Giancarlo Vitali, Time Out – Palazzo Reale
Dal 5 luglio al 24 settembre 2017 si svolge a Palazzo Reale di Milano, Giancarlo Vitali – Time out una vasta antologica che presenta una rilettura critica di 70 anni di pittura: dalle prime opere degli anni Quaranta, apprezzate da Carrà, fino all’ultima e inedita produzione.
Accanto alle opere degli anni Ottanta e Novanta, esaltate da Giovanni Testori, un’ampia selezione di dipinti, di incisioni e di disegni inediti.
a seguire un articolo di Giovanni Testori: I fasti della pittura – Il genio degli Ignoti: Giancarlo Vitali“Corriere della Sera”, 22 agosto 1984
Siamo, ecco, sulla riva di “quel ramo”. Così possiamo chieder soccorso alla voce sgranata, epperò fermamente docente e rammentante, di Franco Parenti mentre, nella “prova” degli “sposi promessi”, insegna a pronunciarlo il “quel” di “quel ramo”, e così, piano, piano, disegna, di lui, il ramo, la colma calma, frastagliatissima sequenza; fino ad arrivare là, sul fondo; poco prima che curvi verso Piona; quanto a dire, a Bellano; borgo che, di fatti, uno dei personaggi della “prova” pronuncia. Negare che questo avviene per rispetto alla storia della peste così come il gran Manzoni ebbe a raccontarcela, ma altresì per rispetto, affetto, ammirata attrazione e attrattissimo amore per la pittura-pittura di chi, in quel borgo, è nato, v’abita e lavora?
Vitali Giancarlo, classe 1929; scritto così, come nei registri delle nascite. Sul nome, lecchesissimo, è planato una sorta di meticciato bergamasco; per via materna; almeno, mi credo: Ma, ciò che più conta, su e nel nome sta chiuso un rebus; o un’umile, araldica “impresa”; rebus talmente chiaro che, forse, rebus non è più, bensì prova della forza di vita, della “vitalità”, appunto; forza del “nonostante tutto” e del “malgrado tutto”, che ebbe a far da nerbo (e nervo) alla di lui non facile esistenza; anzi, difficilissima.
Nacque, Vitali, figlio di pescatori; talmente che, ragazzo, mentre il “bellanasco” calava giù a rinfrescar la calura agostana […]. Già, il “bellanasco”! sapete che sia in sé, e pel lago d’intorno a Bellano, tale vento? Da dove prenda il nome, dato che il borgo l’abbiam rammentato, è fin troppo facile scoprire; ma conoscerlo! E, poi, goderlo! Come capitò a noi, là, nello studio dell’ignoto genio, o servo servilissimo della dea pittura, mentre, con la stessa velocità con cui il padre aveva mostrato persici e agoni, sciorinava, davanti ai nostri occhi increduli, esaltati ed esterefatti, i fasti, ecco, sì, i fasti, d’una pittura sontuosa e trionfante di sughi, succhi, rapine cromatiche, carnali ascendente e debordante, sempre, di fiumi di rose, di peonie e di sangue; una pittura della quale, fin lì, non avevamo avuto notizia che tramite una fotografia.
Può, una fotografia a colori, determinare tanta esigenza, e ansia, di conoscere l’autore dell’opera che vi è riprodotta? Non solo può; deve. A noi, e non solamente per quanto concerne la pittura moderna, è capitato più volte. Pensiamo, infatti, che la pittura, dai suoi fasti (insistiamo, a bella posta, su quest’unica e trionfante parola), chiami, comunque e sempre, in modi ora diretti, ora indiretti, quanti siano suoi veri adepti; adozione che sconfina, anzi, si getta e finisce in amore; o, per far rima come il pasticcio erotico-critico che essa si merita, adozione che finisce in passione. Poi, una volta dentro, tornar indietro! A meno che, per l’appunto, non si sia “mappisti” o “mappatori”! Ma, noi, della capacità di precostituire l’urbanistica dell’arte, non siamo minimamente dotati. Così restiamo all’adozione; e, ogni volta, finiamo nella passione.
