La primavera di Haring di Giovanni Testori
Per accompagnarvi alla prossima visita guidata di Keith Haring con Giuseppe Frangi (26 marzo, ore 18, Palazzo Reale) vi proponiamo un articolo di Giovanni Testori
La primavera di Haring. Graffiti per una generazione che scompare
Perveloce che il tempo corra e per quanto con la sua velocità allontani ogni cosa, soprattutto le espressioni che hanno voluto gareggiare con Iui nell’essere (di qui e adesso), risulta ancora troppo presto per stendere un qualunque, serio bilancio del «graffitismo»; un bilancio che porti a una designazione di forza d’intensità e di valori. Del resto non è, e non sarà mai operazione facile, quella di Ieggere questa espressione d‘arte murale, ove pure al posto dei muri si trovino palizzate di legno o i più svariati supporti pubblicitari; leggerla, dicevo, al di fuori del bruciante, spesso drogatissimo contesto; forse, alla bisogna, potrebbero risultar più utili le fotografie dei molti libri editi sull’argomento, ovvero i fotogrammi dei film ad esso relativi; dei quali, in ogni caso, bisognerà pur sempre servirsi. Non ci illudiamo, certo, di recuperare la violenta, escandescente e anarchica meraviglia né dell’atto della creazione, né di quello della prima e più immediata fruizione; conosciamo, altresi, benissimo il rischio in cui ci si pone quando si vuol fermare e, forse, salvare per i posteri (o anche solo per noi stessi) un’attività così inquieta, così bruciata, cosi, ecco, persua natura, nomade ed errabonda.
Ma ci sarà pure la ragione per cui ancora oggi e anche qui, a Milano, ogni qualvolta ci accade di passare davanti a quel che resta d’una parete «graffiata», avvertiamo una sorta di brutale soprassalto emotivo, quasi che quelle stravolte processioni di simboli e figure, scaricatesi sui muri come per una ribelle, atroce incontinenza, abbiano in se la forza di scaraventarci in un piano esistenziale, un piano di sensorialità, sul quale forse abbiamo lasciato depositare troppa e troppo aurata polvere. In questo senso, sarà difficile riconoscere come il famosissimo «telero» di Guernica (1937), tra inattaccabile infanzia e Iuciferina coscenza del futuro, aveva gia messo il dito sulla possibilità de|l’evento. In effetti, Guernica e il primo e forse insuperato graffito; del graffito, essa ha altresi la labile consistenza. Ho citato Guernica, e non a caso. Per quanto dirlo sembri blasfemo, proprio Guernica sta al fondo, anche memoriale, del graffito maggiore di Keith Haring (1958-1990) esposto in questi giorni a Milano. Esso venne eseguito alla stazione San Babila della metropolitana nel 1984 l’anno in cui Keith ebbe a lavorare direttamente nella nostra città lo stesso 1984 in cui m’accadde, e con non poco stupore, di vederlo.
Ricordo che anche allora il moto di sollevamento dall’immenso esemplare picassiano di questa festa giovanile che va rovesciandosi in liturgia funeraria, mi parve irrefutabile.
Ma perchè un tale rovesciamento? Pur nelle suaccennate difficoltà, é certo che Keith Haring sia stato del graffitismo una delle punte più libere e alte; certo, la meno ideologicamente e politicamente infastidita; e, insieme, la più accesa nel rischio esaltativo dell‘adolescenza.
Affondato nel vivere, fino a morire di Aids ad appena 32 anni, Keith è riuscito a salvare nelle proprie opere i segni di una impossibile primavera (basti osservare gli altri graffiti esposti nella stessa mostra, ed eseguiti sempre nello stesso anno per Fiorucci). La sua invenzione del radiant child (bambino radioattivo), sta da questa parte; una parte che, purtroppo, non aveva in sé la capacità di rispondere o quantomeno resistere a tutti gli urti e le domande della vita. Cosi i miti fra elettronici e televisivi troveranno proprio qui, in questo grande «graffito monocromo di San Babila» il loro straordinario drappo o paravento funebre.
Con quel cavallo-radio e quell’imprenditore-tv, che avanzano come in un antico corteo, e la congerie dei radiant child che sprizzan fuori onde magnetiche; poveri angeli destituiti d‘ogni segno e ragione; fin quella di proteggerci lungo il viaggio finale. Proprio per questo, nel suo felice ma insieme inesorabile bianco su nero, l’opera prende il peso d‘un testamento; emblematico non solo della fine del graffitismo, ma della fine di un‘intera generazione.
Giovanni Testori
“Corriere della sera” – domenica 3.11.91