ORARI
Lun – Ven 10.00 -13.00 | 14.00 – 20.00
Sab – Dom su prenotazione
LA MOSTRA
Bisogna festeggiare! Torna sulle pareti della Casa di Novate la grande Biblioteca di Giovanni Testori: migliaia di volumi d’arte, monografie dell’8 e ’900, libri sull’arte lombarda, ma anche alcuni nuclei imprevedibili dedicati a manufatti sudamericani o africani.
E la sorpresa non finisce qui. Con l’occasione, l’Associazione Giovanni Testori ha acquisito anche un importante nucleo di oltre 40 dipinti e un centinaio di disegni, che permettono di presentare l’intero percorso di Testori pittore, dagli anni Quaranta agli anni Novanta.
Sono passi importanti, cui si affianca una terza e forse più importante novità: l’acquisizione dei diritti di Giovanni Testori, con i quali l’Associazione entra nel merito di una nuova gestione delle pubblicazioni e delle messinscene testoriane.
Inaugurazione domenica 8 ottobre, ore 17:30
Vi aspettiamo per scoprire in anteprima un primo assaggio della Biblioteca e della raccolta di dipinti, nonché per raccogliere idee per questo nuovo inizio.
Saranno con noi Giovanni Agosti, Luca Doninelli e Federica Fracassi.
dal 20 al 22 ottobre “Erodiàs” di Federica Fracassi con la regia di Renzo Martinelli approda a Bologna ai Teatri di Vita (Via Emilia Ponente 485).
Riproponiamo l’intervista fatta da Daniela Iuppa, studiosa romana, grande conoscitrice di Testori, che ha intervistato Federica Fracassi in occasione dello spettacolo andato in scena a Settembre a Roma.
Erodiàs fa parte del ciclo testoriano dei Tre lai (Cleopatràs, Erodiàs, Mater Strangosciàs): perché tra i tre testi la scelta è caduta proprio su Erodiàs?
Anzitutto mi ha colpito che Testori abbia dedicato alla figura di Erodiade ben tre testi, due in italiano e uno nella sua lingua inventata. Trovo interessante questo personaggio, questo purgatorio: Cleopatràs è l’inferno che ancora non conosce la rivelazione, Mater Strangosciàs il Paradiso che attende la Resurrezione e, nel mezzo, c’è Erodiàs, nel mezzo, nel limbo. Il limbo mi ha sempre attratto perché è molto umano. In Erodiàs c’è un’impossibilità, un non potersi muovere, un dover aspettare e basta, un essere condannati ad aspettare un Verbo che forse non arriverà. È un insieme di possibilità e impossibilità. Mi riguarda molto questo stare in mezzo, anche come donna, anche per la mia età di quarantenne, in mezzo alla vita. E poi volevo incontrare Testori la prima volta nel suo idioletto, subito mettermi nella sfida linguistica più ardita e anche per questo la mia scelta è caduta sul balbettio di Erodiàs.
A proposito di lingua… la lingua dei Lai è tutta musica e invenzione, ma l’impianto è fortemente lombardo: ci vuole coraggio a portarla a Roma… perché questa scelta? Cosa può dare Testori a Roma e, viceversa, Roma a Testori?
Coraggio, sì. Durante le messinscene milanesi in realtà ho avuto un pubblico variegato, da tutt’Italia, e tutti sono riusciti a rimanere agganciati allo spettacolo. Mi fido. Se si riesce a entrare nel lavoro è uno spettacolo caldo, che ti afferra. Non penso che Testori debba essere rappresentato solo in Lombardia. Quando vedo le opere di un autore come Mimmo Borelli per esempio, per me è difficile capire tutte le parole in quell’ impasto di dialetti campani arcaici e contemporanei, poetici e veri al tempo stesso, ma questo non mi impedisce di tuffarmi nel flusso della sua lingua. Anche con Testori stiamo parlando di musica, di poesia, non ci sono confini. C’è una verticalità che richiede un’attenzione a cui siamo sempre meno abituati, questo sì. Ma attira, incanta.
Cos’è stato per te, come attrice e come donna, l’incontro con Giovanni Testori?
Come attrice anzitutto è un banco di prova. Testori devi incontrarlo a un certo punto. Scrive per gli attori, per la carne, per chi è ferito dalla vita. Se non sei in grado di farlo passare nella carne non puoi essere quel tipo di attrice, e per me hai dei limiti, ma questo è un discorso più ampio. In me c’è stata anche tanta incoscienza! Tanto desiderio e tanta incoscienza. La femminilità non è facile nella lingua testoriana, perché la mancanza di una certa violenza, che è propria della donna, può portare a svilire la musica in un dialetto quotidiano semplice, dove queste figure mitiche si rimpiccioliscono e diventano figurine. E invece questa lingua è musica! Quindi occorre mantenerne l’altezza, la forma e insieme incarnarla. L’immedesimazione non basta. Infatti capisco Sandro Lombardi che da uomo ha voluto incarnare le regine mettendole in maschera e tramite una distanza ha trovato la magia, l’equilibrio. Per me c’è stata in realtà una prima tappa intermedia: mesi fa, con la regia di Renzo Martinelli, ho affrontato la lettura dei Tre lai attraversando drammaturgicamente le tre regine, inventandomi il personaggio di un’attrice che tornava a casa la sera sfatta e metteva su dischi di Mina e Ornella Vanoni, tra i pezzi preferiti di Testori, parlava del suo mal d’amore prendendo le parole di Testori a pretesto e tutti mi hanno detto che è stata una scommessa vinta, perché un Testori così al femminile, in questa direzione era una novità interessante. Perché in scena c’era un dolore femminile. Non so se è stata vinta davvero, ma io sono partita da me, non potevo fare altro. Non posso che partire da me.
