trema, cammina, cade nel rincorrere il ritmo sgangherato di una lingua «sgrammaticata che perde i pezzi»; lingua contaminata, lacerata e incompiuta perché metafora di vita, mista di latino, italiano e dialetto lombardo. Tra le mani un microfono che è stampella, spada, siringa amplifica le voci in cui l’attore si moltiplica, letteralmente si consuma. Rantoli, reiterazioni, bestemmie, pause che sono apnee negli incubi, nello strazio di un’epidermide crivellata per riempire un vuoto dell’esistenza: Latini, in preda al testo, si fa dominare e lo domina per restituircelo in tutta la sua potenza lirica e distruttiva. La sua è agonia disarmata, Teatro senza sconti, prova sconcertante di autore in quanto attore. Nella città/ bordello Riboldi è cercatore dionisiaco di bellezza contro la normatività: agnello sacrificale di un malessere collettivo e atavico – ma rimosso in nome della morale – di cui l’attore si assume il dolore, la fatica, la responsabilità con un’onestà nuda. Colano trucco e sudore nella tenuta da tennista in tuta e scarpe da ginnastica: il palco è palestra fisica e dell’anima, campo di battaglia all’ultima ferita tra umori corporali e profonde solitudini. Il match tra la vita e la morte è scandito da interventi sonori di beat elettronici e violini elettrici, teatro aumentato nel microfono, luci che come distese di pittura ci calano in un pasoliniano, acre underground. Latini, mordace sperimentatore, interroga palco e platea fino all’ultimo respiro: nel finale, una palla da tennis a grandezza naturale è il servizio pronto a essere lanciato al di là della rete/ proscenio. Può riceverla solo chi lascia ogni appiglio per perdersi nell’altro da sé. Questo forse è quanto di meglio possa succedere a Teatro.

Acquista qui i biglietti

Il Caravaggio, genio e ladro

Proponiamo qui di seguito il testo integrale della recensione di Giovanni Testori alla mostra “Caravaggio e il suo tempo” (Museo di Capodimonte, Napoli, 1985).

Napoli – Sacrosantamente gli esimi organizzatori di questa memorabile mostra («Caravaggio e il suo tempo», Napoli, Museo di Capodimonte, fino al 30 giugno), dove con ogni probabilità per l’ultima volta, è dato veder accostato un numero altissimo d’opere del Maestro, soprattutto quelle che s’usan chiamare «da stanza», han voluto dedicare la loro fatica a Roberto Longhi. La dedica risulta duplice. Essa non si ferma, infatti, alle parole con cui s’apre il Catalogo, nell’edizione italiana ancor meglio edito dall’Electa, ma si muove e vive, come linea prima e definente, nel pensiero critico di chi l’ha voluta, studiata e realizzata; soprattutto in quello di Mina Gregori che, oltre ad essere, con tutto il Comitato Scientifico, responsabile del disegno generale, s’è tenuta per sé il vero e proprio saggio introduttivo e la schedatura dei dipinti del tragico, supremo, atterrito, e, proprio per questo, continuamente risorgente protagonista; dando, in quest’ultimo ufficio, una prova da additare quale esempio, di come si possa tutto riferire di un’opera, tutto rispettare delle altrui opinioni, senza nulla sacrificare delle proprie. Non è piaggeria nostra se, a pochi giorni di distanza da quello che ci strappò, con quanta festosa gioia il lettore riuscirà forse a rammentare, per la mostra cremonese dei Campi, siamo indotti a ripetere qui, ulteriormente rafforzato, l’elogio per questa conoscitrice e «maestra» (detto nell’antico senso e nell’antica nobiltà del termine) della nostra storia artistica, che la maturità ha portato a offrire agli studiosi, ma anche all’onda vasta del pubblico, una così larga e profonda messe di frutti. Del resto, i temi delle due esposizioni risultano strettissimamente legati. È una civiltà, quella di Lombardia, che la Gregori ha inteso mostrare (o rimostrare) al mondo; accompagnando una sottilissima, indomita conoscenza critica a un senso, esso sì, veramente, democratico, di che una mostra ha da essere.

