Un progetto di Casa Tesori
A cura di Davide Dall’Ombra, Luca Fiore, Giuseppe Frangi e Francesca Radaelli
Meeting di Rimini
20-26 Agosto 2017
IL PASSAGGIO DI ENEA
Davide Dall’Ombra
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Passati i titoli di coda del video introduttivo della mostra, il visitatore deve immediatamente fare i conti con la prima delle dieci opere proposte, direttamente connessa al tema indagato e capace di attingere alla metafora virgiliana. È il dittico del 2010 di Julia Krahn, Mutter und Tochter (Madre e figlia), in cui l’artista si ritrae con la madre in due immagini che si completano in un pendant struggente. La Krahn usa da diversi anni la fotografia come un metodo di conoscenza di sé e dei più stretti rapporti famigliari. Quello che mostrano queste due foto è l’inizio di questo processo, e il primo passo – dopo alcuni lavori su di sé, sul proprio io e sul proprio desiderio di maternità – non poteva che concentrarsi sulla propria madre. Questo dittico è un percorso di conoscenza ma anche di accettazione, frutto di un travaglio, di una lotta affettiva ingaggiata con la madre, accolta come il proprio Anchise sulle spalle, nel primo scatto, e in un abbraccio pacificatorio, nel secondo. L’artista si gioca il tutto per tutto e chiede all’affetto principe e primigenio della sua vita di fare altrettanto. La nudità totale è l’espressione necessaria dell’accettazione di questa sfida. Quello che vediamo non è il frutto di un processo meditato a tavolino, ma di una conquista avvenuta proprio durante la posa. La fusione tra arte e vita è totale e l’arte diventa luogo in cui accogliere un processo naturale di accettazione del proprio essere figlia e della mortalità della propria madre. L’esecuzione dell’opera d’arte in sé, il suo processo tecnico – fatto di posa, autoscatto, cambio di pellicola, riposizionamento, fatica fisica, impazienza, imbarazzo… – produce due immagini inattese e perfette nella loro complementarietà, destinate a diventare il certificato di un punto di svolta d’ora in poi imprescindibile per il loro rapporto. È un’opera iconica e pienamente riuscita di quel processo di vaglio, rifiuto e conquista dei propri padri. E il fatto che a interpretare la metafora virgiliana sia una donna con la propria madre non è una semplice sostituzione di genere, ma un segno importante di come l’arte contemporanea registri il mutare dei tempi e la ritrovata centralità della figura femminile. Non è un caso che per proseguire la mostra occorra passare in mezzo a queste due immagini, due colonne d’Ercole necessarie che ci buttano a precipizio fuor di metafora e dentro la vita, alzando non poco il grado di aspettativa con cui approcciarsi alle altre opere presentate.
Si tratta di nove “casi” in qualche modo esemplificativi, scelti tra i tanti possibili anche grazie alle proposte sempre pertinenti di Francesca Radaelli, senza nessuna pretesa di codificare categorie d’appartenenza o sintetizzare la varietà degli approcci riscontrabili. L’intento è stato quello di lasciare che fosse l’opera d’arte, non solo a raccontare uno dei modi possibili di rapportarsi con i propri padri, ma a mostrare il dramma, l’ampiezza e ricchezza inesauribile di questo rapporto, innanzitutto per sé.
Ma i sette artisti viventi, ognuno presentato nel proprio spazio pensato a misura, vengono in qualche modo introdotti da due maestri del ’900: Andy Warhol e Michelangelo Antonioni, presenti grazie a una delle numerose intuizioni di Giuseppe Frangi che hanno segnato i passi di questa mostra. Due giganti di oggi impegnati in una coppia di omaggi a due giganti del passato: Leonardo e Michelangelo.