Qual è stata la difficoltà maggiore che hai incontrato nel lavoro sui Lai?
Il rapporto tra la presenza e la lingua. Questa lingua, volendo, può essere imparata velocemente, la si può imparare come un mantra, ma non basta. Bisogna incarnarla. Devi trovare sul palco qualcosa per essere presente, qualcosa che sia collegato con te, qualcosa che non è psicologico. Si tratta di una violenza primordiale, si tratta di trovare quell’altezza che è anche una forma di generosità. Io ho tanti difetti come attrice, ecco, magari non sono virtuosa, ma generosa sì. Quella di Testori è una forma che bisogna capire, rispettare e vivere. Alla fine, per me, tutto si riassume nella lingua e in questo suo osare. Testori ha osato molto, ha sperimentato molto, ha rischiato molto. Il teatro è rischio, altrimenti non ha senso farlo. Testori ha rischiato sempre. E anche per me il teatro è questo rischio.
Se dovessi indicare una caratteristica inconfondibile, unica, del teatro testoriano?
Testori ha sempre una dimensione molto umana. Una riflessione sulla fragilità umana di fronte al sacro. E non intendo per forza il sacro dei credenti, ma il mistero che è al di la di noi. Testori mette la fragilità dell’uomo di fronte a ciò che è più grande di lui… Il che è molto teatrale, ma in realtà molto teatro di oggi è solo enunciativo, politico. Invece il teatro di Testori è politico dentro, è rivoluzionario, perché mostra l’uomo in lotta, come è stato lui, no? Solo gli attori che vogliono mettersi in questione e che cercano questo travaso e questo travaglio col pubblico, possono incarnare questa lotta. Altrimenti non lo fai, Testori, fai altro. E la regia non è inutile, non avrei tirato fuori quello che ho tirato fuori senza la regia di Renzo Martinelli. Non bisogna rifare le cose come le ha fatte Testori: probabilmente anche lui oggi le farebbe diversamente! Si possono trovare infiniti modi. Sandro Lombardi e Fabrizio Gifuni sono mondi differentissimi, ma in entrambi questa lingua si fa corpo. La lingua si fa carne. Devo vedere immagine e tormento. Esserci con una presenza. Spesso in teatro si cita il famoso qui e ora, ma non accade. Deve accadere. Occorre una presenza. Testori per me è lingua e presenza.
venerdì 20 ottobre 2017, ore 21:00
sabato 21 ottobre 2017, ore 20:00
domenica 22 ottobre 2017, ore 17:00
Il corso, nato dalla collaborazione tra Casa Testori e Tokalon, ha inteso fornire a studenti e docenti dell’ultimo anno delle scuole superiori gli strumenti per leggere e contestualizzare le principali tendenze artistiche internazionali del XX secolo. Strumenti fondamentali per acquisire una nuova familiarità con le espressioni artistiche contemporanee. Interrogando un’opera si può arrivare a toccare da vicino una estrema varietà di aspetti. Primo fra tutti, quello della legittimità estetica e ontologica dell’opera d’arte contemporanea che trova oggi, e non solo nelle aule scolastiche, ancora resistenze. I frequentanti hanno avuto la possibilità di acquisire un metodo di analisi specifico per le nuove forme dall’arte contemporanea e dei suoi mezzi espressivi: pittura e scultura, ma anche performance, installazione, fotografia o video. Oltre, naturalmente, a poter conoscere nel dettaglio i caratteri espressivi delle nuove correnti e tendenze, attraverso un’apertura che miri a ricostruirne il contesto culturale di nascita e fruizione.