Dicevamo che la dedica longhiana diventa, qui, ripresa della tesi principe del grande critico. Ora quella tesi che, per alcuni anni, parve superata (ma, in effetti, non lo fu mai) dalle alchimie di letture astrattamente, quando non demenzialmente, iconologiche, torna qui ad essere totalmente onorata; e onorata perché il tempo ha mostrato quanto fosse pregnante e verace; e quali mai possibilità contenesse di venir sviluppata. Che è proprio quanto accade in questa mostra; e con tale ricchezza di conferme e d’aperture da farci affermare che, dopo l’irripetibile esposizione milanese del ’51, questa si pone come data fondamentale nello sviluppo degli studi caravaggeschi; anche per gli ardui ingorghi di problemi che propone, e che propone con la chiarezza e la drammatica lampeggiante violenza che il Caravaggio si meritava.

Prima d’addentrarci nelle magne sale di Capodimonte e riferire, almeno per come lo concede una pagina di quotidiano, convien dire che la sfilata dei capolavori risulta, già da sé, stupefacente: da quelli che compongono la sezione dei «precedenti» lombardi e che formano lo stormente albero genealogico del Merisi, a quelli dei bolognesi, dove s’alza a dominar tutti la straordinaria, sbilenca, sanguinolenta immersione «dialettale» d’Annibale Carracci che qui, con la «Macelleria», venuta da Oxford, espone il suo stato reale, prima che si genuflettesse al mito del classicismo; per arrivare, infine, a quelli dei contemporanei e degli immediatissimi seguaci, che di sovente risultarono immediatissimi traditori. Sono meraviglie, poste l’una accanto all’altra, ovvero l’una in opposizione all’altra, ma tutte necessarie, più che a far concerto di capolavori, a far storia; o a far storia con loro, i capolavori; e a dire come, nella fisiologica, carnale perentorietà della sua fatale e fetale coscienza lombarda, Caravaggio avesse occhi, mani, denti, labbra e intestini per tutto; e come, ove gli si mostrasse necessario, tutto rubasse di quanto altri aveva appena fatto o andava, allora, facendo; quasi che i quadri fossero per lui realtà, né più né meno di come lo erano gli uomini, le donne, i fiori, l’erbe, i frutti, i cavalli, i piedi, i ventri, i visi, gli sterni, le spalle e le cosce.
La copia e la ripresa sono azioni proprie ai talenti. Il furto, e non si crede di dire cosa nuova, è azione propria ai geni. Ma, in Caravaggio il furto non fu mai di stile; fu un fisico, erotico e persin losco interesse (ma sì, diciamolo pure, un losco interesse di parte; e come avrebbe potuto essere altrimenti in un uomo come lui?); fu, ecco, una fascinazione totalmente fisica e, insieme, psichica. Rubare a un’opera già fatta fu, per lui, come perder la testa, e non solo la testa, per il ragazzaccio, sconcio e divino, che si mise lì davanti a far da modello per l’«Amore vincitore»: o come addentare, con un sol colpo, la madida polpa di una mela.

–––

Famelicità

Siamo così entrati «in medias res»; e per direttissima. Ben più che proporre la nostra personale opinione su alcuni nodi attributivi e cronologici, opinione che la Gregori ci ha fatto l’onore di citare nelle schede (ancorché si tratti di pareri espressi, non già in studi specialistici, bensì e proprio da questo semplice giornale), ci preme avvisare di quanto, di rivoluzionario e travolgente, dalla mostra, s’evince; il che corrisponde esattamente a quanto, di rivoluzionario e travolgente, si dové evincere, ai suoi tempi, dalla carriera, brevissima e come fulminante in se stessa, del Merisi e dai modi in cui essa andò svolgendosi, come se dalla famelicità di vita, che inturgidisce di sé gli inizi, fosse stato chiamato a gettare la propria anima e il proprio corpo nella famelicità opposta: quella della morte. In pochi anni, a furia d’essere nella realtà (che conteneva, sia ben chiaro, una pressione sacrale tanto forte e tanto battente, lì, alle tempie, da permettergli d’essere proditoriamente ebbro ed erotico e, insieme, disastrosamente cosciente della propria perversa brama e della propria cupa e conseguente dannazione), il Caravaggio passò da una concorrenza strettissima e spietata, quasi da bocca a bocca, con la vita, a una concorrenza, non meno da bocca a bocca, e non meno spietata col sepolcro.