La prima opera è The Last Supper, un dipinto in acrilico su serigrafia riportata su tela del 1986 che testimonia l’ultimo ciclo del protagonista della Pop Art americana, che sarebbe scomparso l’anno seguente. Si tratta di un grande numero di opere di differente dimensione e tipologia, interamente dedicate all’Ultima cena leonardesca, nate per la mostra milanese allestita nei mesi successivi alla Galleria del Credito Valtellinese, nel Palazzo delle Stelline, a pochi passi dal Cenacolo. Rischia di essere il più complesso e articolato ciclo religioso mai realizzato da un artista americano, a testimonianza di una consapevolezza dell’iconicità dell’immagine leonardesca, tratta da una riproduzione comprata in un negozio coreano non distante dalla Factory, ma anche di una fede dell’artista tanto nascosta quanto reale, legata anche all’amore per la propria madre. Il grande dipinto nel refettorio di Santa Maria delle Grazie è qui citato letteralmente e usato come matrice della propria opera, rivisitata con la ripetizione e il colore fluo tipici del linguaggio di Andy Warhol. È un lavoro in sé rappresentativo di un modo di rapportarsi ai propri maestri, che punta a cogliere l’iconicità del modello da riprodurre, ossessivamente, nelle sue varianti per numero e colore. Un elogio della superficie, che Warhol intuisce essere il vero campo d’azione per l’artista moderno alla ricerca della profondità. Non c’è nulla d’irriverente, insomma, semmai un desiderio: «Pensi che gli italiani vedranno il rispetto che ho per Leonardo?», confidò Warhol all’amico Pierre Restany.
Quella che il grande Michelangelo Antonioni dedica alla Tomba di Giulio II a San Pietro in Vincoli, e al celebre Mosè di Michelangelo posto al centro del complesso, è un’opera sul silenzio. Il cortometraggio Lo sguardo di Michelangelo è considerato il testamento del regista. Realizzato nel 2004, tre anni prima della sua scomparsa, è l’unica opera in cui Antonioni compare come attore e lo fa occupando tutta la scena. Il regista si fa filmare mentre entra nella chiesa deserta, si avvicina trascinando i propri passi verso la scultura michelangiolesca, lentamente si approssima, osserva in profondità la scultura, fino a cedere a un contatto diretto, accarezzandola. Un percorso semplice, intenso e commovente, reso struggente dalla manifesta fatica del protagonista, segnato dall’età e, soprattutto, dall’ictus che lo aveva colpito quasi vent’anni prima, rendendogli difficoltoso camminare e parlare. Ma il silenzio non è qui il segno di una sconfitta obbligata dalle ingiurie del tempo, quanto, piuttosto, il vero protagonista, lo strumento con cui rendere il proprio omaggio a Michelangelo, che, tradizione vuole, quel silenzio tra arte e vita aveva vissuto per primo in tutta la sua drammaticità, arrivando a colpire la statua terminata, proprio pronunciando la frase «Perché non parli?!». Antonioni attinge all’esasperazione di Michelangelo per una bellezza perfetta che non si traduceva in vita, in possibilità di parola, e crea quel silenzio, ottenendolo con una ricerca tecnica complessa, necessaria per annullare i rumori della città e mantenere solo quelli pertinenti e significanti, come quelli prodotti dai passi lungo la navata o dalla fede nuziale sulla superficie marmorea. È così che lo sguardo di Michelangelo ne diventa il suono.
La ripetizione compulsiva che sprigiona energia, di Warhol, e la carezza di un silenzio pieno, di Antonioni. Due modi opposti segnano il diapason possibile dell’espressione di un amore riguadagnato verso i propri padri, e forniscono al visitatore il viatico per questo nuovo viaggio nell’arte contemporanea.
OPERE IN MOSTRA
Al Meeting di Rimini del 2017 sono state esposte: I Promessi Sposi cancellati per venticinque lettori e dieci appestati (2016) di Emilio Isgrò; Madonna (2007) di Alberto Garutti; Arcipelago (2016-2017) di Giovanni Frangi; Via Crucis (2011) di Adrian Paci; New York, November 8, 2001 (2001) di Wim Wenders; Procession (2015) di Andrea Mastrovito; Qui Ora (2011) di Gianni Dessì; Mutter und Tochter (2010) di Julia Krahn; Lo sguardo di Michelangelo (2004) di Michelangelo Antonioni; The Last Supper (1986) di Andy Warhol.