IL PROGRAMMA
Alle radici del contemporaneo Video-lezioni introduttive
Henri Matisse, Beatrice Buscaroli (Accademia di Belle Arti, Bologna) Pablo Picasso, Elena Pontiggia (Accademia di Belle Arti, Milano) Marcel Duchamp, Marco Meneguzzo (Accademia di Belle Arti, Milano)
Nuove esperienze del contemporaneo Lezioni in presenza o diretta streaming tenute alternativamente a Bologna e Milano
Giuseppe Frangi (blogger e curatore) Andy Warhol, 6 dicembre 2017, ArteConte/1, Bologna Ai WeiWei, 12 gennaio 2018, ArteConte/2, Milano
Marco Tonelli (Accademia di Belle Arti di Foggia) Francis Bacon, 9 febbraio 2018, ArteConte/3, Bologna Damien Hirst, 23 febbraio 2018, ArteConte/4, Milano
Davide Dall’Ombra (Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano) Lucio Fontana, 9 marzo 2018, ArteConte/5, Bologna Anish Kapoor, 4 aprile 2018, ArteConte/6, Milano
L’ELABORATO FINALE
Il percorso formativo del Webinar Arte Contemporanea 2017/2018, strutturato secondo i requisiti indicati dalla direttiva 170 del MIUR, richiede anche un lavoro di circa 6 ore complessive di produzione di materiali da realizzarsi durante lo svolgimento del corso stesso. I docenti partecipanti dovranno realizzare e caricare sul portale del Webinar una relazione sul percorso effettuato, la progettazione di una unità di apprendimento (non unità didattica) relativa ai contenuti del Webinar o la narrazione di una sperimentazione realizzata in classe con i propri allievi, eventualmente corredata da produzione degli studenti.
INFORMAZIONI
Torale ore corso 22
Sedi delle lezioni Bologna* – c/o Liceo Malpighi, Via Sant’Isaia 77, Bologna Milano** – c/o Liceo Artistico Sacro Cuore, Viale Rombon 78, Milano
Chi siamo Direzione: Davide Dall’Ombra, Marco Ferrari, Lorenzo Raggi Comitato Scientifico: Beatrice Buscaroli, Davide Dall’Ombra, Giuseppe Frangi, Elena Pontiggia, Marco Tonelli. Comitato didattico: Martino Astolfi, Vincenzo Battista, Giuseppina Bolzoni, Luciana Borgi, Emanuele Dottori, Enzo Gibellato, Maria Elisa Giorgi, Alberto Maffeo, Alberto Montorfano, Melissa Tresin, Emanuele Triggiani
Modalità di iscrizione e partecipazione La quota di iscrizione al percorso annuale è di 130€ per i docenti che possono usufruire della Carta del Docente tramite SOFIA e di 90€ per i docenti non di ruolo o di scuola paritaria o che non possono usufruire della Carta docente. L’iscrizione per i gruppi classe è di 180€ (fino a un massimo di 25 partecipanti). Verrà rilasciato ai docenti un attestato di partecipazione pari a una Unità Formativa, agli studenti un attestato di partecipazione valevole per il credito scolastico. Le lezioni saranno fruibili per tutti gli iscritti anche in differita streaming senza limiti di accesso.
Un progetto di Casa Tesori A cura di Davide Dall’Ombra, Luca Fiore, Giuseppe Frangi e Francesca Radaelli Meeting di Rimini 20-26 Agosto 2017
Ingresso
Video Introduttivo
Madonna (2007) di Alberto Garutti
Madonna (2007) di Alberto Garutti
I Promessi Sposi cancellati per venticinque lettori e dieci appestati (2016) di Emilio Isgrò
I Promessi Sposi cancellati per venticinque lettori e dieci appestati (2016) di Emilio Isgrò
Arcipelago (2016-2017) di Giovanni Frangi
Arcipelago (2016-2017) di Giovanni Frangi
Via Crucis (2011) di Adrian Paci
Via Crucis (2011) di Adrian Paci
Qui Ora (2011) di Gianni Dessì
Lo sguardo di Michelangelo (2004) di Michelangelo Antonioni
Mutter und Tochter (2010) di Julia Krahn
November 8, 2001 (2001) di Wim Wenders
November 8, 2001 (2001) di Wim Wenders
Procession (2015) di Andrea Mastrovito
Procession (2015) di Andrea Mastrovito
The Last Supper (1986) di Andy Warhol
The Last Supper (1986) di Andy Warhol
The Last Supper (1986) di Andy Warhol
The Last Supper (1986) di Andy Warhol
IL PASSAGGIO DI ENEA Davide Dall’Ombra
[…] Passati i titoli di coda del video introduttivo della mostra, il visitatore deve immediatamente fare i conti con la prima delle dieci opere proposte, direttamente connessa al tema indagato e capace di attingere alla metafora virgiliana. È il dittico del 2010 di Julia Krahn, Mutter und Tochter (Madre e figlia), in cui l’artista si ritrae con la madre in due immagini che si completano in un pendant struggente. La Krahn usa da diversi anni la fotografia come un metodo di conoscenza di sé e dei più stretti rapporti famigliari. Quello che mostrano queste due foto è l’inizio di questo processo, e il primo passo – dopo alcuni lavori su di sé, sul proprio io e sul proprio desiderio di maternità – non poteva che concentrarsi sulla propria madre. Questo dittico è un percorso di conoscenza ma anche di accettazione, frutto di un travaglio, di una lotta affettiva ingaggiata con la madre, accolta come il proprio Anchise sulle spalle, nel primo scatto, e in un abbraccio pacificatorio, nel secondo. L’artista si gioca il tutto per tutto e chiede all’affetto principe e primigenio della sua vita di fare altrettanto. La nudità totale è l’espressione necessaria dell’accettazione di questa sfida. Quello che vediamo non è il frutto di un processo meditato a tavolino, ma di una conquista avvenuta proprio durante la posa. La fusione tra arte e vita è totale e l’arte diventa luogo in cui accogliere un processo naturale di accettazione del proprio essere figlia e della mortalità della propria