Ora il risucchio di quest’ultimo allunga le sue infinite, sfarinanti ombre sulal prima ben più di quanto questa non potesse stendere le luci d’alba, troppo densa, possente e carnale, sulla consunzione di quello. O, forse, sì, le stese; ma come strappando se stessa e facendosi laceratissimo lacerto serale; simile a quelli che appaiono all’orizzonte, sui profili stessi del mondo o negli occhi di chi abbiamo amato, prima che la notte ingoi tutto nel suo inesplicabile niente. Lo stile del Caravaggio, se talmente vuol davvero chiamarsi, ricava la sua rapidissima, fulminante suntuarietà, il suo disprezzo per ogni decoro, la sua ellitticità da supremo, tragico «imbianchino» dell’universo, proprio dall’istantaneità, e dall’inevitabilità, con cui tutto, in lui, s’accende, s’incendia e, poi, di colpo, rantola, si blocca lì e tace; in cui tutto si destina, d’ora in ora, di minuto in minuto, ad avvenire e a morire. Proprio perché l’avvenire coincide, in lui, sempre, con l’essere; proprio perché il nulla, nero, allibito e non più benedicibile da niente che sia umano, risulta, per lui, la sola testimonianza possibile del tutto; proprio per questo, l’immersione nella realtà fu, nel Caravaggio, quella che accade a chi, uscito dal grembo materno, delira per tornarvi e trasforma tutto in quel ventre; ventre che alla fine, si configurerà in un rantolo di tragica solitudine là, sulla desolata spiaggia di Porto Ercole.

È questa ventralità del reale, ventralità che la mostra napoletana ci ammonisce altra volta come trovasse la sua metafora espressiva, anzi la sua espressiva consustanzialità, iniziatica nei padri e nei fratelli (e nei fratellastri) di Lombardia, che rende possibile al Caravaggio compiere una sgominante sequela di paragoni coi maggiori esiti, non solo dei suoi contemporanei, ma dei grandi uomini del Rinascimento e finanche dei grandi d’evi più antichi. Paragoni che vivono, non sull’umiltà d’una coscienza impari, bensì sull’impudica, sfrontata certezza d’una coscienza assolutamente paritaria. Per restare al già citato «Amor vincitore», venuto a Napoli da Berlino, la sofferenza del Caravaggio non sta nel dubitare di reggere ai nudi della Sistina o agli strumenti musicali che la «S. Cecilia» di Raffaello si trova deposti ai piedi, gli uni e gli altri così golosamente, così clamorosamente visti, capiti, accolti ma poi, subito, rifiutati, anzi vomitati ed espulsi dal proprio corpo; sta nell’accettare, come fato suo proprio, quella sfrontatezza; e, soprattutto, nell’accettare il vuoto, inane a assoluto, che, subito, dopo l’esecuzione dell’opera, sembra aprirsi davanti a lui; come se ogni volta fosse l’ultima. Questo, finché, a furia di rapine operate sulla realtà, sulla storia e su sé medesimo, la volta sarà finalmente, e per davvero, l’ultima.