Le cautele ci si distruggono fra mano. Ma, ecco, i fasti della pittura-pittura trapassano la carta delle fotografie; la vincono e la schiacciano come folgori o schegge che, dal sole, o da chissà mai quali occhi terrestri e insieme celesti, svelano le inaudite verità che, proprio sulla carta, la riproduzione osava appena accennare. Riproduceva, quella fotografia, che una pura casualità ci permise d’aver per mano, un coniglio; morto; anzi, scuoiato; deposto, ecco su un lenzuolo, come una vittima; feto assassinato dall’inneggiatissima libertà abortista d’oggidì (il richiamo, sacrificale e insieme truce, fu immediato).
La certezza che fosse pittura da toccare, d’amare, e da cui lasciarsi toccare, abbracciare, amare, ci afferrò subito. Restammo così incerti se passar sopra al piccolo, straziato cadavere le mani; ovvero deporvi un velo, come avremmo fatto sul corpo esanime d’un bambino. Ci dicemmo, subito, che bisognava vederlo, quel sacro lacerto, quel sacro, sanguinante brano di sacra, sanguinante pittura; e conoscerne, insieme, l’ignoto autore; e così cavarlo, in qualche modo, dal buio; dal silenzio; dal nulla.
Ci inseguimmo, Vitali e io, come in un’inestricabile mosca-cieca. Finché l’inseguimento si risolse; tramite il figlio; pittore anch’esso; massimamente, anzi, disegnatore (e di quali sottili, snervati incanti già ebbi a dire e più dovrò dire e raccontare presto). Fummo, infine, lì; nel già citato studio; mentre scendeva, a rinfrescare l’estiva calura, lui, il “bellanasco”. Chiedemmo, a Vitali, la gentilezza di mostrarci subito il coniglio; anzi, il sacro feto; il sacro, gemente (ancorché morto) brandello; ben più umano, che animale. Fummo accontentati.
Allora, ciò che la fotografia ci aveva lasciato leggere e presagire, s’accese, gorgogliò, come se, estratta da frigidaire, la bestia fiorisse tutta del sangue che gli alti gradi avevan impietrito e raggelato. Sangue, sì; o, più che sangue, rubini; e, tra i rubini, le viole; soprattutto là dove la tumefazione della martoriata creatura aveva passato il limite; o dove più le mani assassine avevano infierito… Il testo aumentava e accelerava quanto, dalla fotografia, ci eravamo immaginati; anzi, lo glorificava.
Ci riuscì impossibile abbreviar la sosta. Era dai tempi dei primi, diretti e drammatici incontri con gli animali squartati di Soutine che non avvertivamo più una così estrema vocazione della pittura a magnificare se stessa proprio nell’atto in cui si flagellava, in cui si introduceva, in cui affogava o annaspava nell’ematico pantano. Con questa differenza, però: che mentre, in Soutine, la flagellazione necessitava di far passare la realtà entro il cunicolo d’un accanimento deformativo, seppur poi neo-formativo, in Vitali, tale flagellazione, andava a coincidere, e a coincidere millimetralmente, tramite una sorta d’attonita e calmante forza obbiettiva, con le realtà stessa. Insomma, al coniglio di Vitali era abbisognato solo essere guardato e amato da lui, Vitali; solo era abbisognato di venir collocato dal pittore sull’altare dove, da sempre, vengono posti i martiri, i vinti, gli assassinati e i deietti, perché gli ori e le pietre della pittura, magnificando il piccolo corpo, magnificassero il loro trionfo; anzi, trionfalmente lo celebrassero. Dopo i conigli (scoprimmo, infatti, che si trattava di una serie), fu la volta d’altri animali squartati; o di loro, audaci, imminentissimi frammenti. Ne colava il sangue.
Posted on: 29 Giugno 2017, by : admin