madre. L’esecuzione dell’opera d’arte in sé, il suo processo tecnico – fatto di posa, autoscatto, cambio di pellicola, riposizionamento, fatica fisica, impazienza, imbarazzo… – produce due immagini inattese e perfette nella loro complementarietà, destinate a diventare il certificato di un punto di svolta d’ora in poi imprescindibile per il loro rapporto. È un’opera iconica e pienamente riuscita di quel processo di vaglio, rifiuto e conquista dei propri padri. E il fatto che a interpretare la metafora virgiliana sia una donna con la propria madre non è una semplice sostituzione di genere, ma un segno importante di come l’arte contemporanea registri il mutare dei tempi e la ritrovata centralità della figura femminile. Non è un caso che per proseguire la mostra occorra passare in mezzo a queste due immagini, due colonne d’Ercole necessarie che ci buttano a precipizio fuor di metafora e dentro la vita, alzando non poco il grado di aspettativa con cui approcciarsi alle altre opere presentate. Si tratta di nove “casi” in qualche modo esemplificativi, scelti tra i tanti possibili anche grazie alle proposte sempre pertinenti di Francesca Radaelli, senza nessuna pretesa di codificare categorie d’appartenenza o sintetizzare la varietà degli approcci riscontrabili. L’intento è stato quello di lasciare che fosse l’opera d’arte, non solo a raccontare uno dei modi possibili di rapportarsi con i propri padri, ma a mostrare il dramma, l’ampiezza e ricchezza inesauribile di questo rapporto, innanzitutto per sé. Ma i sette artisti viventi, ognuno presentato nel proprio spazio pensato a misura, vengono in qualche modo introdotti da due maestri del ’900: Andy Warhol e Michelangelo Antonioni, presenti grazie a una delle numerose intuizioni di Giuseppe Frangi che hanno segnato i passi di questa mostra. Due giganti di oggi impegnati in una coppia di omaggi a due giganti del passato: Leonardo e Michelangelo.
La prima opera è The Last Supper, un dipinto in acrilico su serigrafia riportata su tela del 1986 che testimonia l’ultimo ciclo del protagonista della Pop Art americana, che sarebbe scomparso l’anno seguente. Si tratta di un grande numero di opere di differente dimensione e tipologia, interamente dedicate all’Ultima cena leonardesca, nate per la mostra milanese allestita nei mesi successivi alla Galleria del Credito Valtellinese, nel Palazzo delle Stelline, a pochi passi dal Cenacolo. Rischia di essere il più complesso e articolato ciclo religioso mai realizzato da un artista americano, a testimonianza di una consapevolezza dell’iconicità dell’immagine leonardesca, tratta da una riproduzione comprata in un negozio coreano non distante dalla Factory, ma anche di una fede dell’artista tanto nascosta quanto reale, legata anche all’amore per la propria madre. Il grande dipinto nel refettorio di Santa Maria delle Grazie è qui citato letteralmente e usato come matrice della propria opera, rivisitata con la ripetizione e il colore fluo tipici del linguaggio di Andy Warhol. È un lavoro in sé rappresentativo di un modo di rapportarsi ai propri maestri, che punta a cogliere l’iconicità del modello da riprodurre, ossessivamente, nelle sue varianti per numero e colore. Un elogio della superficie, che Warhol intuisce essere il vero campo d’azione per l’artista moderno alla ricerca della profondità. Non c’è nulla d’irriverente, insomma, semmai un desiderio: «Pensi che gli italiani vedranno il rispetto che ho per Leonardo?», confidò Warhol all’amico Pierre Restany.
Quella che il grande Michelangelo Antonioni dedica alla Tomba di Giulio II a San Pietro in Vincoli, e al celebre Mosè di Michelangelo posto al centro del complesso, è un’opera sul silenzio. Il cortometraggio Lo sguardo di Michelangelo è considerato il testamento del regista. Realizzato nel 2004, tre anni prima della sua scomparsa, è l’unica opera in cui Antonioni compare come attore e lo fa occupando tutta la scena. Il regista si fa filmare mentre entra nella chiesa deserta, si avvicina trascinando i propri passi verso la scultura michelangiolesca, lentamente si approssima, osserva in profondità la scultura, fino a cedere a un contatto diretto, accarezzandola. Un percorso semplice, intenso e commovente, reso struggente dalla manifesta fatica del protagonista, segnato dall’età e, soprattutto, dall’ictus che lo aveva colpito quasi vent’anni prima, rendendogli difficoltoso camminare e parlare. Ma il silenzio non è qui il segno di una sconfitta obbligata dalle ingiurie del tempo, quanto, piuttosto, il vero protagonista, lo strumento con cui rendere il proprio omaggio a Michelangelo, che, tradizione vuole, quel silenzio tra arte e vita aveva vissuto per primo in tutta la sua drammaticità, arrivando a colpire la statua terminata, proprio pronunciando la frase «Perché non parli?!». Antonioni attinge all’esasperazione di Michelangelo per una bellezza perfetta che non si traduceva in vita, in possibilità di parola, e crea quel silenzio, ottenendolo con una ricerca tecnica complessa, necessaria per annullare i rumori della città e mantenere solo quelli pertinenti e significanti, come quelli prodotti dai passi lungo la navata o dalla fede nuziale sulla superficie marmorea. È così che lo sguardo di Michelangelo ne diventa il suono.