–––

Forma-azione

L’irripetibilità, e l’irrimediabilità, del «vero» caravaggesco, e della connessa cultura, risultano così atrocemente elementari. Non ammettono compiacenze. La coscienza della forma, in Caravaggio, non può stare altrimenti che nel suo realizzarsi; ma nel suo realizzarsi come se volesse distruggersi proprio e in quanto forma d’uno stile ed essere, invece, qual è l’enorme, povera, superba e derelitta realtà dell’universo in cui era stato espulso e in cui doveva pur respirare, vivere, agire e morire. La forma del Caravaggio risulta così azione; ma tale azione risulta, altresì, la sola coscienza possibile che dell’esistenza l’uomo può darsi e può, dunque, in qualche modo formulare. Tutto si passa in una velocità di tempi e di spazi che non lascia margine a niente che non sia il se stesso di quel preciso soggetto; dunque, di quel preciso dipinto. Mi pare che solo questo può permettere d’enucleare una formulazione, non troppo lontana e non troppo impropria, della sua pittura; e stabilire altresì i termini meno impropri per decidere dell’autografia, o meno, di un’opera. È alla luce, e alla tenebra, di questa verità eternamente attimale, o attimalmente eterna, non intuendo la quale ben poco può capirsi di che sia stata la rivoluzione del Merisi, che risulta, ad esempio, lecito dire come il problema relativo alle «Nature morte» dipinte nella bottega del Cavalier D’Arpino (problema magistralmente aperto dallo Zeri) non possa venir indebitamente evitato o, peggio, archiviato come van facendo tanti «estetisti» della critica d’arte, nostrana e non, ovvero che l’edizione veramente autografa del «Ragazzo morso dal ramarro», non sia da vedersi nell’esemplare inglese, qui esposto, bensì in quello, incomprensibilmente più diretto, ingombrante e «idiota» che fa parte della raccolta Longhi; ovvero ancora che, pur tenendo conto dello stato di conservazione e d’una pulitura assai prossima al delitto, la «Conversione della Maddalena» di Detroit, è pur essa copia e non già originale. Ed è sempre lo stesso metro, per dir così, istintual-coscienziale che ci assicura dell’assoluta, abbagliante e, insieme, cieca e come urlante autografia delle opere che la Gregori, da anni, in vari studi, è andata proponendo, conquistandosi una serie di meriti e, quasi, del caravaggismo, dopo le fondamentali restituzioni del Longhi, il primato. Non è luogo, qui, a nominarle, una per una. Basti forse citare, perché risulta la vera e propria rivelazione della mostra, il «Cavadenti», di proprietà delle Gallerie fiorentine, in deposito, ora, a Palazzo Montecitorio, che davvero non sembra sede per lui. Questo scorticante ed arso capo d’opera, in cui Caravaggio riprende e reinventa per tutti i pittori a seguire la «scena di genere», ma bruciandoli poi tutti, in quanto, più che d’un episodio di primitiva odontotecnica, sembra trattarsi d’un atroce, efferato assassinio, d’un turpe finale gesto di braccaggio compiuto da matrigna-la-morte, o la vita, che ora, e per davvero, fan lo stesso, sembra a noi porsi come un vero e proprio «test» per rassicurarci di chi abbia capito che sia stato, e sia tuttodì, il grande fuggiasco di Lombardia e di chi, d’averlo capito, finga; continuando a mettere in uso, per lui, proprio quelle misure formalistiche che lui aveva vissuto per distruggere. Aveva vissuto ed era, poi, così tragicamente morto. Ora, se con uomini come il Caravaggio poco lecito è scherzare, o sbagliarsi, quando si parli di vita, turpe e blasfemo è farlo quando si parli di morte: e del suo dopo.

I Lunedì di Casa Testori. Ep. 21

Enea, Dante e la urban art. È il percorso affascinante che la città di Pomezia ha avviato e che verrà raccontato nella prossima puntata dei Lunedì di Casa Testori. Il progetto si chiama “Sol Indiges. Arte pubblica a Pomezia tra mito e futuro”: attraverso un programma di interventi di Urban Art, nell’intento di riannodare il filo della storia contemporanea di Pomezia con il mito delle origini: Sol Indiges è il nome del santuario dedicato al dio Sole progenitore di tutte le cose, sorto nel luogo dello sbarco di Enea alla foce del Numico nelle campagne limitrofe all’attuale Pomezia ed è anche l’epiteto con cui i romani indicavano il loro eroe fondatore.

Protagonisti del progetto due tra i più importanti street artist italiani: Agostino Iacurci e Ivan Tresoldi. Nella puntata il progetto verrà presentato dal curatore, Marcello Smarrelli con Agostino Iacurci, Simona Morcellini, assessore alla Cultura di Pomezia, e Federica Colaiacomo, archeologa, direttrice scientifica del museo archeologico di Pomezia. I reperti del museo sono stati tra le fonti di ispirazione per il grande lavoro realizzato da Agostino Iacurci, che lui stesso racconterà durante la diretta. 

Al posto della consueta lettura di uno scritto di Testori, la puntata verrà chiusa da Aurelio Picca, scrittore, con un intervento sulla figura di Enea.

La pagina ritrovata della “Gilda”


di Nicolò Rossi

Può capitare, nell’immutabile vita scritta di un libro, che si riaprano alternative. Può capitare che un libro si ricordi, come in sogno, delle possibilità che non ha avuto. Basta che riemerga un foglio da una prima stesura, stralciato dall’autore e mai arrivato in stampa. Lo scopriamo ora, nell’archivio depositato a Casa Testori, e riporta un diverso sviluppo per il racconto della Gilda del Mac Mahon, Sì, ma la Masiero…. Accade così che mentre Dino raccoglie i frantumi delle amate fotografie strappategli dalla cattiveria del Luciano, verso il giardino di via Spagnoletto, arrivi un taxi. E che, dal taxi, scenda proprio lei, la Masiero! Lui la vede, non visto, salire in casa; e immagina che lei, ora, si svesta… La Masiero, nel testo andato in stampa, «non era arrivata». A Dino era rimasta la beffa, e «tutto, per quella sera, fu chiuso». Fino ad oggi.

