È scomparso il critico teatrale Renato Palazzi, una delle firme più acute e importanti di cui disponeva il giornalismo d’autore italiano. Lo ricordiamo con la bellissima analisi sulla lingua dell’Ambleto di Testori, pubblicata nel programma di sala dello spettacolo, stampato per il debutto al Teatro Franco Parenti, allora Salone Pier Lombardo, il 16 gennaio 1973.
MITO E STORIA
Nel linguaggio dell’Ambleto
di Renato Palazzi
L’Ambleto è prima di tutto la reinvenzione o la trasfigurazione di un Mito in termini linguistici. Il linguaggio dell’«Ambleto» è un materiale espressivo duro, grezzo, sanguigno e carnoso come l’umanità che se ne serve. Ma soprattutto è un linguaggio inventato, nelle sue connotazioni temporali, geografiche, umane. Ora, il carattere precipuo del segno linguistico è la sua elevata concettualità, cioè la sua estensibilità ad un numero pressoché illimitato di oggetti dello stesso genere. Ma il linguaggio dell’«Ambleto», nato per il Mito e nel Mito, si propone come una dimensione primitiva ed originaria della parola, ritrovata al di fuori del carico di significazioni e di convenzioni dovute ad una storia secolare: la parola non è più, dunque, espressione di un concetto valido per tutti, qui o altrove, ma ritrova il proprio potere significante solo a contatto con la fisicità stessa degli oggetti e della realtà del Mito, cui è intimamente ed univocamente legata. Il linguaggio dell’«Ambleto» è dunque la folle avventura di un evento scenico che tende a rinominare, e quindi a riconoscere e perciò stesso a conoscere, la realtà, in un processo di straniamento linguistico che finisce col ritessere l’assetto dell’universo. La sua stessa apparente disorganicità, il coacervo di elementi di diversa provenienza che esso presenta, sembrano denotare la sua impossibilità di farsi sistema, processo di astrazione e cristallizzazione degli impulsi del reale. Nata dalla Materia e nella Materia, questa lingua nella Materia resta calata, o meglio aspira a farsi Materia essa stessa. Parole oggetto, parole cose che delle cose condividono la necessità, la posizione nell’ordine del l’universo, l’irreversibile univocità, la prigionia nella forma e nel volume, nello spazio e nel tempo. Ma se il linguaggio è, prima ancora che momento della comunicazione, funzione della riflessione e del pensiero, l’umanità che di tale linguaggio si serve non potrà che pensare, immaginare, sognare e riflettere secondo i termini di una «logica del concreto» le cui coordinate passino attraverso le esigenze del corpo e dei sensi prima che della mente e della ragione. Gli elementi di una lingua sono sempre espressione del grado di libertà raggiunto dai suoi depositari sulle contingenze della condizione quotidiana: il linguaggio dell’«Ambleto», così profondamente intessuto di cose prima che di idee, è un insieme caotico di parole oggetto poste l’una accanto all’altra dall’ordine imprevedibile degli eventi e della necessità, e non dall’atto creatore di una volontà libera ed aspirante al pieno ordine dell’intelletto. Ecco dunque il linguaggio operare un processo di regressione del materiale umano dell’opera: pensieri oggetto, pensieri cose sono i termini di un intelletto che non è ancora riuscito a fondare un proprio ordine al di sopra del dato immediato, della violenza stessa della realtà quotidiana. Ci troviamo di fronte ad un’umanità pre-aristotelica, non ancora uscita dal caos delle immagini e dei sentimenti per liberarsi alla funzione ordinatrice dell’intelletto, alla composizione di un universo di idee svincolate dalla tirannia delle pulsioni informi della realtà oggettuale. Se la Storia è la fondazione di un ordine universale composto dal pensiero critico, l’umanità dell’«Ambleto» è fuori dalla Storia: in quanto in essa sembrano vivere simultaneamente tutte le storie possibili, appare al di sopra della Storia; ma in quanto è segnata dall’apparizione di una presa di coscienza, di un’intuizione che aspira a farsi paradigma di Azione, essa si pone come fondamento ed inizio della Storia stessa. «L’Ambleto» è dunque Mito di un’umanità primigenia ed indifferenziata, che reca con sé già impliciti tutti gli elementi del proprio divenire ed attende solo l’atto risolutore che li illuminerà alla coscienza: un favoloso popolo ctonio, che spunti dalla terra rivestito di tutti gli attributi della propria storia, facendosi incontro alla scintilla che ne metterà in movimento la dinamica chiarificatrice e risolutrice, verso la catastrofe e verso la conoscenza. E come in ogni mito che si rispetti, Ambleto, eroe primevo ed antenato leggendario del genere umano, rappresenta il classico Portatore di Civiltà: la sua azione, la sua strage non sono una conclusione, ma l’inizio di un ciclo. Il suo furore e la sua distruzione sono gli stessi che, nei riti di iniziazione, consentono di smembrare e di struggere l’uomo vecchio ed inutile per riplasmare, dall’interno, l’uomo nuovo finalmente Uomo. Ambleto è dunque protagonista e vittima del primigenio rito di iniziazione di un’umanità che si apre a sé stessa, della sua ideale ammissione nel Mondo e nel Tempo. Poiché ogni evento tende sempre a darsi una forma, «l’Ambleto» si da forma di tragedia. E tragedia è, fino in fondo, con Peripezia e Catastrofe, Agnizione, poiché ogni tragedia è un processo di conoscenza, e qui è il Potere a svelare il proprio volto fra gli uomini, e Catarsi, poiché ogni conoscenza raggiunta, per quanto dolorosa, è sempre momento di serenità della ragione irrequieta. Ma in quanto nasce da un mondo umano caotico e primigenio, essa non può che configurarsi come Tragedia Primigenia, come ideale origine della tragedia nella sua forma primitiva ed assoluta, contenente tutte le altre, infinite nel tempo e nello spazio, che le faranno seguito. È una sorta di Epifania del Tragico, di svelarsi improvviso e lampante della natura irriducibilmente tragica degli avvenimenti umani, di quel famoso «ritmo tragico» che appare come il ritmo stesso di ogni realtà e di ogni conoscenza. È la forma stessa che si darebbe, che si potrebbe dare, il teatro dei popoli primitivi, se il teatro dei popoli primitivi aspirasse a una forma. Per noi «l’Ambleto» si pone dunque come momento iniziale non solo di un teatro, individuato nel tempo e nello spazio, ma forse del Teatro stesso, come avventura e corsa nell’ignoto del sentimento e della ragione.