La ripetizione compulsiva che sprigiona energia, di Warhol, e la carezza di un silenzio pieno, di Antonioni. Due modi opposti segnano il diapason possibile dell’espressione di un amore riguadagnato verso i propri padri, e forniscono al visitatore il viatico per questo nuovo viaggio nell’arte contemporanea.
Al Meeting di Rimini del 2017 sono state esposte: I Promessi Sposi cancellati per venticinque lettori e dieci appestati (2016) di Emilio Isgrò; Madonna (2007) di Alberto Garutti; Arcipelago (2016-2017) di Giovanni Frangi; Via Crucis (2011) di Adrian Paci; New York, November 8, 2001(2001) di Wim Wenders; Procession (2015) di Andrea Mastrovito; Qui Ora (2011) di Gianni Dessì; Mutter und Tochter (2010) di Julia Krahn; Lo sguardo di Michelangelo(2004) di Michelangelo Antonioni; The Last Supper(1986) di Andy Warhol.
Dal 5 luglio al 24 settembre 2017 si svolge a Palazzo Reale di Milano, Giancarlo Vitali – Time out una vasta antologica che presenta una rilettura critica di 70 anni di pittura: dalle prime opere degli anni Quaranta, apprezzate da Carrà, fino all’ultima e inedita produzione.
Accanto alle opere degli anni Ottanta e Novanta, esaltate da Giovanni Testori, un’ampia selezione di dipinti, di incisioni e di disegni inediti.
a seguire un articolo di Giovanni Testori: I fasti della pittura – Il genio degli Ignoti: Giancarlo Vitali“Corriere della Sera”, 22 agosto 1984
Siamo, ecco, sulla riva di “quel ramo”. Così possiamo chieder soccorso alla voce sgranata, epperò fermamente docente e rammentante, di Franco Parenti mentre, nella “prova” degli “sposi promessi”, insegna a pronunciarlo il “quel” di “quel ramo”, e così, piano, piano, disegna, di lui, il ramo, la colma calma, frastagliatissima sequenza; fino ad arrivare là, sul fondo; poco prima che curvi verso Piona; quanto a dire, a Bellano; borgo che, di fatti, uno dei personaggi della “prova” pronuncia. Negare che questo avviene per rispetto alla storia della peste così come il gran Manzoni ebbe a raccontarcela, ma altresì per rispetto, affetto, ammirata attrazione e attrattissimo amore per la pittura-pittura di chi, in quel borgo, è nato, v’abita e lavora?
Vitali Giancarlo, classe 1929; scritto così, come nei registri delle nascite. Sul nome, lecchesissimo, è planato una sorta di meticciato bergamasco; per via materna; almeno, mi credo: Ma, ciò che più conta, su e nel nome sta chiuso un rebus; o un’umile, araldica “impresa”; rebus talmente chiaro che, forse, rebus non è più, bensì prova della forza di vita, della “vitalità”, appunto; forza del “nonostante tutto” e del “malgrado tutto”, che ebbe a far da nerbo (e nervo) alla di lui non facile esistenza; anzi, difficilissima.
Nacque, Vitali, figlio di pescatori; talmente che, ragazzo, mentre il “bellanasco” calava giù a rinfrescar la calura agostana […]. Già, il “bellanasco”! sapete che sia in sé, e pel lago d’intorno a Bellano, tale vento? Da dove prenda il nome, dato che il borgo l’abbiam rammentato, è fin troppo facile scoprire; ma conoscerlo! E, poi, goderlo! Come capitò a noi, là, nello studio dell’ignoto genio, o servo servilissimo della dea pittura, mentre, con la stessa velocità con cui il padre aveva mostrato persici e agoni, sciorinava, davanti ai nostri occhi increduli, esaltati ed esterefatti, i fasti, ecco, sì, i fasti, d’una pittura sontuosa e trionfante di sughi, succhi, rapine cromatiche, carnali ascendente e debordante, sempre, di fiumi di rose, di peonie e di sangue; una pittura della quale, fin lì, non avevamo avuto notizia che tramite una fotografia.
Può, una fotografia a colori, determinare tanta esigenza, e ansia, di conoscere l’autore dell’opera che vi è riprodotta? Non solo può; deve. A noi, e non solamente per quanto concerne la pittura moderna, è capitato più volte. Pensiamo, infatti, che la pittura, dai suoi fasti (insistiamo, a bella posta, su quest’unica e trionfante parola), chiami, comunque e sempre, in modi ora diretti, ora indiretti, quanti siano suoi veri adepti; adozione che sconfina, anzi, si getta e finisce in amore; o, per far rima come il pasticcio erotico-critico che essa si merita, adozione che finisce in passione. Poi, una volta dentro, tornar indietro! A meno che, per l’appunto, non si sia “mappisti” o “mappatori”! Ma, noi, della capacità di precostituire l’urbanistica dell’arte, non siamo minimamente dotati. Così restiamo all’adozione; e, ogni volta, finiamo nella passione.