I Lunedì di Casa Testori. Ep.20

Puntata 20, lunedì 5 aprile ore 21.15

Si chiama Balena Project. Una balena che per Claudia Losi diventa un’idea fissa nel 2004. Da quel momento prende il via un’impresa attorno al corpo itinerante di una balenottera comune, ricostruito in tessuto di lana grigia a grandezza naturale. Un progetto affascinante e poetico, un’entità viva che oggi è diventato un libro d’arte costruito a più mani, The Whale Theory, capitolo conclusivo di questo viaggio. Claudia Losi racconterà questo suo viaggio ai Lunedì di Casa Testori, insieme a Petra Aprile e a Silvia Bottani, che hanno lavorato al progetto.

Aprirà la puntata Federica Fracassi con la lettura di uno dei più belli articoli di Testori, dedicato all’angelo di Lorenzo Lotto nel Polittico di Ponteranica. Un modo per festeggiare il Lunedì dell’Angelo.

Mater Strangosciàs, la Pasqua come un’alba

di Sandro Lombardi

La Maria di Nazareth di Mater Strangosciàs si presentava in scena su una sedia da cucina dichiarando la sua umiltà e scusandosi d’essere “del recitar poco praticata”. Il passaggio tra Erodiàs e Mater Strangosciàs, che avevamo portato in scena in un unico spettacolo, è segnato dalla specularità di due modi diversi d’amare: è la disperazione che si fa speranza, la morte che si fa resurrezione. Certo, nel cuore delle due donne impera un amore così grande e totalizzante da rendere impossibile qualsiasi forma di appagamento. Erodiàs non riesce a compiere il doloroso e impervio passaggio a una diversa visione del sentimento di cui è simbolo la disponibilità di Maria, che tocca una commovente umiltà di eloquio per mezzo di una lingua che si spinge a esprimere perfino complesse concezioni teologiche. 
Quando, verso la fine del suo lamento, Maria invoca l’angelo perché torni a visitarla e a portarle un po’ di calma e consolazione, questi le dice che «dal dolor più desperado… può surgere un senso, o anca insolamente, ‘me vorevi una sensada…». Sta forse qui la verità dei Tre Lai. Come nella “Ricerca” proustiana o nella “Commedia” dantesca, il viaggio in tempi e in luoghi perduti, e il lavorio dedicato ad una definizione psicologica e a una teoria dell’amore, spingono ancor più lontano: alla ricerca, appunto, del senso stesso, nella vita umana, dell’amore e del dolore. Così dopo l’ora «tramontaria e funerizia», barbara e tragica della Cleopatràs, Erodiàs mi parve un dramma notturno e Mater Strangosciàs una “aubade”, quel tempo muto e sospeso d’attesa dell’alba che gli spagnoli chiamano “madrugada”. 

Te penset verament, / o me sul / e me turment, / che sia no tutta ‘na gran bala / ‘na trumbada, / un culp de vent / disèmel su ammò: / una ciavada? / No, / no, / mia mater cara / o forse, sì. / Me stesso / mo’ me dobbio de più ammò / pei verba megliamente, ecco, sentire / mentre che dalla bocca sua / stanno per sortire. / A dila inscì, / o mater / – fa el mio gran figlio / redotto ‘me vedete ad un lenzuolo / sanguinanto de giaciglio – / a dila inscì / la par ‘me insugnada, / ma la vita / – nissuno mei de mi / l’ha forse comprendata – / la vita, sì, / l’è ‘na ciavada, / te vedet ben / ‘me la mia / la s’è tutta inscì increpada; / ciavada, sì, / o mater; / ciavada, sì, / o gent; / ma, propri / cunt del diu et om / la ‘sassinada, / la s’è, eccuta, vultada, / intrega la s’è ella illuminada, / da restà semper, sì, / ciavada, / ma resurrezionada. / Plus la ciavada / intrega de dulur l’è fada / et plus la resurrezziun / l’è tutta innamurada. / E cusa l’è infin / e in poera muneda / ‘sta gran trasfurmaziùn? / Me stessa provo a pitturarlo, / io me e ben de sola / perché l’è quest / che cunt la crapa / del to cusin in man / l’Erodiàssa destruttata dai affan / la speccia de savé… / L’è cume un vìssi / – e fermum se me sbagli – / che el Diu, / lu, propri lu, / l’ha mettù / dedent de la magna creazion; / l’è un vìssi, un vermeno, / un virùs: / quel de vurè durà ‘me lu / in dell’eternità di stel, / di nigur / et anca, eccu, del su, / benché, dopo la scendera e la brina / dei cimiteri giò, in la cantina / el tut el pararès / pussibil no. / El gh’è ‘sto virus, / o cara gent de tutta la platea, / et anca te, Cleopatrassa / suichida d’esser lassa / del potere, / anche in dei bulbi al ghè / de lur, i ciclam, / el gh’è anca in di verz, / in di pes, in di vulp / e in la castegna; / el gh’è anca in di luf, / nei legur su, della Civenna, / e in di ursi di furèst / del gran Sempiun. / L’è ‘me ‘na forza, / ben plus de quella elettriga, / che, quand el mument giust / el riva, / d’un bot da sé e in sé / intrega la se pizza / senza bisogno de meccanica perizia / e tut l’immano nient / urbis et orbis / devien, ecco, ‘me luminaria natalizia. / L’è / – fam truà su, / o me sudari, / el verbum justum / et, come podo, esplicativo… / L’è, eccuta, / la cecità che riva, / el sé de sé a luminare / e splendorare. / L’è un’ansia, / l’è un s-ciuppun, / l’è, eccuta, un magun / dedenter de la palta / cont la de cui / ‘me tanti Adami / el Diu ci ha costruttati / con le mani; / l’è la strada de dulur / e d’agonia / per rivà / ti a cà tua, / mi a cà mia; / l’è la granda del pater / nostalgia; / l’è la superbia, / tutta sburlandada, / la carità in persona / e personada; / l’è tut e el nient: / l’è la carezza / – disemel cunt la zeta / per dar al tutto / el luch d’una squalche teologhia – / l’è la carezza / la plus clara / che quand dent in la cassa / gh’è pu de viv nigotta / la me fa diventà / ammò carna viventa / et, eccuta, pigotta. / Parli di resurreziun, / o me sudari, / o gent, / e de piang / invece de gioir / me vegn in ment…

