ROMA E LA PERIFERIA
Stanza 2
In seguito a una denuncia per corruzione di minori e atti osceni in luogo pubblico, nel 1950 Pasolini fugge a Roma con la madre Susanna, dopo essere stato espulso dal PCI di Udine e aver perso il lavoro a Valvasone, dove insegnava dal 1948. Nella capitale si mantiene facendo lavori saltuari a Cinecittà, mentre scrive alacremente le sue prime pagine ambientate a Roma, studiando in presa diretta il dialetto romano, anche grazie a un giovane imbianchino incontrato sulle rive dell’Aniene: Sergio Citti. Parallelamente comincia a frequentare un nutrito gruppo di amici e intellettuali, tra i quali Sandro Penna, Carlo Emilio Gadda, Giorgio Caproni e Attilio Bertolucci. Nel 1951 viene assunto in una scuola media di Ciampino e comincia la sua collaborazione con Paragone, la rivista fondata l’anno precedente da Roberto Longhi. Al centro di questi anni nelle giornate e nelle riflessioni pasoliniane ci sono le borgate: spianate squallide, abbandonate, colme di immondizia, più vicine alle favelas brasiliane che alle grigie periferie industriali del nord Italia. Si muovono tra queste rovine di fabbriche abbandonate, case non finite e già vecchie, una serie di personaggi dai nomi pittoreschi, la cui interiorità elementare si rivela nell’azione, più che nell’affondo psicologico. Nascono così i romanzi Ragazzi di Vita (1955), Una vita violenta (1959), e Il Rio della Grana, poi confluito in Alì dagli occhi azzurri (1965), che “ho pensato contemporaneamente […] negli stessi mesi, negli stessi anni e insieme li ho maturati e elaborati”.
L’occhio già cinematografico dello scrittore Pasolini segue le parabole del Riccetto, di Tommasino, del Piattoletta con un realismo empatico profondo, che si traduce nella ricerca di una lingua il più possibile fedele a quella dei suoi protagonisti: un dialetto rozzo, imbrattato, appreso da “parlanti” molto distanti da lui.
È questa necessità di “mantenere il contatto con la realtà, un contatto fisico, carnale, direi quasi di ordine sensuale” a portare Pasolini al mezzo espressivo della cinepresa: “avvicinarsi al cinema è stato quindi avvicinarsi ad una tecnica nuova che già da tempo avevo elaborato nella mia letteratura”.
Lo studio e la dedizione all’immagine cinematografica sembra sostituire, in questi anni, l’espressione puramente grafica ed artistica: i brani dei romanzi romani trovano la loro ideale iconografia nei frame di Accattone (1961), qui riportati dalle pagine della prima edizione della sceneggiatura.