Le cautele ci si distruggono fra mano. Ma, ecco, i fasti della pittura-pittura trapassano la carta delle fotografie; la vincono e la schiacciano come folgori o schegge che, dal sole, o da chissà mai quali occhi terrestri e insieme celesti, svelano le inaudite verità che, proprio sulla carta, la riproduzione osava appena accennare. Riproduceva, quella fotografia, che una pura casualità ci permise d’aver per mano, un coniglio; morto; anzi, scuoiato; deposto, ecco su un lenzuolo, come una vittima; feto assassinato dall’inneggiatissima libertà abortista d’oggidì (il richiamo, sacrificale e insieme truce, fu immediato).
La certezza che fosse pittura da toccare, d’amare, e da cui lasciarsi toccare, abbracciare, amare, ci afferrò subito. Restammo così incerti se passar sopra al piccolo, straziato cadavere le mani; ovvero deporvi un velo, come avremmo fatto sul corpo esanime d’un bambino. Ci dicemmo, subito, che bisognava vederlo, quel sacro lacerto, quel sacro, sanguinante brano di sacra, sanguinante pittura; e conoscerne, insieme, l’ignoto autore; e così cavarlo, in qualche modo, dal buio; dal silenzio; dal nulla.
Ci inseguimmo, Vitali e io, come in un’inestricabile mosca-cieca. Finché l’inseguimento si risolse; tramite il figlio; pittore anch’esso; massimamente, anzi, disegnatore (e di quali sottili, snervati incanti già ebbi a dire e più dovrò dire e raccontare presto). Fummo, infine, lì; nel già citato studio; mentre scendeva, a rinfrescare l’estiva calura, lui, il “bellanasco”. Chiedemmo, a Vitali, la gentilezza di mostrarci subito il coniglio; anzi, il sacro feto; il sacro, gemente (ancorché morto) brandello; ben più umano, che animale. Fummo accontentati.
Allora, ciò che la fotografia ci aveva lasciato leggere e presagire, s’accese, gorgogliò, come se, estratta da frigidaire, la bestia fiorisse tutta del sangue che gli alti gradi avevan impietrito e raggelato. Sangue, sì; o, più che sangue, rubini; e, tra i rubini, le viole; soprattutto là dove la tumefazione della martoriata creatura aveva passato il limite; o dove più le mani assassine avevano infierito… Il testo aumentava e accelerava quanto, dalla fotografia, ci eravamo immaginati; anzi, lo glorificava.
Ci riuscì impossibile abbreviar la sosta. Era dai tempi dei primi, diretti e drammatici incontri con gli animali squartati di Soutine che non avvertivamo più una così estrema vocazione della pittura a magnificare se stessa proprio nell’atto in cui si flagellava, in cui si introduceva, in cui affogava o annaspava nell’ematico pantano. Con questa differenza, però: che mentre, in Soutine, la flagellazione necessitava di far passare la realtà entro il cunicolo d’un accanimento deformativo, seppur poi neo-formativo, in Vitali, tale flagellazione, andava a coincidere, e a coincidere millimetralmente, tramite una sorta d’attonita e calmante forza obbiettiva, con le realtà stessa. Insomma, al coniglio di Vitali era abbisognato solo essere guardato e amato da lui, Vitali; solo era abbisognato di venir collocato dal pittore sull’altare dove, da sempre, vengono posti i martiri, i vinti, gli assassinati e i deietti, perché gli ori e le pietre della pittura, magnificando il piccolo corpo, magnificassero il loro trionfo; anzi, trionfalmente lo celebrassero. Dopo i conigli (scoprimmo, infatti, che si trattava di una serie), fu la volta d’altri animali squartati; o di loro, audaci, imminentissimi frammenti. Ne colava il sangue.
Due grandi intellettuali che con le loro idee eterodosse hanno segnato il secondo Novecento a Milano, stando su diverse posizioni ma con tante imprevedibili affinità. Questo dialogo a distanza viene rilanciato all’interno di Milano Arch Week: protagonisti Giovanni Agosti, docente di Storia dell’Arte alla Statale, e Alberto Ferlenga, rettore dell’Università Iuav di Venezia. Modera Giuseppe Frangi
“Tra le tante cose che accomunano Aldo Rossi e Giovanni Testori, la più riassuntiva è forse il senso della teatralità della vita, la percezione della realtà come spettacolo, come luogo di cui stupirsi ogni giorno, così come ci si stupisce della propria esistenza. E anche il teatro come meccanismo dentro cui le opere si compongono.