Lunedì di Casa Testori. Ep.19

Puntata 19, lunedì 29 marzo ore 21.15

È il dono il tema della puntata dei Lunedì di Casa Testori del prossimo 29 marzo. “Il Dono. Sulla vita e sulla morte” è il titolo della mostra organizzata da The Blank Contemporary Art e Comune di Bergamo al Palazzo della Ragione della città lombarda. Sette artisti, invitati dal curatore Stefano Raimondi, indagano il tema del dono attraverso opere che in certi casi si trasformano in doni di cui gli spettatori possono appropriarsi (naturalmente quando la mostra riaprirà i battenti). Il dono poi è messo in relazione alle due grandi polarità che hanno segnato la vita nostra e di una città come Bergamo in particolare: la vita e la morte. Insieme a Stefano Raimondi saranno in diretta tre degli artisti: Matilde CassaniAndrea Mastrovito e Namsal Siedlecki.

A seguire, sempre in tema di dono, Giulia Restifo racconterà il crowfunding lanciato dalla Casa degli Artisti di Milano, un’importante realtà con cui Casa Testori ha recentemente collaborato, per superare il momento di difficoltà determinato dalla pandemia.

La puntata si aprirà come di consueto con la lettura di una pagina di Testori con la voce di Federica Fracassi: sarà una pagina dedicata a Giacomo Ceruti, grande artista lombardo straordinariamente consonante con il tema della puntata.

Iaia Forte: «Erodiade, che visionaria»

Di Andrea Bisicchia

Nel 2006, Iaia Forte portò in scena, con la sua regia, “Erodiade”, la cui interpretazione fu ritenuta una grande prova d’attrice, grazie alla sua fisicità prorompente e alla sua potente naturalità espressiva, messa al servizio di una Erodiade molto carnale, quasi da divinità mitica. Abbiamo chiesto all’attrice, come avvenne il suo innamoramento per Testori. «Il mio primo rapporto avvenne in occasione della messinscena dell’”Ambleto”, compagnia Tiezzi-Lombardi, con cui si diede il via ad una diversa maniera di accostarsi allo scrivano di Novate. Io interpretavo due personaggi, quello di Gertrude e di Lofelia,  di matrice lombarda». 

Prosegue Iaia Forte: «Confesso che, all’inizio, credetti di trovarmi a disagio con la materia, tanto che andai a “ lezione” da Franco Loi perché ritenevo quel tipo di dialetto reinventato, non organico al mio. Non molto tempo dopo, ne capii la musicalità e, come musicista, avendo studiato violino, scoprii una lingua il cui ritmo aveva la capacità di coinvolgere l’attore, aldilà della sua provenienza regionale. Ricordo che il pubblico e la critica apprezzarono la mia Lofelia vestita da sposa mentre danzava prima di morire».

