A cura di Davide Dall’Ombra e Francesco Gesti
Casa Testori
11 Ottobre 2015 – 14 Febbraio 2016
OREFICE DEL NOSTRO TEMPO
Giovanni Testori
Como, Marzo 1983
Credo che quanti abbiano visitato una mostra di Congdon saranno stati subito colpiti — e poi su questo, penso, avranno soprattutto meditato — da una verità globale, che fa come da basso continuo, da ron ron, a tutta la grande carriera di questo maestro. Ed è una verità di base esemplare, è la verità di base — o dovrebbe esserlo — di ogni uomo. In quanto ciò che emerge per primo, come una tenebrosa e luminosa realtà, è che William Congdon è sì cittadino americano, perché è nato in America, ma in realtà è cittadino del mondo. La sua storia avviene, si svolge non in una città, non in una nazione, non in una sola cultura, ma ha come suo proprio sangue — come sua propria pulsione, come sua propria avventura e destino — di visitare, conoscere, amare e, direi, di impattarsi ogni volta, di abbracciare ogni volta città, nazioni, culture diverse. Ogni volta l’incontro con una nazione, con una cultura, con una città, con un paese, con l’ansa di un golfo, con un pezzo di mare, ovvero con la sterminata dolcezza della pianura lombarda, ogni volta l’incontro ha un aspetto di una definitiva assunzione e, nello stesso tempo, di una definitiva caduta del pittore dentro la verità di questi diversi luoghi, di queste diverse culture, di queste diverse città, paesi, frammenti di mare, o di campagna.
Non che Congdon cambi, Congdon resta sempre se stesso, naturalmente, nel procedere della sua avventura. Ma direi che il destino da cui è chiamato è quello di, ogni volta, stringersi, farsi mangiare, farsi stringere, con un rapporto che è quasi eucaristico (e magari un po’ cannibalesco, se vogliamo) con le realtà che di volta in volta la sua sete, il suo bisogno di conoscere città, nazioni, culture, paesi (quindi di conoscere la creazione, di conoscere la terra) lo spinge a incontrare. E allora si parte da New York per procedere in una sequela di immagini che non hanno paragone nella storia della pittura moderna. Alcuni pittori ci hanno dato immagini certo sorprendenti, memorabili, patetiche, gloriose, drammatiche di alcuni frammenti del mondo. Nessun pittore ci ha dato una catena, direi un’epopea, un poema, in cui le città più diverse del mondo abbiano trovato, come in lui, un cantore sconfitto e, dunque, vittorioso.
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LA MOSTRA
“Pianura” è la mostra che nel 2016 Casa Testori ha dedicato al pittore William Congdon (1912-1998): artista internazionale dell’Action Painting amato da Giovanni Testori che, dalla New York degli amici Jackson Pollock e Mark Rothko, dopo aver viaggiato in tutto il mondo, decide di radicarsi a sud di Milano e dedicare la sua ultima produzione al ritratto intimo di campi coltivati, risaie e frutti della terra lombarda.
La mostra, realizzata in collaborazione con The William Congdon Foundation, puntava a indagare il ventennio lombardo del maestro americano. I circa 50 dipinti e i 20 pastelli selezionati descrivevano una parabola di conoscenza sempre più intima e profonda del sud-ovest milanese, che costituisce l’apice del suo percorso.
Le stanze tematiche presentavano i diversi nuclei intorno ai quali si articola la sua produzione: riemergevano, in una chiave nuova, i nodi affrontati a fianco degli action painters, frutto di un’osservazione solo apparentemente stanziale.
Dopo le New York degli anni Quaranta, i Sahara e Santorini degli anni Cinquanta, la ricerca da spaziale si fa temporale. Protagoniste diventano la potenza della terra, delle sue trasformazioni e la mutabilità inesauribile del ciclo stagionale, delle colture e dei fenomeni atmosferici. È così che i campi sono chiamati per nome e il passaggio del tempo è fissato con la spatola tra i lunghi i solchi della pittura a olio.
Ricostruita per l’occasione, una sorta di quadreria immaginifica immergeva il visitatore tra le visioni notturne del colore dei campi ubertosi, in una relazione intima, lirica, quando non mistica e simbolista, con la terra, l’orzo, la soia, il mais, i glicini e le violette.
Non si trattava tuttavia di visioni idilliache, perché lo sguardo di Congdon lo portava a sconvolgere l’orizzonte sui campi, che da una disposizione lineare che ricorda ancora le città, muta in un disassamento dei piani, quasi a seguire le trasformazioni telluriche dell’origine. Un tormento, anche materico, che si risolve e trova pace nelle straordinarie Nebbie che aprono la via ai monocromi, introducendo una profonda trasformazione nella percezione e rappresentazione dello spazio, del rapporto tra i suoi elementi strutturali (cielo, terra e orizzonte) secondo un’ottica sempre meno naturalistica.
Riemergevano così le meditazioni sull’opera di Braque e De Staël, ma soprattutto, i confronti e dialoghi pittorici intessuti in presa diretta con la Scuola di New York di Betty Parson e Peggy Guggenheim, che hanno portato opere di Congdon nei più importanti musei di New York e alla Peggy Guggenheim Collection di Venezia.
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