Per l’uno l’architettura, per l’altro la scrittura/la parola, sono le forme della conoscenza e della ricerca. Ricerca della felicità /della verità che prende. Modi non esclusivi, ma quasi contingenti in un campo di ricerca immenso: letteratura, storia, arte, teatro, cinema, che si confondono nella propria memoria/biografia; nulla resta escluso dall’indagine sulla realtà totale, e dal senso di mistero e insieme di finitezza delle cose.
Moltissimi i temi “sociali” di contatto – l’autentica predilezione per le periferie, per le storie degli uomini che le vivono, uomini “qualsiasi”, come i personaggi manzoniani – e pure alcuni elementi autobiografici: le famiglie della borghesia lombarda, l’educazione cattolica…
Ritornano analogie anche nei rispettivi linguaggi / espressioni: tanto l’architettura di Rossi, quanto la scrittura di Testori, è classica, luminosa, perfino erudita, e allo stesso tempo evoca chiaramente le radici popolari e rurali della propria storia: l’agricoltura e gli edifici della tradizione molto amati da Rossi, le sue “forme realiste e popolari”. Così è la parola di Testori…
L’incontro vuole suggerire dei punti di contatto, o di incrocio / di incontro – un incontro che non è avvenuto nella vita reale, anche se esiste una lettera di Testori ad Aldo Rossi – e stabilire delle “corrispondenze”. Cerca di farlo isolando all’intero delle rispettive, immense produzioni, dei “temi analoghi” intorno ai quali hanno costruito i loro apparati di pensiero, e dei “luoghi analoghi”, che in alcuni casi stupiscono per quanto siano coincidenti: Milano, innanzitutto, che è stata per entrambi la città di nascita, in cui hanno operato e lasciato la propria eredità, ma anche altri luoghi di affezione: la pianura padana, i laghi lombardi, i Sacri Monti, il San Carlone di Arona. E il David di Tanzio, quadro tra i più amati da Testori, che appare anche nel manifesto rossiano per eccellenza, quello della Città analoga, del 1976.”
Visita guidata con l’artista Sabato 1 luglio e Sabato 8 luglio, ore 17.00
Non è necessario prenotarsi basata presentarsi 10 min prima nel bookshop della mostra
23 giugno – 9 luglio 2017 inaugurazione: Giovedì 22 giugno, dalle ore 19.00
A cura di Vera Agosti
Casa Testori è lieta di invitare il pubblico all’inaugurazione di “Pagine”, unapersonale diEmanuele Gregolin, a cura di Vera Agosti, con un incontro per presentare il volume dedicato al ciclo pubblicato da Prearo Editore. All’incontro saranno presenti l’artista e la curatrice.
L’artista, di Novate Milanese, è un pittore del movimento Le Meduse, che con una figurazione di ispirazione classica riflette su tematiche sociali attuali. I suoi interessi si rivolgono anche all’architettura, la fotografia e la musica.
Emanuele Gregolin occupa le stanze al primo piano della Casa Casa Testori con 21 opere della nuova serie Pagine e un grande dipinto della serie Interni.Pagine nasce nel 2010-2011. Vengono utilizzati i fogli dei giornali, come elemento costitutivo della composizione, selezionati per una particolare espressione o una specifica parola, solitamente dedicata all’arte, alla musica o alla situazione culturale italiana. Il richiamo al sociale torna inoltre molto forte nei discorsi che si legano alla Chiesa, ai migranti, ai social media e alla rete, accompagnati da frasi scelte ed emblematiche. Le opere presentano forme sempre più astratte e concettuali. In esse sono palesemente evocati Mondrian, Klee, Basquiat… La serie completa può richiamare in un certo qual modo le cancellature di Emilio Isgrò e il coloratissimo lavoro dell’apprezzato Friedensreich Hundertwasser. È un viaggio quotidiano sulle pagine dei giornali, che ora il lettore potrà compiere sulle splendide immagini del prestigioso libro pubblicato dalla Prearo Editore, con la prefazione di Vera Agosti e il testo critico di Angela Madesani.
EMANUELE GREGOLIN – PAGINE
Fino al 9 luglio a Casa Testori, Largo A. Testori 13 (via Piave angolo via Dante) Novate Milanese
“Nonostante fosse originario di Firenze, Russoli si stabilisce infatti a Milano nel 1950, e qui, fino alla morte, avvenuta nel ’77, è sempre al centro di tutte le più importanti operazioni di rilancio dei musei cittadini. In una Milano devastata dai bombardamenti della guerra, è al fianco di Fernanda Wittgens per la ricostruzione, “come era e dove era”, del Poldi Pezzoli, segue da vicino (e senza lesinare critiche) l’“orchestrazione romantica”, estremamente razionale, del nuovo allestimento del Museo del Castello Sforzesco, e dal 1957 è direttore della Pinacoteca di Brera. Grande capacità organizzativa, chiarezza e lucidità mentale: sono le armi con le quali si mostra capace di apportare innovative rivoluzioni nella concezione museografica dell’antico museo cittadino, sempre attento a non snaturarne l’identità. Il suo progetto conosciuto come “Grande Brera” significava un museo aperto, che si confrontava con la realtà coinvolgendo il pubblico di fasce sociali e interessi culturali diversi.