Oltre Gertrude e Lofelia, ha interpretato la monaca di Monza nei “ Promessi sposi alla prova”,  sempre con Lombardi-Tiezzi, oltre che Erodiade, con la sua regia, che Testori aveva costruito con una forte carica erotica.
«In Testori, l’eros non va inteso come seduzione, ma come pura carnalità. Le sue, sono donne disperate, ma vitali, tanto che mi hanno fatto pensare a Filumena Marturano di Eduardo che, proprio per la sua virilità, potrebbe essere accomunata a entrambe. Gertrude è più complessa, perché divisa tra la difficoltà  del suo ruolo e la tormentata relazione col capocomico. Erodiade è una regina barbara, con un erotismo esplicito, dalla dimensione psichico-visionaria».

In fondo si tratta di una donna non accettata, ferita nell’orgoglio e, pertanto, gelosa, benchè Giovanni non avesse scelto di amare un’altra donna, ma di amare Cristo.
«Tutto vero, c’è da dire, però, che l’nnamoramento carnale di Erodiade va inteso anche come ricerca di assoluto, l’amore per Giovanni le ha fatto scoprire il desiderio di dare un senso alla propia vita, fino a volerla trascendere. Decidendo di farlo uccidere, lei ha espresso un suo sistema di pensiero. Personalmente amo Erodiade proprio per la sua  visionarietà e amo Testori perché chiede all’attore un investimento assoluto che gli permette di entrare in una dimensione catartica».

Ha in mente di riprenderlo?
«Sicuramente lo rifarò questa estate a Roma, all’aperto, ai Giardini della Filarmonica, ma il mio vero sogno è poterlo portare al Franco Parenti che ritengo la sede ideale, perché lì è nato il Testori rivoluzionario, quello che sapeva coniugare, non solo l’alto e il basso della lingua, ma anche l’alto e il basso dei sentimenti e delle passioni».

(intervista pubblicata su Il Giornale, 29 marzo)

Lunedì di Casa Testori. Ep.18


Puntata 18, lunedì 22 marzo ore 21.15

ore 21:15 In apertura di puntata Federica Fracassi leggerà una pagina di Testori dedicata al ciclo delle Veroniche di Mimmo Paladino.

ore 21:25 – A vent’anni di distanza dalla loro creazione, i Dormienti, una delle opere più celebri di Mimmo Paladino, arrivano a Milano. È stato lo stesso Paladino a firmare l’allestimento alla Galleria Cardi: come in origine, l’allestimento è accompagnato dalla colonna sonora formata appositamente da Brian Eno.  Mimmo Paladino sarà in diretta ai Lunedì di Casa Testori, per raccontare la genesi di questa installazione. Con lui Demetrio Paparoni, che 20 anni fa firmò il testo del libro dedicato ai Dormienti e che oggi ha scritto l’introduzione al catalogo della nuova installazione.

ore 21:45 – A seguire faremo un salto nella capitale parlando di una tendenza già molto diffusa all’estero che sta prendendo piede anche in Italia: la versione artistica del coworking, un grande spazio comune e condiviso a creare una galassia di studi d’artista, moltiplicando le occasioni e contaminazioni. L’estate scorsa nasce infatti a Centocelle, il celebre quartiere popolare romano: Post Ex. Un’ex carrozzeria di 1100 metri quadri viene ristrutturata dagli stessi artisti che l’andranno a occupare e a Eleonora Cerri Pecorella, Francesco D’Aliesio, Luca Grimaldi, Gian Maria Marcaccini, Lulù Nuti e Gabriele Silli, in breve si uniscono Federika Fumarola, Guglielmo Maggini, Alberto Montorfano e Azzedine Saleck. Non un collettivo ma un arcipelago di sensibilità che apre una strada nuova, destinata a diffondersi e moltiplicarsi, segnando la giovane proposta contemporanea. Ce ne parleranno due degli artisti: Lulù Nuti e Alberto Montorfano. 

Il sogno canta su una corda sola

Performance di Andrea Bianconi
per l’inaugurazione di
‘CASA DELLE ARTI – SPAZIO ALDA MERINI’

Il 21 marzo è la Giornata Mondiale della Poesia e sempre il 21 marzo è il giorno di un’altra ricorrenza importante: il compleanno della poetessa Alda Merini (Milano, 21 marzo 1931) che quest’anno avrebbe compiuto 90 anni. In virtù della felice ‘coincidenza’ nel primo giorno di primavera, si è scelto di dare avvio alla nuova gestione della Casa delle Arti – Spazio Alda Merini da parte dell’Associazione ‘Piccola Ape Furibonda’, ATS composta da Cetec, Ebano, Errante e Promise. 