Oggi la casa editrice Skira pubblica Senza utopia non si fa la realtà. Scritti sul museo (1952-1977) di Russoli, in cui si concentrano le riflessioni e i risultati di oltre vent’anni del suo lavoro.”
Ne parliamo con Erica Bernardi, curatrice del volume, alla quale è stato affidato l’archivio dello studioso e con James M. Bradburne direttore generale della Pinacoteca di Brera e della Biblioteca Braidense, l’unico che ha compreso la portata rivoluzionaria del progetto della “Grande Brera” e che pare determinato a portarlo a compimento.
“«Io l’ho visto!» recitava il titolo di un’opera di Goya nella serie dei Disastri della guerra. Fu il maestro spagnolo a scagliarsi per primo contro i soprusi e la corruzione dilagante nella Spagna di inizio Ottocento. Un padre nobile dell’arte impegnata. Non a caso l’artista Massimo Kaufmann prende oggi come modello le sue incisioni per darne una versione contemporanea. Le sagome dei personaggi viziosi e guasti sono riprodotte battendo a macchina lettere ossessive, come spettri di corpi sbriciolati dal malcostume. Nella sala del camino di Casa Testori quest’opera sferra un pugno nello stomaco a chi, giunto a metà percorso, non avesse ancora capito il concetto: l’arte ha un ruolo sociale e può fustigare ogni forma di potere.”
Chiara Gatti, La Repubblica
L’opera di Massimo Kaufmann ispirata ai Capricci di Goya è una delle opere simbolo della mostra “arte CONTRO la corruzione”. Con gesto generoso Kaufmann ha tirato 50 copie dell’opera in forma di manifesto, numerate e firmate. Il ricavato della vendita va a sostegno di Casa Testori.
Il multiplo viene venduto a 50 euro.
È un’occasione straordinaria per acquisire un’opera simbolicamente così significativa e insieme un modo di attivarsi rispetto a un progetto, arte CONTRO la corruzione, che sta suscitando molto interesse e che ha visto tanti artisti scendere in campo con grande convinzione e qualità.
Massimo Kaufmann, Nadie nos ha visto, 1996, disegno a macchina da scrivere
Nella stanze di Casa Testori l’arte dà lezioni di moralità
CHIARA GATTI
«Io l’ho visto!» recitava il titolo di un’opera di Goya nella serie dei Disastri della guerra. Fu il maestro spagnolo a scagliarsi per primo contro i soprusi e la corruzione dilagante nella Spagna di inizio Ottocento. Un padre nobile dell’arte impegnata. Non a caso l’artista Massimo Kaufmann prende oggi come modello le sue incisioni per darne una versione contemporanea. Le sagome dei personaggi viziosi e guasti sono riprodotte battendo a macchina lettere ossessive, come spettri di corpi sbriciolati dal malcostume. Nella sala del camino di Casa Testori quest’opera sferra un pugno nello stomaco a chi, giunto a metà percorso, non avesse ancora capito il concetto: l’arte ha un ruolo sociale e può fustigare ogni forma di potere.
Ecco infatti, sulla parete di fronte, lo striscione di Marco Cingolani che urla Il dovere al potere, slogan ispirato al lessico dei cortei, che rivendica obblighi morali. Lì accanto, una falce di Stefano Arienti è conficcata nel muro con una furia che sfregia l’intonaco rosa di questa bella casa borghese. L’attrezzo contadino diventa metafora di una rivolta cresciuta dal basso.
Detto questo si capisce come la mostra “Arte contro la corruzione”, curata da Giuseppe Frangi e Davide Dall’Ombra, nata dopo un ciclo di incontri al Teatro Franco Parenti, sia studiata per fare riflettere tutti su un tema gigantesco: il senso civico della ricerca estetica invitata a documentare episodi di scottante attualità. Nel gruppo di 29 artisti internazionali, di alto livello, ci sono nomi di intellettuali engagé. Il cinese Zhang Bingjian ha commissionato a una squadra di pittori accademici 1600 ritratti di funzionari cinesi incriminati per corruzione. Regina Josè Galindo legge sullo schermo le dichiarazioni di donne vittime di violenze sotto il regime in Guatemala. Il collettivo ArtsLords dipinge murales sulle macerie di Kabul, risposta afghana al pacifismo dell’inglese Bansky. Fra i classici italiani non poteva mancare La costituzione cancellata di Emilio Isgrò, atto di accusa verso la mancata applicazione di articoli fondamentali per la nostra società civile. Mimmo Paladino, nel suo nodo di ferro, cela l’allegoria di un mondo distorto, mentre il duo di ceramisti Bertozzi & Casoni scolpisce un dittico di budelli idraulici corrotti dall’usura, richiamo iconico ai sette peccati capitali. Raccapricciante il video di Filippo Berta in cui tre lupi azzannano la bandiera italiana. La tachicardia si placa un poco davanti al dipinto di Dessì, Adamo ed Eva sedotti dalla mela; primo atto di corruzione nella storia dell’umanità.