Per celebrare questa occasione speciale, domenica 21 marzo 2021 alle 10.30 sulla pagina Facebook e Instagram di Spazio Alda Merini sarà trasmesso il video della performance “Il sogno canta su una corda sola” di Andrea Bianconi, realizzata dall’artista su invito del Cetec e su progetto di Casa Testori, con la collaborazione artistica di Donatella Massimilla

(Le riprese della performance sono state girate prima dell’entrata in vigore del Decreto-Legge 13 marzo 2021, n. 30)

Lungo un percorso simbolico sui Navigli di Milano, che va dal “Ponte Alda Merini” a via Magolfa 32 – sede della Casa delle Arti – Spazio Alda Merini21 diverse voci di donne – artiste, attrici, ex detenute, cittadine – hanno dato vita a una performance libera e “on the road”, declamando i versi della poesia creata da Andrea Bianconi attraverso 90 titoli di 90 poesie di Alda Merini scelte da Bianconi per celebrare i 90 della poetessa. 

Le parole si sono propagate nello spazio grazie alla ‘corda’ di un lunghissimo telefono senza fili, un’opera site specific ideata da Andrea Bianconi, che ha dato vita a un passaparola di versi unendo donne con vissuti e storie differenti. A raccogliere la corda, davanti alla porta della ‘Casa delle Arti – Spazio Alda Merini’, accompagnati dalla fisarmonica del musicista Gianpietro Marazza,Donatella Massimilla, Gilberta Crispino e Andrea Bianconi che, su una grande tela bianca disposta sul muro della Casa delle Arti, ha realizzato un’opera scrivendo a mano i 90 titoli di poesie di Alda Merini, opera poi donata dall’artista alla ‘Piccola Ape Furibonda’ per la Casa Museo di Alda Merini

«Donne per ridare voce e memoria non solo alla Poetessa, ma anche a tutte le persone amate, perdute e mai dimenticate, voci che aiutano a ritrovare se stesse. Nostalgie e desideri, versi poetici come semi di rinascita, ora più che mai, in cui avvertiamo la forte mancanza di teatro, arte, cultura e bellezza», dichiara Donatella Massimilla.

«Casa Testori ha accolto con grande interesse l’invito arrivato dal Cetec: grazie alla performance di Andrea Bianconi, artista con il quale abbiamo lavorato per tante iniziative di arte pubblica, si uniscono così due personaggi che hanno lasciato un profondo segno poetico sulla città in cui hanno vissuto, Alda Merini e Giovanni Testori», sottolinea Giuseppe Frangi, Vicepresidente Casa Testori.

L’arte della «bambina Merini», come amava chiamarla Pier Paolo Pasolini, muove i primi passi sul ponte a lei dedicato con le artiste del Cetec Elena Pilan, Mariangela Ginetti insieme ad altre attrici della compagnia di San Vittore e ad artiste vicine alla poetica del Cetec (da Claudia Casolaro a Ivna La Mart ed Elisa Munforte), a chi ha già interpretato pezzi di vita e poesie della Merini come Rossella Rapisardo fino a cittadine di differenti età e cultura. 

«Sono nata il ventuno a primavera
ma non sapevo che nascere folle,
aprire le zolle
potesse scatenar tempesta».

“IL SOGNO CANTA SU UNA CORDA SOLA” 
Performance per un telefono senza fili 
Andrea Bianconi – performer
Donatella Massimilla – collaborazione artistica
In collaborazione con Cetec e Casa Testori

Con la partecipazione di: Livia Abbatescianni, Giulia Angiolieri, Paola Brusa, Claudia Casolaro, Francesca Castelli, Gilberta Crispino, Elena D’Agnolo, Rossella De Pietri, Piera Durante, Noa Gabbai, Daniela Giaconi, Mariangela Ginetti, Linda Grittini, Ivna La Mart, Elisa Munforte, Anna Nicoli, Matilde Oggioni, Elena Pilan, Rossella Rapisarda, Karin Rossi, Greta Tommesani.

Data: 21 marzo ore 10.30 in streaming sulle pagine Facebook e Instagram di Spazio Alda Merini
@spazioaldamerini

Privacy Policy Cookie Policy